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Full text of "Studj di critica e storia letteraria. Seconda edizione con correzioni e aggiunte"

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STUDI 


CRITICA E STORTA LETTERARIA 


DI 


ALESSANDRO D'ANCONA 


PARTE SECONDA 


SECONDA EDIZIONE CON CORREZIONI E AGGIUNTE 








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BOLOGNA 
NICOLA ZANICHELLI 


MCMXII 


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FROPRIETÀ LETTERARIA 


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IV. 
DEL “ NOVELLINO ,, 
E 
DELLE SUE FONTI 
D'Ancona - IL 


The University of Iowa 
Libraries 


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Pubblicato, per la prima volta, nella Romania, 1873-74, e riprodotto 
nel vol. Zanichelli, 1880, p. 217. Ora si ristampa con modifi- 
cazioni e giunte. 


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Raccogliendo in maggior copia cbe finora da 
altri non si facesse, ! notizie riguardanti l’origine 
delle varie narrazioni onde si compone l’ antico 
libro detto il Novellino, stimo non disutile, anzi 
necessario, premettere qualche cenno sul tempo in 
che esso dovette esser compilato, e se fu opera di 
molti o di un solo, e in tale ultimo caso chi questi 
possa essere, riferendo compendiosamente le diverse 
opinioni messe fuori da quanti finora ebbero occa- 
sione di trattare siffatto argomento. * 


I. 


E prima d’ogni altra cosa è da sapere come il 
Novellino o Libro di Novelle e di bel parlar gen- 
tile non sia giunto a noi in una sola ed unica 
forma, ma in più e diverse, e come le differenze 
fra testo e testo non siano soltanto di frasi e di 
parole, nè di maggiore o minor ampiezza del rac- 
conto, ma anche talvolta sostanziali e di materia, 
trovandosi nell’uno Novelle che all’altro mancano 
del tutto. E se pochi anni addietro poteva dirsi, 


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4 DEL « NOVELLINO » 


che i testi si riducessero a due soli, il Gualteruz- 
ziano cioè e il Borghiniano, ora a questi conviene 
aggiungerne altri due, che denomineremo Pan- 
ciatichiano- Palatino e Marciano. 

Il primo di questi quattro testi è rappresentato 
dalla stampa fattane dal letterato fanese Carlo 
Gualteruzzi, in Bologna nell’ anno 1525, nelle case 
di Girolamo Benedetti, ad esortazione di Pietro 
Bembo * col titolo: Le Cento Novelle Antike. E 
cotesta è anche la prima edizione del nostro libro, 
perchè è ormai dimostrato da una Lezione di Vin- 
cenzio Follini, 4 che si ingannano a partito coloro 
che notano due anteriori edizioni fiorentine del 
monastero di Ripoli, datate dal 1482 e ’83, laddove 
invece trattasi di una sola, e del Decamerone. E i 
nuovi dubbj risollevati in proposito dal prof. Lon- 
ghena, © furono di poi appieno dissipati dall’esame 
più accurato che Domenico Garbone* ebbe a fare 
dell’ esemplare ambrosiano. Medesimamente l’ altra 
edizione che volevasi anteriore pur essa alla bolo - 
gnese, ” e che sì conservava nella biblioteca dei 
Conti di Camposampiero in Padova, meglio esa- 
minata risultò essere, non altrimenti che l’esem- 
plare ambrosiano, una riproduzione fatta dal Gual- 
teruzzi o da altri, ma senza alcuna nota nè di 
luogo nè di stampatore nè di anno, della edizione 
del 1525 *. Intanto, come non sappiamo per certo 
se il manoscritto del quale si valse il Gualteruzzi 
era copia di quello del Bembo, così ignoriamo se 
il codice fiorentino della Palatina, segnato E, 5, 
7, 57 (numerazione vecchia 133,5) e che concorda 
mirabilmente colla edizione del Benedetti”, sia 
quello al Gualteruzzi .appartenuto: che se non 


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E DELLE SUE FONTI 5 


fosse, si potrebbe dire che la stampa del 1525 
rappresenta tre codici, dei quali due perduti. uno 
tuttavia in essere. !° 

L’ altra forma del Novellino è quella che tro- 
vasi nella edizione giuntina del 1572, curata da 
Vincenzio Borghini, e condotta da lui sopra un 
testo ch’ egli si affanna a gridare migliore del gual- 
teruzziano. Diciassette sono le Novelle !! che man- 
cano in questa stampa confrontata coll’antecedente, 
e la lezione di tutte è generalmente diversa dalla 
gualteruzziana, sia per varietà di testo, sia per 
arbitrio dell’ editore. Certo il Borghini parla sempre 
di un altro testo, di un nuovo testo venutogli alle 
mani; ‘*@ ma non pochi dubitarono che egli, pur 
giovandosi in qualche caso di un altro codice con 
sole varietà di lezione, ‘* e (probabilmente per paura 
dell’ Inquisizione !4) espungendo varie novelle, 
queste rispigolasse poi qua e là in altri libri, anche 
meno antichi del Novellino gualteruzziano, per 
giungere così a rifare il numero delle cento. Ad 
ogni modo, un codice che riproduca tal quale non 
solo nel dettato, ma anche negli argomenti delle 
Novelle 1’ edizione del Borghini, come pur ve n’ ha 
tuttavia che riproducono esattamente quella del 
Gualteruzzi, a tutt’ oggi non si è trovato. ** 

Il testo Panciatichiano-Palatino n. 138, !° pri- 
mamente scoperto dal prof. Alessandro Wesse- 
lofsky, fu da noi che ne avevamo preso copia 
della parte inedita, e publicatone qualche saggio, ! 
indicato all’ ottimo amico ed egregio bibliofilo 
Giovanni Papanti. Egli ne trasse ventitrè narra- 
zioni, delle più che cento che il codice contiene, 
dando naturalmente la preferenza alle Novelle di 


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6 DEL « NOVELLINO » 


lezione molto diversa dalla vulgata o nuove del 
tutto, e formandone così una bene accetta aggiunta 
al suo Catalogo dei Novellieri Italiani. ?* 

Finalmente va anche ricordato il codice Mar- 
ciano (cl. VI, n. CCXI,, già posseduto da Jacopo 
Morelli e trascritto nel sedicesimo secolo, dal quale 
il sig. Andrea Tessier, trasse fuori e pubblicò per 
occasione di nozze, ?!° alcune Novellette inedite. 
Secondo l’ accurato bibliofilo veneziano la lezione 
di questo codice supererebbe in bontà non solo la 
stampa borghiniana, ma anche la gualteruzziana : 
del qual giudizio lasciamo a lui intero il carico. 
Noi non possiamo discorrerne se non per remini- 
scenze di una rapida ispezione, dalla quale rile- 
vammo che questo codice conserva il numero del 
cento, nè differisce dal testo gualteruzziano se 
| non per lievi varietà di lezione. E quanto alle 
Novelle di altro argomento, questo è da notarsi, 
che le rubriche rimangono sempre le stesse, se 
anche varia il racconto. Così il piovano Porcellino 
e madonna Agnesina restano protagonisti delle 
Novelle LIV e LVII, quantunque si racconti di 
loro altra cosa che nel testo gualteruzziano : mede- 
simamente la Nov. LXXXVII ha sempre l’inti- 
tolazione d’ uno che si andò a confessare; ma 
l’ avventura narrata è diversa. Ma e di questo, e 
dell’intero panciatichiano-palatino potremo meglio 
giudicare quando si metterà in atto il disegno, 
più volte annunziato, di riprodurre il Novellino 
secondo le varie lezioni offerteci dai codici che ne 
sono sparsi per le biblioteche. ?*° 

Aspettando dunque maggiori e più minute no- 
tizie da accurati raffronti dei codici, ? noi opine- 


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E DELLE SUE FONTI 7 


remmo intanto, che il testo gualteruzziano e i codici 
marciano e panciatichiano-palatino sieno di più 
‘ remota antichità, * e che la stampa borghiniana 
ci offra dell’ opera una forma apocrifa e posterior- 
mente raffazzonata: sicchè la primitiva e genuina 
sì contenga in quelli, e propriamente nella stampa 
gualteruzziana, piuttosto che nella edizione del 
Borghini. 

Le prove di questa nostra asserzione facilmente 
si traggono anzitutto dal confronto del dettato; e 
basta invero paragonare fra loro i luoghi ove la 
stampa del Giunti differisce da quella del Bene- 
detti e dalla lezione del codice panciatichiano, per 
convincersi che la lezione borghiniana è rammo- 
dernata. Più difficile può sembrare l’ assegnare 
data precisa alle compilazioni che teniamo più 
antiche; ma se una più piena ed esatta cognizione 
della nostra letteratura del XIII secolo, e insieme 
la sana critica non ci permettono di riconoscere 
col Gualteruzzi nel Novellino, « la più antica di 
tutte le cose in prosa volgare », ? tuttavia noi 
opiniamo che indizj certi della età abbastanza 
rimota in cui fu scritto si possano desumere dai 
personaggi onde si fa in esso menzione, nessuno 
dei quali oltrepassa la fine del dugento. Non sarà 
forse in vano speso il tempo e lo studio a ricer- 
care l’ età probabile nella quale fu posto insieme 
un libro, che può dirsi incominciare la lunga e 
copiosa serie dei novellieri italiani. * 

Prendendo, adunque, l’edizione del Gualte- 
ruzzi, troveremo nella Novella XXXV, ricordato 
maestro Taddeo; e se questi è, come sembra, il 
celebre medico fiorentino, è noto come egli morisse 


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8 DEL « NOVELLINO » 


nel 1295.* Ma di lui non si parla come di per- 
sona defunta, e perciò non è necessario supporre 
che la novella sia posteriore all’ anno sopranotato ; 
e trattandosi di persona così celebre ai suoi dì, 
non parrà impossibile che l’ arguta risposta, poco 
dopo essere stata pronunziata, si divulgasse anche 
fuori di Bologna, ove Taddeo tenne scuola sino 
dal 1260. ?° 

La Novella XL ricorda Saladino uomo dî corte; 
e se questi è, come congettura il Manni,” una 
persona stessa con Saladino di Pavia, avremmo 
qui un poeta che allo stile provenzaleggiante delle 
sue rime si appalesa del mezzo del secolo decimo- 
terzo; il che sarebbeci anche confermato dal notare 
che la scena del racconto è in Sicilia, ove con- 
correvano, durante il regno degli Svevi, i poeti 
che aderivano alla maestà di quei principi ?? e 
alla loro forma di poetare. 

Nè molto più oltre ci conduce l’altro poeta, 
Migliore degli Abati, menzionato nella Novella 
LXXX: dappoichè Carlo d’Angiò, presso il quale 
è fatto riparare, morì, come è generalmente noto, 
nel 1285, ma tenne il reame fino dal 1266. 

Nella Novella XLI è menzionato un Messer 
Paolo Traversari, che dallo storico ravennate Gero- 
lamo Rossi, sulla fede di antichi documenti, è 
fatto morire nel 1240, *° 

Il Marco Lombardo della Novella XLIV è pro- 
babilmente quello stesso uomo di corte introdotto 
da Dante nel XVI del Purgatorio, e che in quel 
canto, a scapito dei tempi presenti, esalta i pas- 
sati, anteriori immediatamente a quelli in che 
Federigo ebbe briga fra 1’ Adige e il Po. Sono 


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E DELLE SUE FONTI 9 


codesti probabilmente i tempi della prima gioventù 
di Marco, dei quali egli serbava più bella e cara 
memoria; e che ci riconducono verso il 1230. E se 
vogliasi in questo Marco Lombardo vedere pure 
quello stesso uomo di corte che è nominato dal 
Villani, *° come profetante prossima caduta al Conté 
Ugolino perchè a lui non mancava se non l'ira di 
Dio, senza dire che qui può trattarsi di un aneddoto, 
appropriato dalla tradizione a persona celebre, e 
fors' anco già morta, converrà sempre risalire 
alquanto indietro dall’ anno 1288 in cui il fatto 
è narrato; poichè il cronista riferisce la risposta 
di Marco, come fatta un poco innanzi: e in niun 
tempo cadrebbe meglio che tra 1’ 82 e 1’ 84, quando 
veramente la potenza di Ugolino fu al colmo. 

Nel XIV del Purgatorio sono pur anche ricor- 
dati Lizio da Valbona e Rinieri da Calboli, che 
danno argomento alla Novella XLVII; ed è noto 
che ambedue sono citati dal poeta a testimonio 
della cortesia e dei bei costumi che regnavano in 
Romagna circa la metà del dugento. Rinieri fu 
ucciso, a dire di Benvenuto da Imola, nel 1295, 
e forse è quello stesso che fu potestà di Parma 
nel ’62, 31 

Di due vescovi troviamo fatto menzione; del- 
l'uno, ed è Aldobrandino, che tenne la sede di 
Orvieto dal 1271 al’79, nella Novella XXXIX: *? 
di Mangiadore, * vescovo di Firenze dal 1251 al 
"74, nella Novella LIV. 34 

Altrove, nella Novella LXXXVIII si ricorda un 
potestà di Firenze, Castellano de’ Cafferi manto- 
vano; e questi fu a tale ufficio condotto, secondo 
assevera il Manni, ?° nell’agosto del 1240. 


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10 DEL « NOVELLINO » 


E del secolo decimoterzo sono pure i prota- 
gonisti di altre Novelle: il primo (1121-1190) ed 
il secondo Federigo (1194-1250): il Re vecchio 
(m. 1189) ed il Re giovane d’ Inghilterra (1156-1183): 
Riccardo cuor di Leone (1157-1199), il Saladino 
d’ Egitto (1137-93), Ezelino da Romano (1194- 
1259), 3° il re Currado (1228-1254), Carlo d’Angiò 
(1220-1285). Raimondo di Provenza (1198-1245), 
Imberal dal Balzo (m. 1229?),* lo Schiavo di 
Bari * ed altri assai. 

Nel testo borghiniano troviamo invece altri per- 
sonaggi, appartenenti al secolo decimoquarto. Tali 
sarebbero, ad esempio, Corso Donati (Nov. XV), 
morto ‘nel 1308, e Uguccione della Faggiuola 
(Novella XV), morto nel 1319, dei quali le gesta 
e la rinomanza spettano più ch’ altro al trecento. 
Certo potrebbe opporsi che Corso comincia ad 
apparire nelle storie colla battaglia di Campaldino 
(1289) e col tumulto contro Giano della Bella (1295), 
ma la Novella parrebbe riferirsi al tempo (1300-1) 
in che il barone fu in esilio. °° Anche di Uguccione 
cominciasi a parlare nello scorcio del dugento : 4° 
nel ’92, egli è già potestà in Arezzo, e nel ’97, 
capitano generale dei ghibellini di Romagna; ma 
nella Novella vediamo Uguccione, non solo padre, 
ma énvecchiato, sicchè siam costretti ad assegnarla 
al secolo decimoquarto. 

Nella stessa Novella XV borghiniana si dice di 
un G. da Camino. E qui molto ha almanaccato il 
Manni, ‘* trattandosi di designazione fatta colla 
sola iniziale, e potendovisi nascondere sotto o 
Guecello o Gherardo, od altri ancora della illustre 
famiglia. Di Guecelli sembra che se ne abbiano 


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E DELLE SUE FONTI 11 


due: uno dei quali obît in mense augusti 1272; 
ma questo non potrebbe esser il contemporaneo e 
l’amico di Corso Donati, come la Novella ce’l 
rappresenta. Ei deve esser dunque, o Guecello 
figlio di Gherardo e fratello di Madonna Gaia, o 
anche Gherardo stesso. Di Guecello abbiamo 
memorie posteriori al 1312; * ma poichè il passo 
suona a questo modo: Messer G. da Camino poco 
innanzi ch'egli morisse avendo dato a Messer Corso 
quattromila lib. per aiuto alla sua querra, egli è 
chiaro parlarsi qui di Gherardo il buono, vivo 
ancora nel 1300, perchè come tale ricordato da 
Dante, ‘ e in stato perciò di aiutar Corso, pugnante 
per ritornare, come vi riuscì (1301), in patria, 
fidandosi ai Neri, a Bonifacio, a Carlo di Valois. 

Più sicuri saremmo, seguendo il Manni, ‘* circa 
l'età in che visse Ricciardo dei Manfredi della 
Novella XVI borghiniana, poichè egli dice che 
dagli storici se ne parla come di Signore di Faenza 
all'anno 1336. ‘° Ma men certe ci paiono le affer- 
mazioni del Manni # circa il Cecchino de’ Bardi 
capitano di guerra a S. Miniato (Nov. XVI), che 
egli identifica con un Cecco q. Geri de’ Bardi, 
nominato in un atto del 1313. E semplici con- 
getture diremmo esser quelle dello stesso erudito, 
quando ritrova nel Messer Passuolo, pur della 
stessa XVI Novella, il Messer Passa del fu Zato 
Davanzati, di cui si parla in atti pubblici del 1303. 

Con maggiore o minor certezza per gli anni 
precisi, ci sembra però che con tutti questi per- 
sonaggi delle novelle borghiniane siamo fuori del 
secolo decimoterzo, e ai principj, almeno, del 
decimoquarto. 


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12 DEL « NOVELLINO » 


Più lungo discorso richiederebbe il determinare 
il tempo e i fatti a cui si riferisce la Novella LXV 
del testo borghiniano, nella quale si narra di due 
ciechi vissuti a Parigi quando « il re di Francia 
avea una guerra col Conte di Fiandra, dove ebbe 
tra loro due grandi battaglie di campo, là ove 
morirono molti buoni cavalieri, ed altra gente 
dall’una parte e dall’ altra, ma le più volte il re 
ne ebbe il peggiore »; e tanto pur dice, con poca 
varietà di dettato, la XIV panciatichiana nella 
stampa del Papanti. ll Manni qui annota che il 
fatto avvenne nel 1383, ‘° e rimanda al lib. VIII, 
cap. 75, di Giovanni Villani. Vero è che qui àvvi 
un errore materiale di stampa, dovendosi invece 
di 1383, leggere 1303. Il Lami”° poi, appoggian- 
dosi a questa Novella per affermare l’ anteriorità 
‘ dell’ Avventuroso Ciciliano di Buson da Gubbio 
sul nostro libro, porta una data quasi consimile 
a quella del Manni, cioè il 1304, quando terminò 
per trattato la guerra in che i Francesi furono 
sconfitti a Courtrai, e vincitori a Mons-en-Puelle. 
Più oltre andrebbe il Robert, * sostenendo che la 
Novella debba esser stata scritta verso il 1328, 
dopo la vittoria di Cassel. Ora, poichè la narra- 
zione trovasi anche nel testo panciatichiano, che 
noi teniamo del secolo decimoterzo, °* è da vedere 
se veramente questa narrazione debba riferirsi 
invece agli anni del decimoquarto. Noi vorremmo 
esser più esperti di storia francese, e poter perciò 
con tutta sicurezza affermare una data diversa 
dalle sopra citate; ma pur vediamo che nel 1296, 
già ferveva aspra lotta tra Filippo il Bello e il 
Conte di Fiandra, e neppur ci meraviglieremmo se 


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E DELLE SUE FONTI 13 


la guerra di che si fa qui menzione fosse quella 
che arse nel 1213 tra Filippo Augusto e il conte 
Fernando, 5 nè ad essa disconverrebbe quel che 
dice la Novella, che cioè le più volte il re n’ ebbe 
la peggio, come può dirsi infatti che avvenisse 
innanzi la gran vittoria di Bovines. * 

Possiamo dunque concludere che nei testi da 
noi tenuti per più antichi, niun fatto e niuna per- 
sona sono menzionati che oltrepassino il finir del 
dugento : laddove invece dell’ età posteriore sono 
i fatti e le persone del testo borghiniano. Per ciò, 
gli argomenti addotti dal Lami a provare l’ ante- 
riorità dell’ Avventuroso Ciciliano, sicchè il Novel- 
lino sia « posteriore all’ anno 1311 e 1313, e forse 
compilato intorno al 1325 o 1330, 5° » non hanno 
molto peso, essendo tutti poggiati sul nominare 
che si fa nella XV, Uguccione della Faggiola « che 
fiori nel 1313 e seguenti », e nella LXV la surri- 
cordata guerra tra Fiandra e Francia. Or queste 
Novelle non appartengono al testo gualteruzziano ; 
e quanto all’ ultima, comune al borghiniano e al 
panciatichiano, abbiam detto che sia da pensarne. 

Nè maggior valore ha un altro argomento pro- 
posto dal Lami per la Novella della cavalleria del 
Saladino (LI borghin.), che trovasi anche nel 
romanzo di Messer Bosone da Gubbio. Riferiamo 
qui le precise parole dell’ uomo erudito, nella 
seconda delle sue Cinque lettere sul Decamerone. 
« Il racconto della cavalleria del Saladino, scrive 
egli, è copiato colle stesse parole del Romanzo; e 
se nel Novellino il nome di chi lo fè cavaliere, e 
diè la gotata al Saladino, è Messer Ugo di Tabaria, 
è manifesto segno che Bosone non prese quel rac- 


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14 DEL « NOVELLINO » 


conto dal Novellino, poichè ei lo fa di Messer Ulivo 
di Fontana, ed altre cose vi frammischia che nel 
Novellino non sono ; e secondo lui, quello che fece 
cavaliere il Saladino e che gli diè la gotata, fu 
Gian di Berri, e non Messer Ugo di Tabaria. 
Imperciocchè chi rubò questa Novella, trasferì a 
Messer Ugo di Tabaria, come più alto signore e 
più celebre, quello che Bosone dice di Gian di 
Berri. Oltre che non è verosimile che uno il quale 
compone un lungo romanzo, voglia inserirvi un 
pezzo preso tale quale da un altro: ma sembra 
più probabile che uno il quale raccoglie fatti spez- 
zati, prenda qualche pezzo da un’opera lunga. 
Arroge, che la dicitura e lo stile di quel fatto è 
in tutto uniforme a quello che lo precede e che lo 
seguita in quel Romanzo. Onde non si può dubi- 
tare che sia tutta narrativa originale di Bosone ». >“ 

Or noi diciamo che davvero non riesce molto 
facile dal cangiamento dei nomi rinvenire il « mani- 
festo segno » che sa scorgervi il Lami dell’ ante- 
riorità del romanzo sulla novella: e neanche ci 
pare che l’esser in questa appropriato ad Ugo da 
Tabaria ciò che Bosone riferisce a Gian di Berri, 
abbia sua chiara ragione nell’ esser il primo « più 
alto signore e più celebre » del secondo; dap- 
poichè, come osservò anche G. F. Nott, editore 
dell’ Avventuroso Ciciliano, ®" la differenza non da 
altro procede se non dall’ avere l’ autore della 
Novella seguîto strettamente il testo francese, dal 
quale invece si dilungò il da Gubbio, per accre- 
scere le avventure dei cavalieri da lui posti in 
scena. E quanto all’ altro argomento, esser cioè 
più facile che chi raccoglie fatti spezzati prenda 


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E DELLE SUE FONTI 15 


qualche episodio da un’ opera lunga, anzichè il 
contrario, noi, senza voler discutere la bontà asso- 
luta di cotal dottrina, noteremo soltanto pel caso 
nostro, come l’Avventuroso Ciciliano sia, a con- 
fessione pur anco dell’ editore, °* un intarsio, un 
accozzo di fatti diversi e di episodj qua e là rag- 
granellati. Nè migliore argomento si potrebbe rica- 
vare dall’ esame dello stile : dacchè non è esatto 
quanto il Lami asseverò circa l’ identità di forme 
fra la novella e il romanzo: i quali invece, fra 
loro differiscono, o convengono solo in quanto 
derivano ambedue dal primitivo testo francese, °° 

Ad ogni modo poi, dacchè la Novella della 
cavalleria del Saladino, non trovasi nel testo gual- 
teruzziano, a determinare l’ età recente del Novel- 
lino non può certo giovare un argomento tratto 
da quella compilazione, che provammo seconda in 
ordine di tempo. 


II. 


Quando a determinare l’età del Novellino si 
fosse tenuto il metodo che finora abbiamo seguiîto, 
curando sempre di distinguere le due principali 
lezioni , coloro i quali intorno a questo stesso argo- 
mento scrissero finora e disputarono, non sareb- 
bero certo stati tanto discordi fra loro, e così nelle 
loro sentenze perplessi. Troviamo in fatti, che essi, 
presi tutti insieme, alla compilazione di questo 
libro assegnano un tempo che va dalla fine del 
duodecimo secolo alla metà del decimoquarto, 
fissandone alcuni la data al 1193, altri al 1350, 


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16 DEL « NOVELLINO » 


altri agli anni intermedj, ed i più con linguaggio 
sempre titubante: indizio certo di ipotesi pura- 
mente cervellotiche, non poggiate sopra alcun 
valido argomento di fatto. E invero pel Zannetti, ° 
e poi per l’editore Torinese, vi ha nel Cento 
Novelle un racconto scritto vivente Ezelino da 
Romano, ed altro dopo la sua morte, cioè « intorno 
alla metà del sec. XIII, poco più, poco meno »: 
e « tutta la serie debbe dirsi venuta alla luce dal 
1250 al 1300, o in quel torno ». Lionardo Salviati 
vuole invece che alcune « nascessero innanzi a 
Dante »; altre mostrino « del secol d’oro esser 
fattura, e altre giudicar si possano dell’ età del 
Boccaccio, e di quelle ve n’ ha che scritte furono 
dopo la caduta della favella » : °° il che ci condur- 
rebbe fors’ anco più oltre della metà del trecento. 
. Pel Lami è dimostrato, qual « legittima conse- 
guenza » dei raffronti fatti coll’ Avventuroso Cici- 
liano, che « il Novellino è posteriore all’anno 1311 
e 1313, e forse compilato intorno al 1325 o 1330; 
e quindi si conosce erroneo il sentimento di Lio- 
nardo Salviati che pensa poter essere anteriore 
al 1300, e del signor Manni che lo crede nato 
innanzi sino a Dante Alighieri, vale a dire al 1265, 
quando in esso sono tante cose, accadute tutte 
posteriormente a questo tempo. Si potrebbe però 
forse dire che qualche Novella è più antica del 1300, 
per essere stata presa quella della cavalleria del 
Saladino dal romanzo di Messer Bosone, e quindi 
si verificherebbe che sien più d’ uno gli autori del 
Cento Novelle ».°* Ma di ciò che ha qui detto sul 
conto di lui il Lami, si difende Domenico Maria 
Manni, asserendo che le sue parole furono male 


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E DELLE SUE FONTI 17 


interpetrate, e ch’ egli mai non disse composto il 
Novellino innanzi alla nascita di Dante: ma bensì 
aver pensato e scritto « che la maggior parte degli 
avvenimenti narrati in quest’ opera erano in iscrit- 
tura avanti che posta fosse in carta la Divina 
Commedia, la quale il Salviati negli Avvertimenti 
crede terminata nel 1321 ».°* 

Al Lami che tanto giù scende nei tempi, può 
opporsi il Perticari, il quale, con affermazione 
come tant’ altre delle sue, vaghissima e non con- 
fortata di prove, e per smania di negar ogni gloria 
di lingua ai toscani, risale assai addietro, opinando 
che « le più antiche di tali novelle fossero scritte 
alla corte dei Ciciliani, quando vi furono gittate le 
prime fondamenta della lingua illustre, di cui è per- 
fetto sinonimo il parlar gentile. »* Mare’ Antonio 
Parenti crede invece che parecchie fossero scritte 
« sul declinare del dugento, e tutte l’ altre poi più 
o men tardi, nel secolo successivo, prima che 
fosse pubblicato il Decamerone del Boccaccio ». 5 

Molto più oltre va Domenico Carbone volenda 
provare che più d’ uno è autore del Novellino, e 
che alquante novelle « sono antichissime e furono 
scritte sullo scorcio del XII secolo, ed altre per 
contrario toccano la fine del trecento ». ©” Ci sia 
lecito di fermarci alquanto ad esaminare questa 
sentenza di un critico così assennato e così esperto 
nelle cose dell’ antica nostra letteratura, tanto più 
che egli fa ciò che molti altri non hanno fatto, 
cioè vuol sorreggere le sue asserzioni con argo- 
menti desunti dalla storia. 

Nota adunque il Carbone come nel cod. Lau- 
renziano n. 193, dopo le parole: ruppesi la trie- 


D’ANncoNA - I_ 9 


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18 DEL « NOVELLINO » 


gua e ricominciossi la guerra, colle quali finisce 
la Novella XXV gualteruzziana, si leggono ancora 
queste altre: la quale ancora non ha fine. Ora, 
argomenta il Carbone, « le guerre di Saladino 
coi Cristiani della terza crociata ferveano ancora 
nel 1189, e la novella dovette esser scritta in quel 
torno, o ad ogni modo prima della morte del 
celebre Soldano, la quale fu nel 1193 ». Ma e’ci 
sembra che si voglia così riportare la Novella a 
tempi troppo remoti, e nei quali forse nessun altro 
monumento troverebbesi di scrittura volgare in 
prosa. Or qui è probabile trattarsi di una glossa 
introdotta dall’ amanuense, scrivente in tempo nel 
quale era guerra fra i Cristiani ed i Saraceni di 
Egitto. Non doveva parere al Carbone che, senza 
risalire alla fine del XII secolo, coteste parole: la 
quale ancora non ha fine, avrebber potuto uscir 
dalla penna di chi ricopiasse la Novella verso il 1245, 
allorquando San Luigi crociavasi coi suoi cavalieri 
contro il Soldano d’ Egitto? Questa nuova guerra, 
questa settima crociata non poteva al menante 
apparire quasi una continuazione ed un episodio 
della lotta incominciata sullo stesso terreno fin 
dai tempi del Saladino ? Di più ancora : non poteva 
quella glossa esser introdotta nei tempi in cui 
Niccolò IV (1289) invano bandiva un’altra volta 
la crociata, e già stavan per cadere Tolemaide e 
S. Giovanni d’ Acri, ultimi refugj della cristianità 
in Oriente, ultimi baluardi del regno franco in 
Palestina ? 

Andando innanzi, nota il Carbone come la 
Novella LX gualteruzziana, parlando di Messer 
Alardo concludasi con queste parole: « E fu dili- 


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E DELLE SUE FONTI 19 


berato Messer Alardo di ciò ch’ avea promesso e 
rimase con gli altri nobili cavalieri torneando e 
facendo arme, sì come la rinomea per lo mondo 
8$ corre sovente di grande bontade e d’ oltremara- 
vigliose prodezze ». Queste parole certamente non 
sono molte chiare: e accordiamo pure al Car- 
bone che potessero esser scritte « vivente ancora 
il prode connestabile di Sciampagna, e, come si 
ritrae da tutto il racconto, certamente dopo il 1265, 
quando Carlo d’Angiò era già stato coronato in 
Roma re di Sicilia e di Puglia, o forse quando 
più la fama delle prodezze di Alardo correva per 
il mondo, e perciò verisimilmente verso il 1268, 
poco dopo la battaglia di Tagliacozzo, ove senz’arme 
vinse il vecchio Alardo ». Ma se la « rinomea 
correa » nel 1268, poteva durare anche posterior- 
mente, quando, secondo noi, venne composto il 
libro: senza che, poi, la sentenza è tanto generica, 
che potrebbe pur non riferirsi neanche a Messer 
Alardo. 

« Finalmente, segue il Carbone, in quella di Mes- 
ser Beriuolo cavaliere di corte (LVIII G.) è nomi- 
nato Messer Brancadoria, che nel 1308 era anco vivo, 
e signoreggiava in Genova con Opicino Spinola ». 
Evidentemente qui il Carbone è stato indotto in 
errore da Dino Compagni che parlando nella sua 
Cronica della entrata di Arrigo VII di Lucemburgo 
in Genova nell’ottobre del 1311 scrive, ed è scusa- 
bile 1’ errore in un fiorentino, ch’ ei fu ricevuto da 
Messer Branca Doria che tenea allora la città, « dal 
quale onoratamente fu riceuto e giurò ubidienza ».° 

Il vero è che fino dal 1306, erano capitani e 
rettori di Genova Opizzino Spinola e Barnaba 


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30 DEL « NOVELLINO » 


Doria, figlio di codesto Branca. E Branca certa- 
mente viveva nel 1300, e în corpo parea vivo ancor 
di sopra quando Dante ne poneva l’anima nella 
ghiacciaia infernale e un diavolo in sua vece avea 
preso possesso delle membra di lui: ma proba- 
bilmente egli era già vecchio, se sei anni appresso 
un suo figliuolo poteva esser capo di parte e ret- 
tore della Repubblica, e se nell’ 82 egli aveva com- 
prato terre dai Malaspina in Sardegna, e nel ’90 
dal comune di Genova.” Notisi poi che nella 
Novella non parlasi punto di lui come di persona 
defunta, e probabilmente il fatto avvenne nella 
sua gioventù, quando più nell’ animo poteva la 
cortesia e l’ onesto costume, che non la cupidigia 
e l’ira, consigliato dalle quali si fece poi uccisore 
del suocero Michel Zanche. Aggiungasi infine, che 
un altro Branca Doria figlio del q. Manuelino, 
trovasi menzionato circa questi stessi tempi, cioè 
nel 1287, nelle carte genovesi.” Per tutte queste 
cagioni non sapremmo nella presente Novella vedere 
fatti appartenenti indubbiamente al secolo XIV, e 
potremmo tenere invece che quello che vi è nar- 
rato risalga al 1280 incirca. 

Segue il Carbone dicendo che nella Novella L 
gualteruzziana « si discorre di Maestro Francesco 
Accorso, il quale, secondo che si legge nelle Vite 
di Filippo Villani, morì in Bologna nel 1309; nè 
a tal anno s’acqueta il Mazzuchelli, dotto anno- 
tatore di quelle Vite, al quale per ragionevoli 
induzioni e riscontri sembra incontrastabile ch'egli 
vivesse alquanto dopo il 1317 ». È verissimo che 
il Villani scrive esser morto Francesco « nell’anno 
della grazia 1309, e della vita sua sessantotto » ; ?? 


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E DELLE SUE FONTI 1 


ed è vero che il Mazzuchelli ne vorrebbe protratta 
la morte a dopo il 1317, fondandosi sul fatto che 
di lui si hanno commentarj a costituzioni pon- 
tificie pubblicate soltanto in detto anno. Se non 
che, subito dopo, egli soggiunge il dubbio se 
cotesti commentarj sieno del nostro, o non piut- 
tosto di « quell’ altro Francesco Accorso figliuolo 
di Accorso da Reggio, il quale, al riferire del Pan- 
ziroli nel lib. lI, al cap. XLII, era professore di 
leggi in Bologna circa il 1340 ». E sebbene il 
Mazzucchelli si scusi del portar sentenza defini- 
tiva, per non avere avuto sott’ occhi quei com- 
mentarj, conclude col dire che « quando si avessero 
ad avanzare in questa oscurità le nostre conghiet- 
ture, diremmo quelle portarci a crederli di altro 
autore 7? ». E più esplicito ancora è il sommo 
Savigny, scrivendo che « il Sesto e le Clementine 
sono posteriori a Francesco d’Accorso: nè d’al- 
tronde il suo nome esiste in veruna delle edizioni 
di quella raccolta °* ». E all’erronea data che farebbe 
Francesco morto nel 1309, si contrappongono le 
ricerche del P. Sarti, ’° che « ha provato con sicuri 
monumenti "° » esser egli morto nel 1293, sicchè 
Dante, che meglio di Filippo Villani può dirsi suo 
contemporaneo, a torto o a ragione, lo poneva in 
Inferno fra i sodomiti ””. Resta poi da notarsi, che 
il fatto che di lui si narra essendo accaduto al 
ritorno « d’ Inghilterra ove era stato lungamente », 
va posto fra il finire del 1281 e il principio dell’82, 
poichè in questo tempo egli si congedò da Eduardo I, 
e fece ritorno in patria. Osservisi per ultimo, che 
di Francesco non si parla punto della Novella in 
modo da potere inferire che trattisi di persona già 


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DI DEL « NOVELLINO » 


morta; e se anche l’ aneddoto possa non esser 
vero,” sebbene non discordante dall’ indole sua 
cupida di danaro, è dato supporre che si diffon- 
desse in Italia dal momento appunto del suo ritorno. 

Crediamo con ciò di aver ridotto al loro vero 
valore gli argomenti del Carbone, e mostrato in- 
sieme che la compilazione del Novellino, non va 
portata nè troppo addietro, sino alla fine del XII, 
nè troppo innanzi, sino alla metà del XIV secolo. 
Ripeteremo dunque, per concludere, non esservi 
nel Novellino, nella sua più antica e genuina 
compilazione, cioè nel testo gualteruzziano, nes- 
suna memoria di fatti o persone che oltrepassi il 
finire del secolo XIII, laddove invece nel Novellîéno 
giusta la sua posteriore rimanipolazione, troviamo 
ricordati personaggi ed avvenimenti della prima 
metà del decimoquarto. ”° E perciò possiamo tenere, 
il libro esser stato scritto o messo insieme verso la 
fine del dugento, e forse nel penultimo decennio : 8° 
e la rimanipolazione di esso, dato e non concesso 
che la lezione borghiniana risponda ad un testo, 
non essere posteriore alla metà del decimoquarto. 51 


Ill. 


Indicato il tempo nel quale, secondo ogni pro- 
babilità, fu scritto o posto insieme il Novellino 
nella vera sua forma, sorge altra dimanda, se, 
cioè, uno solo o più ne siano gli autori. Il Car- 
bone avendo ammesso che la Novella XX V, dovesse 
esser scritta prima dal 1193, e che altre spettino 
al principiare del 1300, naturalmente si chiede se 


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E DELLE SUE FONTI 93 


« chi metteva mano a queste novelle fin dai tempi 
del Saladino, può egli esser quel medesimo il 
quale settanta e più anni dopo novellava di Carlo 
d’Angiò e di Alardo il vecchio », e se « pur con- 
cedendo ch’ ei cominciasse a scrivere da bambino, 
potè egli essere ancora tanto longevo da raccattar 
notizie di personaggi che varcarono cogli anni il 
trecento ». Naturalmente egli risponde in modo 
negativo a questa dimanda, e precisamente col dire : 
«non è dunque un solo l’ autore del Novellino ». *° 
Ora tutto ciò cade senz’ altro, se, come noi opi- 
niamo, e come ci sembra vero, le parole mancanti 
nel testo gualteruzziano della Novella XXV, sono 
glossa di un menante che copiava il Novellino 
verso il 1289, ripetute poi dal secondo copista del 
codice laurenziano nel quattrocento. Caduto questo 
argomento, nulla vieta che l’ autore del libro sia 
un solo. 

Ma già innanzi al Carbone, e indottivi da altri 
argomenti, vediamo altri aver scritto, il Novellino 
non esser opera di un solo autore, ma, per usar 
le parole del Borghini, * « di varie persone pia- 
cevoli ed ingegnose ». Dietro il quale G. B. Ghio, 
pur notando che parecchie novelle « furono scritte 
intorno al medesimo tempo, e da una stessa mano », 
aggiunge che la stessa cosa non avviene di tutte, 
perchè se « varie sono quelle che rassomigliansi 
nello stile, sono anche varie quelle in cui osser- 
vasi di stile un gran divario, ond’ ei si può con 
lutta certezza giudicare ch’ elle nè uscirono tutte 
ad un tempo, nè tutte di una medesima penna, e 
che alcune paiono alquanto più antiche, ed alcune 
meno ».** E più oltre scrive pure che « coloro che 


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94 DEL « NOVELLINO » 


tali Novelle composero » dovettero essere « varie 
persone piacevoli ed ingegnose ». * Così anche il 
Carbone opina che « manifestamente gli autori 
dovettero essere diversi e di diverso tempo, non 
solo per la variazione dello stile, come già notava 
il Borghini, la quale dalla Novella dello schiavo 
di Bari a quella di Bito e Ser Frulli è infinita, 
ma più ancora perchè alquante di esse sono anti- 
chissime, e furono scritte sullo scorcio del duode- 
cimo secolo, e altre per contrario toccano la fine 
del trecento ».* E, per passarmi d'altri, anche 
l’ ultimo editore del Novellino, Giovanni Pierotti, 
scrive, preludendo alla edizione bettoniana, pale- 
sarsi « a prima giunta non esser (il libro) tutto 
d’ una mano e di un tempo », per concludere che 
« ad un primitivo numero di Novelle possono esser 
state aggiunte più altre di mano diversa, del 
medesimo tempo e di altri ». * 

Adunque, secondo questi studiosi, la principal 
ragione per tener il Novellino opera di più mani, 
è la diversità dello stile fra novella e novella. 
Vedremo più oltre quanto possa valere quest’argo- 
mento; intanto giova notare come sieno stati posti 
innanzi alcuni nomi di antichi scrittori, tenuti 
probabili autori del libro, o di parte delle novelle 
ond’ esso si compone. 

L’ editore torinese del 1802 ricorda come ci 
fosse chi *° avesse conghietturato poterne esser 
stati autori « Brunetto Latini, Dante da Maiano, 
Francesco da Barberino, e simiglianti altri »; ma 
aggiunge, nulla più esser queste che ipotesi senza 
fondamento, perchè se essi « avesser disteso tutte 
le Cento Novelle o alcune di esse, sarebbesene 


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E DELLE SUE FONTI 25 


fra’ testi a penna delle loro rime e prose trovata 
qualche traccia e medesimamente qualche copia.... 
ma questo segno, ch° io mi sappia, non s’ è ancora 
osservato ».*° Di Dante da Maiano non so vera- 
mente che alcuno abbia mai voluto supporre esser 
lui l’autore del Novellino: ripetutamente invece, 
ciò fu asserito e di Brunetto Latini e di Francesco 
da Barberino. 

‘ Ma il Ghio segue escludendo il Latini, perchè 
«non avendo egli lasciato alcune prose in lingua 
toscana, non c’ è ragione che porti a opinare che 
egli in quella lingua abbia scritto Novelle ».°° A 
questa ragione, veramente non troppo valida, non 
sa acquetarsi il Carbone, scrivendo che « con 
induzione più sicura » si potrebbe asserire il Latini 
aver cooperato alla compilazione del libro, dacchè 
«i due racconti di Papirio (Novella LXVII G.) e 
di Traiano (Novella LXIX G.) trovansi con lieve 
mutazione, e nelle Cento Novelle e nel Fiore dt 
Filosofi e di molti savj, grazioso libretto che, 
secondo il Nannucci, ®? è indubbiamente del maestro 
di Dante *° ». Così, Brunetto non sarebbe già autore 
o compilatore di tutto il Novellino, ma dai suoi 
scritti sarebbesi scelto qualche cosa da inserire 
fra le Cento Novelle. E che coteste due narrazioni 
sieno copia dell’ una scrittura dall’altra, lo sostenne 
anche recentissimamente il dotto e carissimo amico 
Adolfo Bartoli, ponendo fra loro a confronto le 
due lezioni del Fiore e del Novellino.?® Tuttavia 
non sapremmo con lui convenire, nel negare che 
ambedue potesser trarre da Paolo Orosio la desi- 
gnazione di « uomo fortissimo, desideroso di 
battaglie », o di « uomo potentissimo e savio e 


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26 DEL « NOVELLINO » 


dilettissimo molto in battaglie » con che essi tra- 
ducono quel bdellicosissimus ac strenuissimus dello 
storico africano, ** che manca in Macrobio e nei 
Gesta Romanorum.® Qual difficoltà, infatti, che 
gli autori del Novellino e del Fiore, conoscessero 
un autore così diffuso come nell’ età media era 
Orosio, e che circa codesli tempi era tradotto 
anche dal volgarizzatore del Tesoro, messer Bono 
Giamboni? ®° Nè anche potremmo, in senso asso- 
luto, accettar la norma che il testo più ampio sia 
sempre il più antico e moderno il più breve, e 
che perciò il Novellino abbia copiato il Fiore. Ma, 
anche ammettendo che la cosa proceda come vor- 
rebbero il Carbone e il Bartoli, e che veramente 
il Nostro sia plagiario dell’ altro, resta a sapere, 
ed è questo che al presente deve importarci, se 


. l’autor del Fiore sia « indubbiamente » Brunetto 


Latini. I Codici magliabechiano e laurenziano di che 
si valse il Nannucci, non portano il nome di Bru- 
netto: lo porta bensì, ma aggiunto da mano poste- 
riore, un codice marciano, indicato dal Morelli, ?” 
il quale nel Catalogo farseltiano ebbe a notare 
come un manoscritto della Chigiana, da noi pur 
veduto, e che ci è parso del secolo XIV,* porti 
chiaramente il nome del maestro di Dante. Ma a 
ciò è da opporre come il codice farsettiano ed il 
chigiano abbiano il titolo di «Secondo filosofo, vol- 
garizzato da Brunetto Latini»; e perciò, ammessa 
anche per autentica la paternità suggeritaci da 
questi due soli manoscritti, dei quali l’ uno ha 
copiato l’ altro, sarebbe da provarsi che Brunetto 
sia volgarizzatore anche del Fiore, e che, come 
sostiene il Nannucci, le Sentenze di Secondo e le 


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E DELLE SUE FONTI 97 


Vite dei Filosofi, formino tutt’ un corpo, sieno, cioè, 
fin da principio, e non per posteriore aggiunta, 
un’ opera sola. Antonio Cappelli, con argomenti 
molto calzanti, ma che qui non è il caso di ripe- 
tere, ha dimostrato invece, non « esservi titolo 
valevole a farci credere di ser Brunetto l’ intera 
stesura del Fiore ».° 

Similmente di poco peso ci paiono, a far Bru- 
netto autore del Novellino o di alcune narrazioni 
in esso contenute, le prove tratte dall’ averlo chia- 
mato Giovanni Villani « cominciatore e maestro 
in digrossare i Fiorentini e farli scorti in ben 
parlare », e dal confrontare queste parole col titolo 
apposto al nostro, di « libro di bel parlar gen- 
tile » ; °° come anche dall’ avere Filippo Villani 
chiamato Brunetto « motteggevole.... e di certi 
motti piacevoli abbondante » e « di sermone pia- 
cevole, il quale spesso moveva a riso » :!° chè 
sarebbe dare un troppo preciso significato a parole 
che in sè medesime hanno soltanto un valore 
generico, e riguardano poi, non lo scrittore, bensì 
il parlatore. 

Un altro nome è stato per la prima volta messo 
fuori dal Carbone, ed è quello di ser Andrea 
Lancia, notaio e scrittore fiorentino del secolo 
decimoquarto, !°* dappoichè vi ha identità fra tre 
Novelle del testo borghiniano e tre narrazioni inse- 
rite dal Lancia nel suo « amplissimo e bel com- 
mento » inedito del volgarizzamento del Rimedio 
d'Amore di Ovidio.!* Queste Novelle sono la V, 
cioè il conto « come per subita allegrezza uno si 
morìo »: la LIX, « d’ una bella provvedenza di 
Ipocras per fuggire il pericolo per la troppa alle- 


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28 DEL « NOVELLINO » 


grezza »: e la C, del re, che « per mal consiglio 
della moglie uccise i vecchi del suo reame ». 1% 
Non piccole differenze di forma corrono però fra il 
testo borghiniano e quello offertoci dal Carbone 
in sostituzione dell’ antico, *** nè sapremmo trovar 
nessun argomento, e niuno ne indica neppure il 
solerte editore, dal quale desumere l’ anteriorità 
del Lancia sull’asserto testo borghiniano del Novel- 
lino. A noi basta notare soltanto come queste 
Novelle appartengano tutte tre a quel testo che più 
sopra provammo esser ricompilazione dell’ante- 
riore, rappresentatoci nella edizione del Gual- 
teruzzi. 

Ed è pure una sostituzione del testo borghiniano 
quella Novella (XCII) di Tito Manlio Torquato, 
della quale il Carbone !° assevera che è presa « a 
verbo dall’antico volgarizzamento della prima deca 
di Livio »; !°° se non che ciò riguarda più lo studio 
delle fonti, che non la ricerca dell’ autore o com- 
pilatore del Novellino. Per ultimo notiamo, come, 
secondo il Carbone, !° mons. Borghini « manife- 
stamente prese dalle Prose antiche del Doni la 
Novella del Saladino, lasciatone il principio e la 
fine ».!°° Ma ciò non riguarda l’autore o compi- 
latore del Novellino, bensì i libri a cui il Borghini 
ebbe ricorso per supplire le Novelle del testo gual- 
teruzziano da lui ommesse nella stampa. 

Resta adesso che diciamo qualche cosa intorno 
a Francesco da Barberino. Il primo a porre innanzi 
il nome di questo autore fu Federigo Ubaldini 
nella Vita del Barberino, preposta ai Documenti 
d’ Amore, e queste ne sono le precise parole: 
« Trasse ancora dal Provenzale argomento da ricrear 


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E DELLE SUE FONTI 99 


gli animi, imitando nel nome e nel soggetto il 
Fiore de’ nobili detti del Monaco di Montalto, con 
chiamarne un suo Fiore di Novelle: ma smarrito 
il volume, il titolo ci dà campo da rintracciare 
qualcuna delle sue Novelle tra quelle Cento, che, 
quasi primizie della politezza toscana vanno attorno. 
Ci avvertisce il Salviati, che quelle sono nate da 
più autori in diverse età: abbiam poi sentore che 
possa esservene intramessa alcuna del Barberino, 
dalla denominazione che tra le altre hanno nel 
testo di Carlo Gualteruzzi le Cento, di Fiore di 
parlare: e dal dire Messer Francesco nelle Chiose, 
che nel suo Fior di Novelle fa spesso menzione 
delle nuove astuzie di Guglielmo di Bergadam, e 
non so che di Messer Beriola, de’ quali ambedue 
si leggono distinte Novelle tra le Cento. Di più si 
legge in questo libro del Barberino scritta una 
canzone distesa per un cavaliere nell’ istesso caso 
che è la Novella ottantesima tra le suddette, della 
damigella di Scalot; poichè il cavaliere, siccome 
avvenne alla damigella, si morì del mal d’amore. 
E siccome colei volle aver dopo morta una lettera 
a lato che propalasse alla corte del re Artù esser 
ella trapassata per la poca corrispondenza in amore 
di Lancellotto ; così scorgendosi in mano del defunto 
cavaliere la canzone, fu palesato chi per sua cru- 
deltà il conduceva a tal fine. Sicchè per la simi- 
litudine di quelli accidenti, come per l’ altre cose, 
ragionevolmente può la nostra considerazione circa 
le dette Novelle in affermazione trasmularsi. Anche 
la confessione fatta dal Boccaccio di non esser 
egli stato l’ inventore di ogni sua Novella, e che 
non iscrisse se non le raccontate da’ più antichi 


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30 DEL « NOVELLINO » 


(che si vede in prova da quelle ch’egli estrasse 
dalle Cento di sopra indicate) ci ammonisce, che 
tra le tolte, ve ne potesse esser parte di Messer 
Francesco », 1° 

L'argomento addotto per primo, che, cioè, 
parecchi sieno gli autori del Novellino perchè esso 
ha anche il titolo di Fiore, che soleva in quegli 
antichi tempi appropriarsi appunto alle compila- 
lazioni fatte da libri diversi, o anche di mezzo ad 
un sol libro, non basta .a farci certi che per entro 
a questa raccolta vi sieno anche narrazioni tolte 
dal Barberino. Certo il Novellino è un Fiore; basta 
gettare un’occhiata alle notizie che seguono intorno 
alle Fonti del Novellino, per persuaderci che l’au- 
tore raccoglieva, compilava, spigolava da varie 
parti, attingeva a diverse sorgenti. Egli è soltanto 
l’ ignoranza di tante e così diverse fonti, quella 
che probabilmente indusse l’ Ubaldini a sospettare 
una stretta parentela fra il Novellino e l’opera al 
Barberino attribuita, che sola era allora nota 
come simigliante nella materia al nostro libro. Del 
resto, che il. Barberino veramente componesse 
cotesto Fiore dé Novelle, non mi pare abbastanza 
provato dalle sole parole dell’ Ubaldini; e biso- 
gnerebbe meglio conoscere quel commento latino 
ai Documenti che disgraziatamente giace inedito 
nella Barberiniana, non lontano ormai da total 
distruzione. 11! 

Poco peso, come ognun vede, può aver l’ altro 
argomento dell’ Ubaldini, dedotto dall’ esser men- 
zionati presso il Barberino due personaggi che 
avrebber avuto parte nel suo Fior di Novelle, "!? 
e che si rinvengono anche nel Novellino: dacchè 


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E DELLE SUE FONTI 31 


bisognerebbe esser certi che si trattasse non solo 
delle stesse persone, ma anche dei medesimi fatti: 
e neanche questo potrebbe forse bastare, doven- 
dovi anche essere identità di racconto. 13 

L’ altra prova della somiglianza fra il caso del 
cavaliere e quello della dama di Scalot, ognun 
vede come non abbia alcun peso; e così anche 
l’ultima parte, riguardante il Boccaccio, sebbene 
non appartenga al proposito nostro, può servire a 
mostrare come l’autore non procedesse sempre 
nei suoi ragionamenti a fil di logica. 

Marcantonio Parenti, preludendo alla edizione 
modenese del Novellino, riferisce come « notabili » 
le congetture dell’ Ubaldini; ma annunziando che 
in fine del volume si leggeranno alquante novelle 
senza dubbio composte dal Barberino, nelle quali 
si potrà « ravvisar la sembianza delle altre ante- 
cedenti che sono scritte con maggior grazia e 
semplicità », soggiunge giudiziosamente : « ma 
bisogna avvertire che quanto più si retrocede verso 
la primitiva naturalezza del dire, tanto è più facile 
riscontrar somiglianza anche fra scritti di autori 
diversi ; essendo vero singolarmente per que’ primi 
tempi, che parla più spesso il secolo che lo scrit- 
tore », 114 

Ma chi più animosamente e ripetutamente 
sostenne, allargandola, l’ ipotesi dell’ Ubaldini, fu 
il conte Giovanni Galvani, testè rapito agli studj 
delle nostre antiche lettere, nei quali fu compe- 
tente ed autorevole quanto pochi altri dell’ età 
nostra. Egli fino dal 1840, pubblicava una sua 
Lezione 5 intitolata: Del probabile autore del 
Centonovelle antico. Notevole ci sembra in essa 


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39 DEL « NOVELLINO » 


l’ aver cominciato col negare di riconoscervi, come 
il Salviati e tanti altri dappoi, « una raccolta di 
Novelle scritte da più autori ed in tempi diversi, 
mentre esse invece mi sembrano evidentemente di 
un colore uniforme, e di una lingua similissima 
a sè medesima ».!° E fin qui andiamo perfetta- 
mente d’accordo coll’ illustre critico, che della 
opinione contraria e del favore che potè incontrare 
trova una plausibil ragione nell’esser stato tal giu- 
dizio proferito « mirando all’edizione borghiniana», 
e non all’altra. Cominciamo invece a discordare 
alquanto da lui quando egli scorge « nella gia- 
citura del periodo, ne’ trapassi e nelle frasi del 
Novellino la prosa provenzale », tanto da parer 
di leggere una delle vite dei trovatori di Provenza. 
Opinando dunque che l’autore dovesse essere un 
solo, e che questo fosse da cercare fra quelli che 
maggiormente ebbero conoscenza della lingua d’ oc, 
il Galvani riprende a sostenere l’ipotesi dell’ Ubal- 
dini, purchè essa sia applicata al testo gualteruz- 
ziano, non all’ altro, nel quale trova non solo 
« mutato il colore al linguaggio », ma anche 
«introdotte Novelle affatto nuove, ed evidentemente 
posteriori forse di uno o due secoli alle rimanenti ». 
Se non che, mentre l’ Ubaldini si era contentato 
di asserire che nel Novellino si potrebbe trovare 
«qualcuna » delle narrazioni raccolte dal Barberino 
nel suo Fiore, il Galvani va più oltre, e giudica 
che « l’ antico Centonovelle » posto a confronto 
col libro del Reggimento e costumi delle donne, 
mostri essere « frutto della medesima mente e 
dettato dall’ istessissima penna ». E poichè a tal 
sentenza lo induce sopra tutto la somiglianza dello 


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E DELLE SUR FONTI 33 


stile, egli porta in prova una narrazione del Nowvel- 
lino ed una del Reggimento; e quindi a mag- 
giormente mostrare che il primo fu « dettato sulla 
falsariga provenzale, e però da un intimo e pro- 
fondo conoscitore di quella favella, il che varrà 
forse quanto il dire... che fu con tutta possibilità 
dettato da M. Francesco da Barberino »,"” tra- 
sceglie dalle antiche biografie dei trovatori alcune 
ch’ egli traduce imitando lo stile del Novellino: 
e finisce coll’ augurarsi di poterlo veder presto 
ristampato col titolo di: Fiore di Novelle di Messer 
Francesco da Barberino. Ma qui egli avverte che 
per le ripetute testimonianze de’ buoni costumi 
del Barberino non gli « reggerebbe l’ animo » di 
altribuirgli anche le Novelle « sozze e villane, e 
lontane da ogni bella leggiadria di costume ». 
Perciò consigliando che « queste si gettassero al 
mondezzaio », vorrebbe riempire i vuoti che ne 
risulterebbero, con altre novelle tolte al Reggimento. 

Ecco dunque il Barberino fatto autore di tutto 
il libro, salvo tuttavia delle novelle oscene, le 
quali resterebbe a sapere come e da chi sieno state 
introdotte nell’ opera di Messer Francesco, caccian- 
done altre di più onesto argomento. 

Ma nel 1870, il Galvani stampando il suo Novel- 
lino provenzale, ossia Volgarizzamento delle antiche 
vitarelle deî trovatori, scritte già in lingua d’ oc 
da Ugo di S. Ciro, da Michele della Torre e da 
altri, e ampliando per tal modo l’ esperimento 
fatto nella Lezione, sembra contraddire alle cose 
in quella ammesse, riconoscendo nel Centonovelle 
« due parti abbastanza distinte fra loro, l’ una 
cioè, più antica dell’ altra.... e quest’ una rical- 


D’ Axcona - II 3 


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34 DEL « NOVELLINO » 


cata affatto sul Provenzale ».'° Non sono più 
dunque soltanto le novelle oscene le quali non 
appartengano al Barberino, ma altre, che non si 
dice per qual modo vi si trovino frammischiate. 
Non è più dunque, come nella Lezione aperta- 
mente si sosteneva, un solo l’autore del Novellino; 
e il Galvani ritorna così senz’ altro all’ ipotesi 
dell’ Ubaldini, che cioè « qualcuna » fra le cento 
potrebbe esser fattura del Barberino. 

A questa sentenza, avvalorata dal nome e dal- 
l’ autorità del chiaro modenese, e ormai tenuta 
dalla maggior parte degli studiosi e dei critici, 
cominciò ad opporsi il Carbone, !*° osservando che 
le novelle del Reggimento, « a gran pezza non 
aggiungono la sveltezza, il candore e la vita, che 
si ammira ne’ più de’ racconti del Novellino. E se 
| pur qualche cosa di Messer Francesco vi ha (che, 
essendovi dentro fiori di più prati, non è inveri- 
simile), è da credere che l’ autore del Reggimento 
delle donne non vi recasse nè i più belli, nè i più 
odorosi ». 12! 

Ottime considerazioni sono quelle colle quali 
Adolfo Bartoli respinge l’ ipotesi relativa al Bar- 
berino. L’ essere il Novellino scritto secondo asse- 
risce il Galvani, « sulla falsariga provenzale », 
non importa, quando pur ciò si debba riconoscere, 
che messer Francesco ne sia autore; dacchè « la 
letteratura occitanica fu notissima in Italia nel 
secolo XIII ». Nè può ammettersi, prosegue il 
Bartoli, cotesta assoluta sentenza intorno alle fonti 
unicamente provenzali del Novellino, chè dentro vi 
ha di tutto. E la faccenda non va altrimenti para- 


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E DELLE SUE FONTI 35 


gonando lo stile del Cento Novelle con quello del 
Barberino. Riportiamo qui per intiero il retto giu- 
dizio che recava l’amico nostro in questo proposito : 
«Il Barberino è per il più, assai largo nei suoi rac- 
conti : qualche volta persino ridondante di parole ?*?: 
egli accarezza il suo argomento, e di più dice in più 
luoghi chi gli ha narrato la storia e donde l’ha 
tratta. Nel Novellino, nulla di tutto questo. Ancora: 
le novelle del Barberino sentono di letterato: 
rarissimi vi sono i costrutti irregolari, corretta 
la lingua: il Novellino invece, per la maggior 
parte, ha sapore tutto popolare: ci è quasi sprezzo 
della forma, corre precipitoso, non ha mai vezzi, 
dice le cose in fretta, e le dice bene, non già 
perchè chi scrive rifletta all’ arte propria, ma 
perchè quelle forme gli escono spontanee dalla 
penna, gli sono naturali, le ha vive sul labbro, e 
le lascia andar giù con una noncuranza che diventa 
il suo pregio. Che un letterato quale era il Barbe- 
rino potesse scrivere così a noi sembra impossibile : 
quella popolarità della forma, quella oggettività 
che sono le qualità più spiccate del libro, diven- 
terebbero un fenomeno inconcepibile se esso dovesse 
ascriversi ad un autore solo e ad un letterato. 
Il Novellino rappresenta la Novella popolare nel 
suo stato embrionico : è, quasi diremmo, quello 
che fu lo scenario per la commedia dell’ arte: è 
anonimo, perchè tutti v’ hanno portato il loro 
tributo, come tutti vi attingono argomenti al novel- 
lare. Il Barberino invece offre l’ esempio del racconto 
passato a traverso una mente che pensa, che cura 
l’arte, che scrive per un fine determinato. Ci è in 


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36 DBL « NOVELLINO » 


lui uno svolgimento ; egli segna un passo ulteriore 
nella via dove poi lasceranno orme da giganti i 
novellieri del sec. XIV ». 12 

Queste osservazioni ci paiono giustissime, e noi 
vi aderiamo interamente. Chi legge le narrazioni 
sparse dal Barberino per entro l’ opera sua mag- 
giore, troverà una vera e notevol differenza da 
esse a quelle del nostro libro, per rispetto allo 
stile; il quale, sebbene non sia sempre ad un modo 
nei varj racconti del Novellino, pure ha sempre 
un nerbo, una rapidità, una spigliatezza, di cui 
invece non è traccia nel modo di narrate di messer 
Francesco. Lasciamo stare che le narrazioni del 
Barberino sono piuttosto esempj che novelle vere 
e proprie: il che deriva dall’ essere introdotte in 
un libro didattico, ove non sono veramente se 
non prove e modelli da proporre altrui, perchè si 
segua una virtù o si fugga un vizio: ma sopra- 
tutto è notevole questa differenza, che il Barberino 
il più delle volte parla in persona propria, evo- 
cando le proprie rimembranze e citando i luoghi 
ove il fatto avvenne e dove egli ne ebbe contezza, 
e le persone da cui udì narrarlo: *** e questa è con- 
suetudine non dipendente già dall’ intreccio delle 
Novelle nell’ opera del Reggimento, ma usanza pro- 
pria dell’ autore, della quale nulla di simigliante 
trovasi nelle cento narrazioni del Novellino. 

Esclusi adesso dal poter essere autori in tutto 
o in parte, del Novellino, gli scrittori dei quali 
finora abbiamo fatto ricordo, potrebbe ragione- 
volmente dimandarci il lettore se noi crediamo che 
il Novellino sia opera di un solo, e se avremmo 
un qualche nome da porre innanzi. 


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E DELLE SUE FONTI 37 


Valevoli ragioni per negare, o almeno per dubi- 
tare, che il Novellino possa esser opera di un solo, 
confessiamo di non trovarne. L’ unico argomento 
che potrebbe aver un qualche peso, sarebbe quello 
che si trae dallo stile: e già a sazietà è stalo 
ripetuto dal Borghini in poi esservi « variazione 
dello stile » ‘°° da una novella all’altra; e cor- 
rere, dice il Carbone, infinita « differenza dalla 
Novella dello Schiavo di Bari a quella di Bito e 
Ser Frulli »:'*° anzi, aggiunge il Pierotti, « da 
quella della damigella di Scalot e quella del mar- 
tore che andò alla cittade ».' Il che noi non 
neghiamo, anzi aggiungeremo che taluna, ad 
esempio quella del mercatante che recava berrette 
(Novella XCVIII), ha poco più ampiezza del titolo 
stesso di altre narrazioni. 

Ma tal differenza fra Novella e Novella pro- 
viene, secondo noi, da altre ragioni: cioè dalle 
varie fonti alle quali attinse l’ autore. E certo, a 
chi ben guardi, tutte le Novelle, qual più qual 
meno, dimostrano la stessa forma costante di bre- 
vità, forse anche perchè, come noi abbiamo sempre 
opinato, e come altri pur disse recentemente, !°5 
coteste dovevan essere più ch’altro, tracce e appunti 
offerti al valente novellatore o favellatore!*? perchè 
giovandosi di quelli, colla viva voce ambpliasse 
poi, arricchisse, svolgesse gli aridi sunti, rimpol- 
passe e rinsanguasse questi scheletri di racconti. 

Ma nell’ esser così stringato, chi stendeva in 
sulla carta queste Novelle, non tanto forse obbe- 
diva ad un chiaro e prestabilito concetto, !* quanto 
piuttosto soggiaceva alla propria inesperienza, che 
non concedevagli di amplificare la tela, ritrarre 


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38 DEL « NOVELLINO » 


tutti i particolari del falto e allegrarli colle grazie 
dell’arte. Ricordiamoci che quando il Novellino 
dovè esser scritto, la prosa italiana non era ancora 
formata. I più degli scritti in prosa di codesta età 
sono traduzioni dal latino classico o dal latino 
volgare, o da altre favelle neo-latine, e più o 
meno ne ritraggono l’indole. Più nobile è il dettato 
o più disadorno, secondo le qualità dell’ originale. 
Bisogna giungere a Dante, a Dino, al Boccaccio, 
al Cavalca per trovare una prosa italiana, che 
nelle sue forme e nelle sue movenze, faccia vedere, 
anche nell’ imitazione, l’ intento e il criterio let- 
terario di chi la compose. Gli altri scritti originali 
innanzi al Convito, alla Cronica, al Decamerone, 
alle Vite dei Santi Padri sono, in generale, timidi 
esperimenti, nei quali manca il periodo, ed il col- 
legamento dei costrutti è cosa ignota. 

Uomo di svegliato ingegno ed arguto, ma non 
letterato, era certo il compilatore del nostro libro : 
ed una prova l’abbiamo nelle Novelle che quasi 
certamente sono sue: ch’ ei non trasse cioè, da 
nessun altro autore, ma dalla tradizione orale. 
Quelle infatti di uomini ed usi fiorentini, come la 
Novella di Messer Castellano da Cafferi (LXXXVIII), 
dell’ uomo di corte che cominciò una Novella che 
non venìa meno (LXXXIX), del martore di villa 
che andava a cittade (XGV), e forse anche le altre, 
d’uno che cra ben fornito a dismisura (LXXXVI), 
d’ uno che si andò a confessare (LXXXVII), d'una 
buona femiiina che avea fatto una fine crostata 
(XCII), d’au:n villano che sì andò a confessare 
(XCITI), d’ «tn mercatante che portò vino oltre mare 
in botti a due palcora (XGUVII), e dell’ altro che 


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E DELLE SUE FONTI 39 


comperò berrette (XCVTII), le quali tutte ci sem- 
brano di soggetto paesano, sono appunto fra le più 
magre narrazioni, !* sia che l’ autore non sapesse 
svolgerle, perchè l’arte mancavagli, sia anche per- 
chè, pel bisogno proprio e degli altri novellatori, 
bastavagli ritrarre i punti principali, la sostanza del 
racconto, lasciato ogni inutile ornamento da banda. 

Ma questa stessa brevità trovasi, quasi propria 
dei tempi e degli ingegni, anche in altri novel- 
lieri di quella età. La Disciplina clericalis ed i 
Gesta Romanorum, cioè le due più insigni rac- 
colte di Novelle dell’ età media, e che al nostro 
autore non erano certo ignote, !* hanno pur esse 
più o meno lo stesso carattere. E si capisce che 
abbreviando una Novella già compendiata, dovesse 
il nostro farne una cosa assai magra e scarna, 
ma più ampio riuscisse quando avesse innanzi un 
esemplare maggiormente svolto. 

Fra i tanti esempj che si potrebbero addurre, 
ne noto uno che mi si offre primo alla scelta, 
perchè sul bel principio dell’opera: ed è la Novella 
del re che « fece nodrire un suo figliuolo dieci anni 
in luogo tenebroso, e poi li mostrò tutte le cose, 
e più li piacque le femmine (XIV) ». Per ammet- 
tere questa Novella nel suo florilegio, poteva 
l’autore nostro ricorrere a molte versioni. Anzi 
tutto eravi il testo latino della Leggenda che dice 
così: Quidam rex filios mares habere non poterat. 
Unde vehementer tristis erat, et hoc infelicituten 
esse non modicam aestimabat. Qui cum in huius- 
modi esset anxietate, nascitur ei filius. Et super 
hoc gavisus est gaudio magno. Dixeruni autem 
ei peritissimi medicorum, quod si infra decem 


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40 DEL « NOVELLINO » 


annos solem vel ignem viderit, omnino lumine 
privabitur. Hoc enim oculorum illius posttio signî- 
ficabat. Rex itaque ut audivit talia, fertur spe- 
luncam in quadam petra excidisse, et ibi filium 
cum nutricibus suis inclusisse, ut nullo modo usque 
ad completionem annorum lucis claritatem videret. 
Finitis autem decem annis, de antro puer edu- 
citur, nullam mundialium rerum per visum habens 
notitiam. Tunc iubet rex omnia sibi secundum 
genus exhiberi et ostendi ei: viros quidem in uno 
loco, alibi vero mulieres. Hic aurum et argentum, 
ibi margaritas et lapides preciosos, vestes splen- 
didas et ornamenta, currus preciosos, cum equis 
regalibus frena aurea habentibus et purpura co- 
pertis, et ascensores armatos, et armenta boum 
et greges ovium. Et, ut breviter dicam, omnia 
secundum ordinem et genus ostenderunt puero. 
Interrogante vero ipso, quid horum unumquodque 
vocaretur, regis ministri uniuscuiusque appella- 
tionem indicaverunt. Cum autem mulierum nomen 
discereanxie qareret, fertur spatarius regis ludendo 
dixisse, daemones eas esse qua seducunt homines. 
Cor autem pueri illarum desiderio, plus quam cae- 
teris rebus anhelabat. Ostentis igitur sibi omnibus, 
ad regem reduxerunt cum. Tunc interrogat rex 
filium, quid amplius amaret ex omnibus quae 
viderat. Qui (inquit) pater, aliud nisi daemones 
illos qui seducunit homines? Nullius enim horum 
quae mihi hodie demonstrata sunt, sicut illorum 
amicitia erarsit anima mea. Et miratus est rex 
ille in verbo pueri. Et vide quam tyrannica res 
est amor mulieris. Et tu igitur non aliter putes 
superare te posse filium tuum, nisi hoc modo. 3 


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E DELLE SUE FONTI 41 


A me sembra però che il compilatore del Novel- 
lino dovesse tenere innanzi agli occhi, non già 
cotesto testo, del quale invece si valse l’ antico 
volgarizzatore italiano !8* del Barlaam e Josafat, 
ma un altro in che abbiamo già una vera e propria 
Novella di per sè stante, e staccata dal resto della 
Leggenda. Forse il suo esemplare fu il testo stam- 
pato dal Wright; ?* e se non questo per l’appunto, 
altro che molto lo assomiglia. Ad ogni modo, una 
di tali versioni, separate già dalla leggenda e 
compendiate, il nostro ridusse ancora a maggior 
brevità: e supponendo che il suo esemplare fosse 
la Novella edita dal Wright, vediamo come egli 
dovesse procedere. 

Legimus de rege quodam, quia filios mares 
non haberet, tristabatur valde; cui natus est filius, 
et gavisus est gaudio magno valde. Tutto ciò è 
espresso dal nostro soltanto colle parole: « A uno 
re nacque uno figliuolo ». 

Dixerunt autem regi periti medici, quod filius 
ejus talis erat dispositionis, quod si solem vel 
ignem videret infra X annos, lumine oculorum 
privaretur. E il nostro abbreviatore: « I sav] stro- 
logi provvidero ch’ elli stesse anni dieci che non 
vedesse il sole ». 

Quo audito rex, filium suum in speluncas cum 
nutricibus inclusit, ita quod usque ad X annos 
luminis claritatem non vidit. Al nostro basta il 
dire : « Allora il fece nutricare e guardare in teno- 
brose spelonche ». 

Et tunc puero de spelunca educto cum rerum 
mundialium nullam haberet notitiam, proecepit 
rex ostendere ei omnia quae sunt in mundo, 


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49 DEL « NOVELLINO » 


secundum genus suum, videlicet viros seorsum, 
mulieres, equos; in alio loco aurum, argentum, et 
lapides preciosos, ei omnia quae delectare possunt 
oculo8 intuentium. Tutto ciò è più breve nella 
nostra Novella: « Dopo il tempo detto, lo fece 
trarre fuori, et innanzi a lui fece mettere molte 
belle gioie, e di molte belle donzelle ». 

Cum autem puer quaereret nomina singulorum 
el ventum esset ad mulieres, quidam regîis servus 
respondet ludendo: Istae sunt daemones, homines 
seducentes. 

Qui vi ha nell’ italiano una differenza, la quale 
potrebbe indurre il sospetto che il nostro compi- 
latore o non avesse precisamente questo testo sot- . 
t’occhi, o più naturale gli paresse che altri al 
giovinetto dicesse i nomi delle cose senza ch’ egli 
ne facesse richiesta : « .... tutte cose nominando 
per nome, e dettoli le donne essere demonj ». 

Cor vero pueri illarum desiderio plusquam 
caeteris rebus anhelabat. Cumque rex quaereret 
a puero, quod magîs ex omnibus quae videret 
amaret, respondit: magis diligo daemones illos 
qui homines seducuni, quam omnia alia quae vidi. 
Ecce quomodo huominis natura în hac parte prona 
est ad lapsum; et iccirco qui volunt esse conti- 
nentes, necesse est ut fugianti mulieres. 

La Novella: « E poi li domandaro quale d’ esse 
lì fosse più graziosa. Rispose: i demoni. Allora 
lo re di ciò si meravigliò molto, dicendo: che cosa 
è tirannia e bellore di donna] » 18 

Ripeto che se non appunto questa versione, il 
modello su cui lavorava abbreviando il compilatore 
del Novellino doveva essere certo un altro consimil 


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E DELLE SUE FONTI 43 


sunto della narrazione inserita già nella leggenda 
di Barlaam. Se dunque le narrazioni del Novellino 
sono alcune più ampie delle altre, non è perchè 
fosser scritte in diversi tempi, e quelle maggior- 
mente svolte in tempi di maggior coltura, ma 
perchè il Nostro, che sapeva restringere non allar- 
gare, aveva dinnanzi a sè testi or più corti or 
più lunghi; e quando poi faceva di suo, come 
nelle Novelle di soggetto fiorentino, seguiva la 
natura, anzi la possibilità sua. 

Ma questo primo getto non contentò tutti i 
copiatori e lettori dell’ opera; e in cotesta età, 
nella quale non avevansi le dottrine che noi abbiamo 
sulla proprietà letteraria, e ogni libro era un po’ di 
tutti, ben presto altri vi poser le mani a ricom- 
porlo e variarlo. Colui che scrisse il codice Marciano 
serbò le rubriche del testo primitivo, sostituendo 
altre avventure dei medesimi personaggi ricordati 
nei titoli, e nello slile fece soltanto lievi modi- 
ficazioni. ?*” L’ autore della lezione panciatichiana 
allargò dal canto suo alquanto alcune Novelle, 1° 
diede loro più ampia forma o maggior svolgi- 
mento,!® anzi distrusse l’ unità dell’ opera supe- 
rando il numero delle cento, e frammischiando 
qua e là pezzi del Fiore dei Filosofi, del Sidrac 
e d’ altri libri. 

Non vi ha dunque a parer nostro, aulorevol 
ragione di dubitare che il Novetlino sia opera di 
un solo autore. Certo, chi lo compilò prendeva di 
qua e di Jà e metteva insieme un florilegio di esempj 
e di fatti; ma come sarebbe venuto fuori il Cen- 
tonovelle, che ha per intento di far « memoria di 
alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di 


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44 DEL « NOVELLINO » 


belli risposi e di belle valentie, di belli donari e 
di belli amori », '*° se uno non avesse avuto tale 
concetto, se uno solo non l’ avesse messo in ese- 
cuzione ? Che se altri furon dappoi che mutarono 
l'ordine delle Novelle, o altre ne interpolarono 
o ne cangiarono il dettato, e il Borghini, ormai 
lo sappiamo, non fece altrimenti, ciò prova appunto 
che il libro era già stato in altro modo messo 
insieme da uno, chiamisi esso autore o, se meglio 
vuolsi, compilatore. 

Ma autore lo diremmo, notando come ebbe un 
intento chiaramente indicato nel Proemio, a tutti 
i testi comune, di sobbarcarsi alla fatica « a prode 
et a piacere di coloro che non sanno e deside- 
rano di sapere », ed augurando, e quasi profe- 
tando, che altri « di cuore nobile e di intelligenza 
sottile » potrebbe « per lo tempo che verrà per 
innanzi » prender l’opera sua a modello. Or questo 
proemio, e l’essersi chi lo scrisse proposto di 
raccoglier Novelle che, con esso, arrivassero al 
numero di cento,?4 determinano chiaramente l’unità 
dell’opera, e meritano a chi la compose il nome 
di autore. Non però gli disconverrebbe quello di 
compilatore, chi avverta com’ egli radunasse la 
materia da varie parti, e quasi ne facesse un 
mosaico di pezzi presi qua e là. Le notizie che 
seguono a questo nostro ragionamento sono state, 
non senza fatica, da noì raccolte appunto per 
mostrare le molte fonti alle quali il nostro dovette 
attingere. Noi però non pretendiamo in ogni caso 
aver indicato quella a cuì egli dovette precisa- 
mente ricorrere; ma segnaliamo soltanto la fonte 


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E DELLE SUk FONTI 45 


che ci è nota come anteriore all’età nella quale 
il libro dovette esser composto. 

Cominciando dal Borghini,!** fu detto e ripetuto 
che molte delle Novelle provengono dal proven- 
zale ; e ciò veramente è probabile per quelle del 
Re Giovane (XIX), di Riccardo Cuor di leone 
(XX, LXXVI), di Riccar Loghercio, grande gen- 
tiluomo di Provenza (XXXII), di Messer Imberal 
dal Balzo, grande castellino di Provenza (XXXIII), 
di Guglielmo di Bergdam, nobile cavaliere di Pro- 
venza (XLIl), del medico di Tolosa (XLIX), di 
Carlo d'Angiò (LX), e di Messer Alamanno (LXIV), 
ma nessun testo occitanico ci rimane per appro- 
vare cotesta sentenza con sicuri raffronti. Molte 
altre ne debbono provenire dal francese,!** che gli 
studj odierni han mostrato, quanto almeno il pro- 
venzale, familiare e diffuso in Italia durante il 
secolo XIII. Ma la maggior quantità deriva cer- 
tamente da raccolte latine : delle quali sopravvive 
soltanto una piccola parte, ma di cui ci è dato 
studiare la forma e l’indole nei Gesta e nella 
Disciplina. Che se il Galvani " ebbe a dire, 
esser il dettato del Novellino, nell’andamento, nel 
costrutto, nel fraseggiare e nelle parole, provenzale 
schietto e maniato, e ciò per la gran somiglianza 
che in sul loro primo nascere avevano le due lingue 
sorelle, alle quali pur potrebbesi aggiungere la 
favella d’ oil, e’ sarebbe più a buon diritto da 
asserire che tutte tre queste lingue, nè tanto forse 
nelle voci quanto nella sintassi, rassomigliavano, 
in quel primo loro manifestarsi, al latino volgare. 
Questo che diciamo latino volgare, e perciò distin- 


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46 DKL « NOVELLINO » 


guiamo dal classico e letterario anche del periodo 
più tardo e corrotto, fu durante l’ età media con 
egual facilità inteso in ogni regione dell’ Europa 
cristiana, ma specialmente fra le genti neo-latine. 
Esso era scritto per tutte, non per una sola di 
queste schiatte e nazioni, e adoperato particolar- 
mente nelle opere ascetiche, di dottrina e di diletto, 
destinate alle classi popolari o mezzane. Questo 
siffatto latino fu il tipo, l’ esempio, il modello 
al quale si conformarono per lungo tempo gli scrit- 
tori volgari delle tre principali favelle uscite dallo 
stesso ceppo. Generalmente esso ha quella brevità, 
anzi quella stessa aridità di forme che trovasi nel 
nostro libro : quello stesso modo di comporre un 
periodo colle parole strettamente indispensabili, 
non collegando fra loro i periodi con intima costru- 
«zione, ma facendo punto ad ogni proposizione, 
e queste riunendo insieme colla più semplice fra 
le copule. Si compari qualche narrazione delle 
Gesta o della Disciplina, con un racconto del 
Novellino, e ciò basterà a persuadere che quest’ ul- 
timo confronta assai più col dettato di quelle, che 
non con una prosa contemporanea provenzale o 
francese: e si dovrà per lo meno conchiudere, che 
le manifeste somiglianze fra le tre prose hanno 
la loro ragione nella rispettiva somiglianza di 
ciascuna col latino volgare dell’ età media. 

Nè mancano altri fatti che ci conducano a 
credere, provenire la maggior parte delle narra- 
zioni del Novellino da testi di latino popolare. Chi 
ha letto i Gesta romanorum avrà certo notato 
come i racconti generalmente vi principino in 
questa consueta forma: Pompeus regnavit: Titus 


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E DELLE SUE FONTI 47 


regnavit : Quidam imperator regnavit: Cesar regna- 
vit ece., come le Novelle popolari col c’ era una 
volta. Or chi non vede la riproduzione di questo 
modo di avviar la narrazione, nelle formule colle 
quali principiano i racconti del Novellino: « Sala- 
dino fu Soldano » (Novella XXV): « Riccar 
Loguercio fu signor dell’ Ila » (XXXII) : « Narcis 
fu molto buono e bellissimo cavaliere » (XLVI): 
« Socrate fu nobile filosofo di Roma » (LXI): 
« Papirio fu romano » (LXVII), e simili ? 14 


IV. 


Ma se uno solo dovette essere l’autore o com- 
pilatore della prima forma del Novellino, chi 
sarà egli, !*° se non fu niuno di quelli da altri 
supposti ? 

Noi diciamo subito che nol sappiamo, e che 
ogni congettura ci par vana ed inutile. Questo solo 
ci sembra certo, ch’ei non fu letterato, ma che 
dovette esser nativo di Firenze, e molto probabil- 
mente di parte ghibellina. 

Diciamo che non fu letterato, ma intendiamo 
dire letterato di professione. Non fu nè un chie- 
rico, nè un retore, nè un grammatico, nè un poeta, 
come Arrighetto o Brunetto o Francesco da Bar- 
berino: fu un popolano, un mercante, come molti 
ve n'era allora in Firenze, che aveva letto quasi 
tutti i libri sui quali si formava la cultura in 
cotesta età ; !4° donde potevansi ritrarre bei fatti di 
cavalleria e begli esempj di cortesia e di valore, 
e bei motti. Conosceva la Bibbia, o nella vulgata 


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48 DEL « NOVELLINO » 


o nei Fioretti che n’ erano stati estratti, come si 
vede dalle Novelle di Davide (Nov. VI), di Salo- 
mone (VII), di Balaam (XXXVI), di Aminadab 
(XII) :!* conosceva le leggende cristiane, come è 
chiaro da quelle di S. Paolino (XVI) e di Pietro 
tavoliere (XVII); nè gli erano ignote le tradizioni 
spurie che correvano fra il volgo, nelle quali Cristo 
si accompagna con un giullare (LXXV), o co’ suoi 
discepoli corre il mondo ammaestrando al bene 
(LXXXIII). La Mitologia gli forniva i personaggi 
di Narciso (XLVI) e di Ercole (LXX), e a quelle 
delle favole mitologiche accoppiava anche la notizia 
degli apologhi, eredati da Esopo o inventati nel- 
l’ età media, coine quello della volpe e del mulo 
(XCIV). La Grecia gli suggeriva i nomi di Melisus 
(XXXVIII), di Socrate (LXI), di Diogene (LXVI), 
di Aristotile (LXVIII) filosofi; 4’ di Filippo (III), 
di Aulix (VIII) reggitori di popoli: di Roma ricor- 
dava egli il giovane Papirio (LXVII), Traiano 
(LXIX), Seneca (LXXI), Catone (LXXII).!° Rimem- 
branze delle Crociate si trovano nelle Novelle del 
Soldano e di Fabrac (IX), di Saladino (XXV), !5! 
del Soldano e del giudeo (LXXIII). Molto più 
sapeva egli dei varj cicli cavallereschi di cotesta 
età, e probabilmente quel ch’ egli ridiceva delle 
cose greche e romane veniva il più da romanzi 
anzichè da storie. Certo la menzione che fa della 
guerra Troiana (LXXXI) e dei fatti d’Alessandro 
(IV, XIII, XXVII), più che da scritti dell’ anti- 
chità classica proviene da scritture romanzesche 
dell’età media.‘ Il ciclo carolingio gli parlava con 
Carlomagno (XVIII): il brettone coi suoi maggiori 
eroi, Merlino (XXVI), Lancillotto (XXVIII, XLV), 


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E DELLE SUE FONTI 49 


Meliadus (LXIII), Tristano e Isotta (LXV), e la 
Dama di Scalot (LXXXII). '5 

Ma più che tutto conosceva egli i costumi e 
gli uomini dell’ età precedente a quella nella quale 
viveva, e dei quali i pregj e la fama si erano 
andati col tempo accrescendo, tanto da farne l’età 
eroica dell’ impero e del feudalismo. Allora infatti 
l'autorità imperiale erasi mostrata in tutta la sua 
forza, per opera del primo e del secondo Federigo, 
nè l’avevano fiaccata i contrasti colla Chiesa e coi 
Comuni. Alla fine del dugento, l’età precedente era 
conosciuta nelle tradizioni che ne eran rimaste, 
e che la poesia aveva illeggiadrite. Dante pur esso, 
esalta volontieri i magnanimi Principi svevi; 15 
vorrebbe veder rinnovarsi una Corte come quella 
di Federigo, ove i dotti fossero accolti ed onorati, 
e si formasse una lingua culta, aulica, letteraria, 
e rifiorissero i bei costumi che regnavano in Lom- 
bardia, prima che questa si soltraesse all’ auto- 
rità cesarea. !° Anche il nostro autore, quantunque 
popolano e fiorentino, ma probabilmente perchè 
ghibellino anch’ esso, !*° ripetutamente esalta le 
belle imprese, la saviezza, la cortesia, la magna- 
nimità dei due maggiori Svevi (II, XXI, XXII, 
XXIII, XXIV, XXX, LIX, XC, GC) e del Re Gur- 
rado (XLVII). Ammiratore delle regali costu- 
manze, volta in favella volgare e diffonde anche 
fra noi le memorie sulla larghezza e sul valore del 
Re Giovane (XIX, XX), e sulla prudenza e l’ar- 
dire di Riccardo d’ Inghilterra (LXXVI); nè l’esser 
partigiano degli Svevi gli vieta di ricordare le 
usanze cavalleresche di Carlo « quando era » sol- . 
tanto « conte di Angiò (LX) ». In un ordine infe- 


D’ ANCONA - II 4 


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50 DEL « NOVELLINO » 


riore, ma partecipando per nascita o per costumi 
o per ufficj a cotesta splendida famiglia feudale, 
stanno i tiranni, i grandi signori, e i rettori delle 
città, come Ezzelino da Romano (XXXI, LXXXIV), 
Paolo Traversaro (XLI), Giacopino Rangone(XLVI), 
Lizio di Valbona e Rinieri da Calboli (XLVII), 
Castellano de’ Cafferi (LXKXXVIII): i baroni e cava- 
lieri, come Riccar Loghercio (XXXII), Imberal del 
Balzo (XXXIII) e Roberto d’Ariminimonte (LXII):158 
i prelati, come il Vescovo Aldobrandino (XXXIX), 
e il Vescovo Mangiadore (LIV): gli uomini di 
corte, come il Saladino (XL), Marco Lombardo 
(XLIV, LV), Beriuolo (LVIII) e Bito fiorentino 
(XCVI): i giuresperiti, come Bulgaro e Martino 
(XXIV) e Francesco d’Accorso (L):i medici, come 
Mastro Giordano (XI), Mastro Taddeo (XXXV) e 
quel da Tolosa (LXIX): gli astrologi della scuola 
di Parigi (XXIX); e infine, i trovatori e i poeti, 
Guglielmo di Bergdam (XLII), Messer Alamanno 
(LXIV), e Migliore degli Abati (LXXX). A compiere 
la descrizione di cotesta società, non mancano altri 
personaggi degli infimi gradi; le donnicciuole, come 
madonna Agnesima (LVII) e la comare della cro- 
stata (XCII): il prete spicciolo, come il piovan 
Porcellino (LIV): gli studenti (LVI), i mercanti 
(XCVII, XCVIII), i popolani (XGVI), le genti di 
contado (XCV), e perfino la cortigiana (LXXXVI). 

Così questo libro che, a primo aspetto, potrebbe 
parere nulla più che un repertorio di bei fatti e 
di motti arguti, è anche un ritratto della vita dei 
tempi, fatto da un popolano di vivace ingegno e 
di svariate letture, quali erano gli artieri di Firenze 
al tempo della maggior prosperità e coltura del 


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E DELLE SUE FONTI 51 


Comune. Ch’ ei mettesse insieme il suo libro pel 
popolo, come opinò il Ghio, !°° e per far passare 
altrui piacevolmente il tempo, non credo: direi 
piuttosto volesse con esso compilare, come già 
avvertimmo, un manuale pei bei favellatori, un 
memoriale per gli uomini di corte, sicchè special- 
mente ne ricevessero incremento i bei costumi e 
le usanze cortesi delle residenze principesche. 19° 
Più che alla letteratura popolare, il Novellino spetta 
per questo lato alla cortigiana. Che se apparte- 
nesse alla prima, vi si parlerebbe più di miracoli 
che di negromanzia (XXI), nè certo vi avrebbe 
luogo la Novella dai tre anelli (LXXIII), e quella 
di Dio e del giullare (LXXV). Nè il supporre 
popolano e fiorentino il nostro autore può farci 
tenere come impossibile ch’ egli scrivesse a prefe- 
renza pei grandi; o almeno perchè il popolo s’ in- 
gentilisse ed emulasse i grandi: e il crederlo anche 
Ghibellino 19! induce a congetturare che volesse 
cogli esempj raggiungere lo stesso fine a cui Fran- 
cesco da Barberino tendeva colle doltrine e coi 
precetti. 15? Del resto, più tardi noi vediamo Franco 
Sacchetti, sebbene fiorentino e guelfo nell’ anima, 
trarre argomento alle sue Novelle sopratutto dai 
costumi dei signori e dei tirannelli, e mettere 
invece in burla l’ inesperienza e la rozzezza dei 
popolani chiamati al governo delle armi ed al 
feggimento delle pubbliche faccende. 19 

E che l’autore fosse di Firenze già vedemmo 
potersi desumere da questo, che le poche Novelle 
di costumanze non cavalleresche, ma popolari e 
casalinghe (LIV, XCV, XCIX), sono di argomento 
fiorentino.!94 Nè la sana critica e la retta conoscenza 


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52 DEL « NOVELLINO » E DELLE SUE FONTI 


della nostra storia letteraria ci lascerebbe supporre 
dettato fuori di Firenze al finir del dugento, un 
libro scritto come il nostro. Certo, le altre città 
d’ ltalia, e neppur quelle di Toscana, non posse- 
devano ancora un linguaggio come questo, povero 
beusì nei suoi congegni grammaticali e sintattici, 
ima preciso, schietto, efficace, naturalmente ele- 
gante. Nel che ci pare che tutti vadano d’accordo 
gli scrittori ed i critici, riconoscendo unanime- 
mente la fiorentinità dell’ autore: !95 e se taluno 
sognò esser il Novellino opera di fra Guidotto da 
Bologna, ‘°° fu questa una supposizione campata 
in aria, e dettata probabilmente soltanto da boria 
municipale. 

Ed ora il lettore che ci ha fin qua paziente- 
mente seguito, voglia gettar un’ occhiata sulle 
notizie che seguono, le quali non saranno inutili a 
dargli un chiaro concetto della diffusissima materia 
narrativa cui il nostro libro attinse largamente, e 
del modo com’esso potè essere dal suo autore 
composto. 


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NOTE 


Il DunLoP, Gesch. d. prosadicht. «ib. v. F. LIEBRECHT 
(Berlin, Muller, 1851) è quegli che più ampiamente 
ha trattato l’ argomento (pagg. 211-14); ma le 
Novelle da lui illustrate nelle fonti non superano 
il numero di quindici. Noi ne illustriamo quasi 
cento di tre testi diversi. 

Cogliamo qui da bel principio l’ occasione di 
ringraziare il Dott. RinaLpo KòALER, bibliotecario 
di Weimar [ora pur troppo defunto], in cui la 
dottrina è pari alla bontà, dell’ aiuto che ci ha 
porto, comunicandoci preziose notizie sulle fonti 
di alcune Novelle. 

?Questo Saggio fu da me la prima volta pubblicato 
nella Romania degli anni 1873-74. Ripubblicandolo 
poi nella prima edizione di questi Studj lo cor- 
ressi qua e là, e vi feci qualche aggiunta, spe- 
cialmente rispetto alle origini delle Novelle. Le 
correzioni furon dettate dalla necessità di mettere 
in armonia il mio seritto colla scoperta fatta da 
Gumo Bragi (Le Novelle antiche ecc. con una 
Introdue. sulla storia esterna del Testo ecc., 
Firenze, Sansoni, 1880), dei materiali che servi- 
rono al BoraHINI per la stampa del 1572. Io dubi- 
tava, già nel mio primo scritto, dell’ esistenza di 
un testo a penna che combinasse interamente 


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D4 


DEL « NOVELLINO » 


colla stampa dei Giunti. Ora ogni dubbio è tolto : 
ed è chiaro che il BoRrGHINI si giovò di varj testi per 
formare la sua edizione, qua e là ritoccando anche 
il dettato per scrupoli morali e religiosi. [Nel dare 
ora in luce un’ altra volta questo saggio debbo tener 
conto di altri recenti studj sulle antiche edizioni 
e sui mss. del Novellino. Per le edizioni è da 
segnalare lo scritto di H. VARNBAGEN, Ueder die 
Abhéngigkeit der vier dltesten Drucke des Novel- 
lino von einander, in Miscell. di studi crit. editi în 
onore di A. Graf, Bergamo, 1903, p. 507, dal quale 
riceve conferma la mia opinione che non vi sia 
alcuna edizione a stampa anteriore alla gualteruz- 
ziana; e l’altro di G. BragI, Ancora l’edizione bor- 
ghiniana del Novellino, in Miscell. Hortis, Trieste, 
1910, che ci dà altri ragguagli sulla curiosa com- 
posizione di quel testo. Intorno ai mss. reca nuove 
notizie A. ARUCH, Il ms. Marciano del Novellino, 
in Bibliofilia, X (1908) p. 292 e nella recensione 
all’ ediz. curata da E. Sicarpi (Strasburgo, Heitz, 
1909, Biblioteca romanica, 71-72), in Rass. Bibliogr. 
a. Lett. Ital. XVIII (1910), 35. Ora è assodato che 
il ms. Marciano, derivante in massima parte dalla 
ristampa dell’ediz. gualteruzziana, in qualche luogo 
dal testo Borghini, e avente inoltre sue proprie 
sostituzioni di novelle, è molto probabilmente 
nient’ altro che la copia e imitazione d’ un’ antica 
edizione sconosciuta, e come tale non abbia valore 
pel testo genuino dell’ opera. Al ms. Panciati- 
chiano, che un più accurato esame porta a distin- 
guere in due, deve ora attribuirsi molto valore, 
poichè esso nella prima parte ci rappresenta da 
solo uno dei due rami nei quali si distingue la 
tradizione manoscritta del Novellino. — Per la 
parte che riguarda le varie redazioni e le loro 
relazioni abbia quindi sempre presente il lettore 


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E DELLE SUE FONTI 55 


che ripubblico lo scritto quale era nel 1880, con 
aggiunte in nota]. 

3 « Il quale ne teneva una copia procuratagli da Giulio 
Camillo, e ricavata in detta città (di Bologna) da 
un buon testo a penna. Ci manca il mezzo di 
sapere se il Gualteruzzi facesse uso nella sua 
edizione della copia del Bembo, oppure del testo 
da cui tal copia era ricavata »; Prefazione di 
G. B. Gaio alla edizione di Torino, Morano, 1802, 
p. XXIII. 

La lettera di ringraziamento del BemBo a Giulio 
Camillo è nel vol. I!I, lib. IIl dell’ Epistolario. 

4 Lezione sopra due edizioni del secolo XV, Firenze, 1831. 

° Vedili in ZAMBRINI, Le opere volgari a stampa del 
sec. XIII e XIV, Bologna, Zanichelli, 1878, col. 613. 

6 Prefazione alla edizione del Novellino, Firenze, Bar- 
bèra, 1868, p. X. 

© Zeno, Annotazioni all’ Eloquenza Italiana del FONTA- 
NINI, Venezia, Pasquali, 1753, II, 181. 

8 ZAMBRINI, Op. cît., col. 613. Secondo G. Biaai (p. LIX) 
sarebbe invece l’ ediz. giuntina. [Su questo esem- 
plare, ora appartenente alla biblioteca già Lan- 
dau, e che è veramente, come affermavo, una 
ristampa dell’ ediz. gualteruzziana, si vedano gli 
scritti cit. di A. ARUCH, Il ms. Marc. d. Nov., 
pag. 304, n., e di G. Biagi, Ancora led. borghi- 
niana, ecc. Intorno alla prima edizione a stampa 
del Novellino niente è mutato di quanto conclu- 
devo in questo scritto]. 

? [Avvertiamo che il Palatino E. 5.7.57 è quello ora 
segnato 659]. È del sec. XV, e viene indicato dal 
CARBONE, p. XV. Ristampando questo lavoro, rico- 
nosciamo col Biagi (pag. XCVIII, che questo 
codice è posteriore all’ ediz. gualteruzziana. Con- 
corda colla edizione del Gualteruzzi, secondo nota 
il CARBONE, p. XII, anche il cod. frammentario 


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56 


10 Ai 


DEL « NOVELLINO » 


magliabechiano in-4° del sec. XVI segnato coi 
numeri VI, 10, 194, ma monco delle ultime venti 
novelle. 

codici che riproducono la lezione gualteruzziana 
aggiungiamo il 3214 Vaticano, del quale ci diede 
notizia L. MANZONI (Rivista di Filologia romanza, 
I, p. 72) dicendoci che al dritto della quinta 
carta di esso codice « comincia il titolo della 
prima Novella, cui fanno seguito tutte le altre 
cento con l’ordine in che trovansi nell’ edi- 
zione del Benedettîi del 1525 ». Secondo il pro- 
fessor Monaci questa sarebbe veramente la copia 
fatta da Giulio Camillo Del Minio per commis- 
sione del Bembo: ma il Biagi però non ammette, 
e con buone ragioni (p. CXVIII), che servisse 
in tutto all’ edizione gualteruzziana: e suppone 
(p. CXLVI) che il Gualteruzzi o il Del Minio lo 
correggessero qua e là, spiegando così le diffe- 
renze fra il codice Vaticano e la stampa bolognese. 
[Ci consta che il Vaticano 3214, sul quale recen- 
temente E. SicARDI fece un’edizione (Le Cento 
Novelle Antiche, nella Bibl. Romanica, 71-72, 
Strassburgo, Heitz) fu sicuramente di Pietro 
Bembo e passò dalle mani di Torquato Bembo a 
quelle di Fulvio Orsini nel 1582; v. La Bibliothèque 
de F. Orsini par P. pe NoLHaAc, 73ème fasc. de la 
Bibl. de l’ École d. Hautes Études, Paris, 1887, p. 104 
n. 4, dove è da modificare l’ affermazione (p. 309) 
che questo sia il testo usato dal Gualteruzzi. La 
collazione dei mss. più affini all’ ediz. gualteruz- 
ziana porta ora a ritenere che questa derivi dal 
ms. che servì di esemplare al Vaticano 3214; ma 
non già direttamente, come mostrò credere il 
Braai (op. cîit.. p. CKLVI), bensì per mezzo di due 
copie successive, sulle quali si fecero alcune cor- 
rezioni al testo alquanto alterato.) 


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E DELLE SUE FONTI 57 


1! Cioè la VI, VII, XII, XVI, XVII, XVIII, XXXVI, 
XXXVII, XXXIX. LIV, LVII, LXII, LXXV, 
LXXXVI, LXKXXVII, XCI, XCIII del testo gual- 
teruzziano. La LXII[ trovasi però, con qualche 
varietà di lezione, dopo la Dichiarazioae di alcune 
voci antiche. 

1? Prefazione a nome del Giunti, e Lettera CXXVII 
nelle Prose Fiorentine (ediz. del 1745, part. IV, 
vol. IV, p. 333), riferita nella edizione torinese, 
p. XLV seg. 

13 II FOLLINI (Dissertazione, negli Opuscoli detti di Bor- 
gognissanti, vol. V) sembrerebbe credere poco 
all’ esistenza di questo codice, quando dice che 
del Novellino, il Borghini « fu piuttosto corruttore 
che correttore, » 

14 Ciò congettura, con molta probabilità, il CARBONE, 
Prefazione, p. XII, e meglio prova il Biaci nel 
cap. V del suo lavoro, notando le sostituzioni e 
le mutazioni fatte dal Borghini per scrupoli di 
religione e di morale. Si ricordi che circa lo stesso 
tempo, per voler della Inquisizione, usciva a luce 
il Decamerone castrato dallo stesso Borghini. 

15 Delle diciotto novelle proprie all’ edizione borghi- 
niana e delle loro fonti, così dice il BrAaGr: « Dieci 
non si trovano in nessuno dei ms. del Novellino 
esistenti: e sono la V, XV, LI, LIX, LXVIIJI, 
LXXIV, LXXXIX, XCII, XCIX, C. Le rimanenti 
otto occorrono nel panciatichiano-palatino, inte- 
ramente o in parte (p. CLXXIII). » [E ora si veda 
ciò che dice il Braai nell’ ultimo suo scritto cit.] 

!6 (Oggi è il Panciatichiano 32 della Bibl.. Nazionale 
Centrale di Firenze]. 

1? La Novella di Messer Dianese e di Messer Gigliotto; 
per nozze Zambrini-Della Volpe, Pisa, Nistri, 1868; 
Due Novelle Antichissime inedite; pubblicazione 
fatta sulla nostra copia dal prof. Pietro Ferrato, 


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58 DEL « NOVELLINO » 


Venezia, Clementi, 1868. A propositto di questa 
pubblicazione, ecco un piccolo ma piccante aned- 
doto. Quand’ io stampai la prima di queste novelle, 
e poi diedi l’ altre due da stampare al Ferrato, 
tacqui il codice onde erano tratte, perchè qualche 
impronto non vi ponesse sopra le mani. Intanto, 
« un illustre filologo e letterato » ecco che cosa 
scriveva in proposito allo ZAMBRINI (Op. volg. a 
stampa, col. 703): « Non so se il D'Ancona abbia 
voluto far la celia al Ferrato, o se anch’ egli (?) sia 
d’ accordo: so solamente che antiche non mi 
paiono: anzi la contraffazione mi par tale, che 
non ci può rimaner colto se non chi legge sbada- 
tamente, o chi non s’ intende di queste cose. » Il 
ben intendente « di queste cose », che così scri- 
veva al mio vecchio e pregiato amico, e che discor- 
rendo con parecchi portava simil sentenza sulla 
autenticità delle Novelle, con ugual sapienza filo- 
logica e non diversa finezza di giudizio sostenne 
esser la Cronica di Dino Compagni falsificazione 
di età posteriore. E? nunc erudimini! sulla dot- 
trina e sul criterio di certi « illustri filologi e 
letterati »! 

18 Catalogo dei Novellieri italiani in prosa raccolti e 
posseduti da Giovanni Papanti, Livorno, Vigo, 
1871. L’appendice ha numerazione a parte di 
p. LII. Il Biagi pubblicò poi integralmente questo 
codice insieme col Gadd, reliq. 193 nella cit. ediz. 
del Novellino, Firenze, 1880, e recente ristampa 
senza data, della stessa Ditta Sansoni. 

19 Novelluzze tratte dalle Cento antiche secondo la lezione 
di un codice manoscritto della r. biblioteca Mar- 
ciana, Venezia, Merlo, 1868. Per nozze Zambrini- 
Della Volpe; edizione di LXX esemplari. 

® Il CARBONE, p. XVI, ricorda anche un cod. lauren- 
ziano miscellaneo membranaceo in foglio, del 


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E DELLE SUE FONTI 59 


XIV sec., segnato di n. 193 (Gadd. reliq.), conte- 
nente solo trentadue novelle. Al PAPANTI noi 
indicammo un codice Magliabech. già strozziano, 
cl. XXV, n. 513 [e oggi segnato II, III, 343], 
contenente parecchie narrazioni del Novellino, fra 
le quali talune inedite, che in numero di dieci 
furono stampate nella citata aggiunta al vol. I del 
Catalogo. Il Vocab. della Crusca cita un cod. di 
Pier del Nero già Guadagni n. 163, ora Palatino 
312: V. Tav. delle Abbreviat., p. 123, Firenze, 
Cellini, 1862. [All edizione critica già da altri 
promessa e invano attesa, attende ora il dottor 
A. ARUCH]. 

21 Su tutti i cod. del Novellino in numero di otto, sono 
adesso da vedere le maggiori e più esalte notizie 
date dal Biagi, pagg. LXXXVIII e segg. [V. ora 
anche A. ARUCH, scritto cit.]. 

22 Più sotto diremo le ragioni per le quali al gualte- 
ruzziano facciamo succedere secondo in ordine il 
cod. marciano, e terzo il panciatichiano. [Così 
scrivevo, opinando che il testo gualteruzziano 
rappresentasse a preferenza degli altri la forma 
primitiva del Novellino; e colla lunga argomenta- 
zione che segue misi in evidenza come i dati 
storici delle Cento novelle entrino tutti nei limiti 
del sec. XIII, il che non è di quelli offertici dal 
testo borghiniano. A determinare l’età del Novel- 
lino i miei argomenti sono tuttora validi, come 
mostrerò anche più oltre.] 

23 Dedica a mons. Goro Gheri. 

24 Alla stessa età mostrano di appartenere anche i così 
detti Conti Martelliani, o di antichi cavalicri (edi- 
zione Fanfani, Firenze, Baracchi, 1851, e in NAN- 
NUCCI, Manuale, II, 85-93, ediz. Barbèra). Ma essi 
sono, conforme osserva anche il BARTOLI (I primi 
due secoli della letter. ital., Milano, Vallardi, p. 293), 


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60 DEL « NOVELLINO » 


prette imitazioni e riduzioni dal. francese o dal 
provenzale, nè solo i Conti che trattano del Re 
giovane o di Folco di Candia, ma anche gli altri 
del ciclo cavalleresco troiano e romano. È anche 
il Libro dei Sette Savj è da porsi alla fine del 
dugento: ma nella edizione nostra (Pisa, Nistri, 
1864) crediamo aver provato come esso sia tra- 
duzione dal francese. Nel Novellino invece, seb- 
bene alcune, anzi molte novelle, sieno imitate o 
tradotte da altre lingue, 1’ idea della compilazione 
è originale, e originali sono pure molte altre 
delle novelle ond’ esso è composto. [Oggi sap- 
piamo che i Conti di antichi cavalieri (v. ediz. di 
P. Papa in Giorn. Stor. d. Letter. Ital., III, 197) 
sebbene imitino o riducano dal francese, diretta- 
mente o indirettamente, quanto alla materia caval- 
leresca, si attengono invece ad un testo italiano, 
e propriamente di dialetto romanesco, quanto ai 
Fatti di Troia e di Roma (v. E. G. Panopi, Le 
Storie di Cesare nella letter. ital. dei primi secoli, 
in Studi di filol. rom., XI, 481-3, ed E. MonACI, 
Sul Liber hystoriarum romanorum, in Archivio 
della Soc. romana di St. patria, XII (1889) p. 179).] 

25 II MAZZucHELLI nelle annotazioni alle Vite di FiLipPO 
ViLLani lo fa nascere nel 1233. GiovANNI VILLANI 
pone la sua morte nel 1303, ma l’ ALIDOSI vuol 
che morisse nel 1299, e il Biscioni « con forti 
argomenti ha sostenuto per cosa certa (MAzzu- 
CHELLI, 0p. cit.) » che ciò seguisse nel 1296. A Gio- 
VANNI VILLANI Si possono contrapporre le autorità 
di RiccosaLpo FERRARESE (R. It. Script., IX, 143, 
253) e dell’Anonimo CESENATE (Id. îd., XIV, 1122), 
che ne pongono la morte al’95: data accolta dal 
Sarti e dal TrrasoscHi. Nel 1293, Taddeo era 
invitato a Venezia da quel comune, come si legge 
in ROMANIN, Storia di Venez., II, 397. 


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E DELLE SUE FONTI 61 


* SARTI, De prof. bonon., I, 1, 467. 

" Libro di Novelle e di bel parlar gentile, ecc. Firenze, 
Vanni, 1778, I, 169. 

® DANTE, De Vulg. eloq., I, 12. 

% 1240: sexto Idus sextilis Paulus Traversarius Raven- 
nae decessit, sepultus est in divae Mariae cogno- 
mento Rotundae templo, summa ac pene regia 
funeris pompa: lib. VI. 

% ViLani, VII, 120. Vedi su Marco le notizie raccolte 
dallo ScARTAZZINI a commento della menzione 
dantesca. 

3 Vedi Chron. Parm. (in Rer. Ital. Script., IX, 776): 
MCCLII, Dominus Raynerius de Calbulo de Fa- 
ventia fuit Potestas Parmae. Questa citazione 
traggo dal Commento dello ScARTAZZINI ai v. 88 
c. XIV del Pwurg., dove però, per sbaglio è detto 
Mantova invece di Parma. 

% Aldobrandinus sive Ildebrandinus e nobilissima Caval- 
cantia familia.... subletus urbevetanus episcopus 
anno 1271.... haud sine sanctimoniae laude illam 
rexit usque ad annum 1279, quo tempore Flo- 
rentiae e vivis exempius est, die 30 mensis Augusti : 
UGcBELLI, Ital. sacra, I, col. 1472. 

® L'edizione del Tosi, Milano, 1895, p. 73, scrive erro- 
neamente « il vescovo mangiadore. » 

“ UGcELLI, Ital. sacra, II, 121. 

$ Manni, ed. cit., II, 119. — Il MANNI, I, 182, vorrebbe 
poi che il Giacopino Rangone della novella XLIII 
fosse un figlio di Gherardo, potestà di Bologna 
nel 1245; ma al PARENTI (Scelta di Novelle Antiche, 
Modena, Soliani, 1826, p. 83), ciò pare incerto, 
« essendovi stato più di un Giacopino Rangone 
circa il tempo a cui si riferiscono queste novelle ». 
Noi crediamo però che il MANNI abbia ragione, 
essendo quel Jacopino di Gherardo conosciutis- 
simo in Toscana, ove era stato Potestà a Siena 


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62 


%6 (3. 


DEL « NOVELLINO >» 


nel 1235 (v. Der, Cron. San., in Rer. Ital. Script., 
XV, 25) e nel ‘60 a Firenze, comandando le milizie 
nell’ infelice battaglia di Montaperti. L’ ultima 
sua potesteria conosciuta è a Parma nel 1278. 

B. GHIO osserva che di Ezelino si tratta nelle 
novelle XXXI e LXXXIV; e dall’ esser detto nella 
seconda che Ezelino fu preso e morto nella bat- 
taglia di Cassano, ne arguisce, forse un poco 
troppo arditamente, che la prima fu scritta vivente 
il feroce signore, e l’altra dopo morto; ma che 
ad ogni modo, e qui consentiremmo più volen- 
tieri con lui, ambedue furono composte « intorno 
alla metà del sec. XIII, poco più poco meno »; 
Pref. all’ ediz. torinese, p. VIII. 


37 Siniscalco del Venasino nel 1233. Vedi PaPon, MHist. 


de Provence, II, 313; GALVANI, Osservae. sulla 
poesia dei Trovatori, Modena, Soliani, 1839, p. 497. 


38 L’AMBROSOLI, Manuale della Letterat. (Firenze, Bar- 


bèra, 1866, vol. I, p. 50), per notizia a lui comu- 
nicata dal prof. Nova, ci fa sapere che qui non 
trattasi di uno schiavo, ma di un Michael Sclavus, 
che nel 925 fu in Bari catapàno, e perciò anche 
giudice supremo. Il PikROTTI (Le Cento Nov. 
Ant., Milano, Bettoni, 1869, p. 16), osserva che 
schiavo potrebbe essere corruzione di scabdino, e 
cita la Cronaca del Volturno dove trovansi men- 
zionati Ansericum sclabum, Josephum sclabum. E 
infatti il MuRATORI (Antig. M. Aev., X), scrive: 
Nisi alii ibi sclabi sunt, nisi Scabini. L’articolo 
preposto alla parola e le frasi del novelliere, con- 
fortano, dice il PIEROTTI, questa spiegazione. Certo 
è che presso i nostri antichi, lo Schiavo di Bari 
divenne un tipo di perfetta giustizia e di sapienza, 
come si vede dal BaRrBkRINO (Reggimenti delle 
donne, par. 1), e dalla Dottrina dello Schiavo di 
Bari (ed. Zambrini, in Scelta di curiosità, n. XI). 


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E DELLE SUE FONTI 63 


La citazione storica dell’AmBRrosoLi e la filologica 
del PieRorTI, sfuggirono al WksseLoFsKY quando 
in un suo articolo intorno ad alcuni testi dei dia- 
letti dell’ Alta Italia (Propugnatore, vol. V), andò 
cercando il perchè di cotesto epiteto di schiavo. 
[Il Rajna ci ha dato ora importanti notizie sullo 
Schiavo di Bari, rimatore volgare che sta fra il XII 
e il XIII sec. e può con verosimiglianza identificarsi 
col giudice della nostra Novella. (V. in Bibl. delle 
scuole ital. Serie III, anno X (1904), n. 18). Si veda 
anche: F. ScANDONE, Lo Schiavo di Bari israelita ? 
per Nozze Fedele-De Fabritiis, Napoli, 1908]. 

3 Anche nelle Nov. XXIV e XXV del Papanti vien 
ricordato Corso Donati: ma dalla XXIII in poi 
coteste Novelle sono tratte non più dal panciati- 
chiano-palatino, ma dal cod. strozziano-magliab. 
Dal quale proviene anche la XXXII ove si men- 
ziona Madonna Felice moglie di Messer Ugo da 
Ricasoli. Di Ughi Ricasoli molti sono ricordati dal 
PASSERINI (vedi Genealog. della Famiglia Ricasoli, 
Firenze, Cellini, 1861) ma, escludendo quello che 
fu monaco (p. 48), resterebbero uno fiorito verso 
il 115, altro morto nel 1310, e un terzo morto 
nel 1297, che ebbe in dominio quel castello gen- 
tilizio di Ricasoli di cui fa menzione la Novella. 
Questo è forse il marito di Madonna Felice: ma 
bisognerebbe sapere anche qualche cosa di pre- 
ciso su Guido di Messer Ubertino dei Pazzi e su 
Monaldo da Soffena, forse il poeta, de’ quali pur 
dice cotesta stessa Novella. Di Ser Monaldo da 
Soffena è fatta menzione per una carta notarile 
del settembre 1290 nei Ricordi di Guipo DELL’AN- 
TELLA (Arch. Stor., vol. IV, p. 8). 

‘TroyA, Del Veltro allegorico de’ Ghibellini, Napoli, 
Vaglio, 1856, p. 10. 

NI, 84; e Sigilli, XV, 118. 


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64 DEI « NOVELLINO » 


4: BAROZZI, Accenni a cose venete nel pocna di Dante, 
in Dante e il suo secolo, p. 805. 

43 Purgat. XVI. Dante riparla di Gherardo, ma come 
di persona morta (fosse stato) nel libro IV del 
Convito: e tutti gli arzigogoli del FRATICELLI non 
giungono a provare che Gherardo fosse morto 
nel ’97, e che Dante dandolo per vivo nel 1300 
commettesse un volontario anacronismo. 

44 I, 87. 

45 Diremmo piuttosto 1339, perchè se nel 1329, die XXVI 
Augusti, Ricardus, Tinus et Sichinus omnes de 
Manfredi reversi sunt Faventiam, Ricciardo fu da 
solo tiranno di Faenza nel 1339: die VII Ianuarii 
1339, Rizardus de Manfredi ascendit palatium 
Faventio (Cronica breviora, in MITTARELLI, Acces- 
siones, Venetiis, 1771, col. 326). Egli morì nel- 
l’anno 1340, XIII Augusti: D. Rizardus de Man- 
fredis ex hanc vitam migravit (Id. id.) La Novella 
dice che « avea sì fatto che in Faenza nè in Forlì 
non gli era rimaso amico ». Parrebbe quasi da 
queste parole che Ricciardo fosse anche signore 
di Forlì: ma Forlì fu sempre in quel tempo degli 
Ordelaffi o della Chiesa (BonoLI, Ist. di Forlì, 1661, 
p. 140-2): e perciò, o deve dire Imola di cui Ric- 
ciardo si era impossessato innanzi, o deve accen- 
nare ad amici e fautori che potesse avere in Forlì. 

Nella Novella si ricorda anche Francesco da Cal- 
boli consigliere di Ricciardo, che potrebbe essere 
quel Franciscum de Calbolo episcopum caesenatem, 
del quale parlano all’ anno 1334 gli Annales cae- 
senates (in MuraATORI Rer. It. Script., XIX, 1159). 

46 I, 89. 

41 MANNI, Sigilli, XXV, 105. 

48 I, 89. 

49 II, 24. 

50 Appendice alla Illustrazione storica del Boccaccio 
scritta da D. M. Manni, Milano, Pirotta, 1820, p. 12. 


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E DELLE SUE FONTI 65 


51 Fables inédites, etc. Paris, 1825, I, pag. CCIV. A pa- 
gina CXLVIII il RoBERT assevera che il Romanzo 
di Renart le contrefait, ove pur trovasi la Novella 
dei due ciechi, ha due diverse redazioni: l’ una 
del 1322, l’ altra posteriore al 1328: nella prima 
la scena è posta a Roma ed è il Papa che dà i 
due pani, nella seconda si tratta di Filippo re di 
Francia. Il RoBERT sostiene che il Novellino è 
della fine del sec. XIV, ed uno dei suoi argo- 
menti (p. GCIV) è che il re giovane di Inghilterra 
non può essere se non il Principe Nero, morto 
verso il 1376. Ora il Re Giovane è figlio di Enrico II; 
e bastava, per non confonderlo col Principe Nero, 
notare come nella Nov. XIX si dica che Bertram 
dal Bornio era suo consigliere ed amico. 

5* Il Biagi (pag. XGVII) dice dei primi del sec. XVI, 
ma sembra errore di stampa, per XIV. [Il ms., 
secondo osservazioni più recenti, pare tutto della 
prima metà del sec. XIV; ma la Novella in que- 
stione è nella meno antica delle due parti in cui 
esso si distingue. (V. ARUCH, op. cit., p. 14-15; e 
cfr. I cod. panciatich. della R. Bibl. Naz. Centrale 
di Firenze (Indici e Cataloghi), Roma, 1887, p. 64).| 

ss H. MARTIN, Hist. de France, Paris, Furne, 1861, IV, 
p. 73 e 8egg- 

5 [EmrLio RE nel suo scritto Una novella romana del 
Novellino e V età probabile del ms. Panciatichiano 
(in Bull. d. Soc. Filol. Romana, n. X, 1907), appog- 
giandosi ed un passo del VILLANI (X, 87) vorrebbe 
che la Nov. si riferisse a fatti avvenuti intorno al 
primo quarto del secolo XIV. Egli anche identifica 
la « grande e gentile donna » della Nov. 54 Borghini 
(ed. Biagi, p. 149) con una Mabilia Savelli che, 
vedova d’uno Stefaneschi, si fece sposa di quell’Aga- 
pito Colonna menzionato alla fine della Novella. 
E questa reputa scritta dopo il 1347 (p. 63). Da 
tutto ciò trae vantaggio la mia conclusione finale.] 


D'Ancona II 5 


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66 DEL « NOVELLINO » 


55 Op. cit., p. 13. 
56 Op. cît., p. 12, 13. 


s? Hortunatus Siculus ossia lAvventuroso Ciciliano di 
Busone da Gubbio. Romanzo storico scritto nel 
MCCCXI, ed ora per la prima volta pubblicato da 
F. Nott, Firenze, all'insegna di Dante, 1839. Vedi 


a pag. 274. 
58 Pag. 274. 


58 Poniamo qui a confronto un brano secondo il testo 
francese dell’ Ordene de Chevalerie (in BARBAZAN- 
Mfon, Fabliaux, etc. Paris, Crapelet, 1808, I, 66), 
e secondo le versioni italiane del Borghini, di 


Bosone, e del Doni. 


Testo francese 


Après deus esperons li mist 
En ses deus piés, et si li dist: 
Sire, tout autressi isniaus 
Que vos volez qe vos chevaus 
Soit de bien corre entalentez, 
Quant vous des esperons ferez, 
K°' il voist par tout isnelement, 
Et cha ot là à vo talent, 
Senefient chist esperon, 
Qui doré sont tout environ, 
Que vous aiiez bien en corage 
De Diu servir tout vostre éage; 
Car tuit li chevalier si font 
Qui Diu aiment de cuer parfont, 
Adès le servent de cuer fin. 
Moult piave: bien Salehadin. 
Après li a chainte l° espée. 
Salehadin à demandée 
La senefiance del branc. 
Sire, fet-il, chou est garant 
Contre |’ assaut de l’ anemi, etc. 


Bosone 


Appresso gli calzò un paio di 
sproni d’oro, e gli disse: Signiore, 
questi sproni ci significano che 
tutti altresì justi e altresi intalen- 
tati come noi vogliamo che i nostri 
cavalli siano alla richiesta di nostri 
sproni, altresi justo e altresi inta- 
lentato dovete essere voi al nostro 
Signiore servire, ed a fare i suoi 
‘comandamenti. Appresso ciò gli 
cinse una spada col pomo e l’ elsa 
d’oro, e poscia gli disse: Signiore, 
questa spada ci significa sicurtà 

ncontro al diavolo, etc. 


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Testo Borghini 


Appresso gli calzò uno spe- 
rone d’oro o dorato, e gli disse: 
Signore, questo sprone ci significa 
altresì giusti e altresì intalentati, 
come noi vogliamo che nostri ca- 
valli siano, dovete voi essere a 
nostro Signore servire, ed a fare 
i suoi eormandamenti. Appresso 
ciò gli cinse una spada, e poscia 
gli disse: Signore, questa spada 
ci significa sicurtà contro al dia- 
volo, etc. 


Dons 


Appresso 4a calzò uno sprone 
d’oro ovvero dorato, e sì gli disse: 
Signore, questo sprone ci significa 
che tutti altresì justi e altresì inta- 
lentati, come noi vogliamo che i 
nostri cavalli siano alla richiesta 
de’ nostri sproni, altresi justi e 
altresì intalentati dovemo essere 
a nostro Signore ed a fare i suoi 
comandamenti. Appresso ciò gli 
cinse una spada, e poscia gli 
disse: Signore, questa spada ci 
Significa sicurtà contro il dia- 
volo, etc. 


E DELLE SUE FONTI 67 


60 Novelliere Ital., Venezia, 1754, I, Prefaz. p. XIV. Il 
TiraBoscHI (Storia della Letterat. dal MCCC al 
MCCCC, lib. III, cap. 2, $ 52), dice, citando questa 
prefazione: « ove però non sembrami abbastanza 
provato ch’ esse siano scritte poco dopo la morte 
di Ezelino da Romano. » 

61 Pag. VIII-IX. 

62 Avvertimenti della lingua, lib. II, c. 13. 

63 Appendice, ete., p. 13. 

6 Pref., pag. 3. Proseguendo, dice il MANNI: « Maggior- 
mente sembra che si apponesse circa all’ età con- 
troversa di quest’ opera, o per meglio dire non 
concordemente da ognuno ravvisata, il celebre 
ANTONMARIA SALVINI che ha sommi meriti colla 
Repubblica letteraria, ne’ Discorsi Accademici. » 
Qual fosse l’ opinione del SaLvini non è detto: 
nè mi è riuscito trovarla dando una scorsa ai titoli 
dei Discorsi: chè quanto a leggerli, non mici sento 
proprio il coraggio. 

6 Opere, Lugo, 1829, II, 239. 

6 Prefazione all’ ediz. modenese del 1826, p. XVIII. 

61 Prefazione all’ediz. fiorentina del Barbèra, 1868, p. VI. 

6 Libro III, p. 97, dell’ediz. del Carbone, Firenze, 
Barbèra, 1868. Vedi del resto la nota del Det 
LunGo a questo luogo della sua edizione, p. 382. 

6 Inferno, XXXIII. 

? CANALE, Nuova Ist. della Repubbl. di Genova, Firenze, 
Le Monnier, 1860, vol. I£I, p. 108, 373. 

71 Debbo questa notizia al cortese cav. L. T. BeLGRANO 
segretario della società Ligure di storia patria. 
Il documento è nel ToLa, Codex diplom. Sardiniae, 
I, 402. [Ora si sa che Branca Doria, padre di 
Bernabò, morì nel 1325, ma certo assai vecchio, 
anche se resulti inverosimile che l’anno di sua 
nascita sia il 1233. Ma il fatto della Novella meglio 
si addice a lui giovane, se non è da attribuire 
all’ altro Branca D. figlio di Manuellino che il 


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68 DEL « NOVELLINO » 


23 dicembre del 1207 non era ancora diciassettene, 
a quanto leggiamo in M. BRANCA, Il delitto di 
Branca Doria (in Arch. Stor. Sardo, IV, pp. 335- 
336). Ciò che narra la Novella risalirà al 1280, e 
anche più addietro, se si tratti del Branca più 
vecchio; al 1290, o giù di lì, se di quello più 
giovane. Non si escirà, in ogni caso, dal sec. XIII.] 

72 Avvertasi che nella edizione del VILLANI, secondo il 
lesto latino laurenziano pubblicato dal GALLETTI 
(Florentiae, Mazzoni, 1847, p. 13) si legge: Hic 
Bononiae obiit anno gratiae MCCXCVIII, e l’edi- 
tore malamente aggiunge fra parentesi: immo 
MCCCIX. È inutile dunque allegare il testo del 
VILLANI in favore della data 1309. 

7 Nota 80. 

14 Storia del diritto romano nel Medio Evo, traduz. ita- 
liana, Firenze, Batelli, 1844. Cap. XLIII, vol. II, 
parte II, p. 156. 

5 De Prof. bonon., 181. 

% TiraBOSCHI, Sf. della Lett. It. dal MCLXXXIII fino 
al MCCC, lib. II, cap. IV, $ 21. 

1 Inferno, XV, 110. 

#8 SAVIGNY, Op. cit., p. 154. 

7 [Sebbene il testo Panciatichiano sia stato mostrato 
più importante che prima non si credesse, gli 
argomenti che mi portarono a determinare l’ età 
del Novellino non han bisogno di esser mutati 
neppure oggi dopo molti anni. Il ms. Panciati- 
chiano nella sua prima parte, che rappresenta 
meglio la forma più antica della raccolta, ci trat- 
tiene nei limiti del secolo XIII pur coi due per- 
sonaggi Maso Leonardi e Ciolo degli Abati, i soli 
che abbiano importanza per determinare l’età, 
oltre quelli che esso ms. ha comuni colla reda- 
zione delle Cento novelle; cfr. ARUCH, Rass. Bibl. 
da. Lett. It. cit., p. Dl.| 


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E DELLE SUE FONTI 69 


80 11 FOLLINI (Dissertaz. citata), detto di non attenersi 
al testo del Borghini, che colle sue surrogazioni 
non permise « ai letterati un poco accorti di poter 
credere quella collezione tanto antica », aggiunge: 
« Io parlo delle vecchie edizioni genuine, secondo 
le quali credo che si possa stabilire la sua età 
verso il 1280. » E questo giudizio conforta anche 
colla ragione, non so quanto valevole, che il 
Novellino « non ha punto profittato della nobilis- 
sima musa » di Dante. 

8 Ormai per l’ industria e l’ acume di G. Biagi è pro- 
vato che il testo Borghini è messo insieme da 
varj manoscritti: niuno dei quali contiene fatti 
posteriori al 1340, anno al quale si riferiscono 
quelli di Ricciardo Manfredi. 

® Pag. VII. 

83 Prefazione giuntina (ediz. Torin., p. LIII). Cfr. anche 
la Lettera dello stesso BoraHINI nelle Prose Fio- 
rentine. Il BoraHINI che prendeva qua e là per 
rifare il numero delle cento, dopo espulse le dicias- 
sette gualteruzziane, sapeva bene che così il libro 
veniva ad esser opera di « varie persone »! 

4 Pag. VIII. 

8 Pag. IX. 

8 Pag. VI. 

87 Pag. XII, XVI. 

8 Qui deve alludersi allo ZANNETTI nella Prefazione al 
Novelliere Italiano, Venezia, Pasquali, 1754, vol. I, 
pag. XIII. 

8 Pag. IX. 

% Pag. XVII. 

9 Manuale della letterat. del primo secolo, Firenze, Bar- 
bèra, 1858, II, 300. 

9? Prefaz., pag. VIII. 

93 I primi due secoli della letteratura italiana, Milano, 
Vallardi, 1873, p. 293. 


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70 DEL « NOVELLINO » 


% Histor., III, 15. 

9% Vedi Trattato de regimine rectoris di Fra PAOLINO 
MinorITA, pubbl. da Adolfo Mussafia, Vienna, 
Tendler, 1868, p. 130. 

9% Delle storie contra li pagani di Paolo Orosio. volga- 
rizzamento di Bono Giamboni, pubbl. dal doltor 
Francesco Tassi, Firenze, Baracchi, 1849. 

9 Vedi anche un art. del P. Sorio nell’ Etruria. 1, 347. 

9% Numerato nella Chigiana, L, VII, 267. i 

9 Fiore di Filosofi e di molti savi, pubbl. da A. CAP- 
PELLI, Bologna, Romagnoli, 1865, p. XVI. [E si 
veda ora che cosa conclude il più recente editore: 
H. VARNHAGEN, Ueber die Fiori e Vita di filosofi ed 
altri savi ed imperadori ecc. Erlangen, Junge, 1893, 
pag. XXVII, sull’ autore di questa raccolta, e 
sulle relazioni di essa col Novellino, pag. XX.] 

100 Vedi la confutazione di questa sentenza nella Pre- 
fazione all’ ediz. torinese, pag. XVIII. 

101 Prefas. del CARBONE, pag. VIII. 

102 Vedi nell’Etruria, anno I, p. 18 e seg., un articolo 
biografico e bibliografico del CoLom8 DE BATINES 
su Andrea Lancia. In esso si citano atti privati 
e pubblici del Lancia dal 1315 al 1351 ed oltre. 
L’ Etruria ha pur pubblicato, I, 367, un volgariz- 
zamento di legge suntuaria fiorentina del 1355, 
fatto dal Lancia nel ’56. E nello stesso giornale a 
p. 140 e segg. è anche una Lezione intorno alle 
opere di A. Lancia di Luria: BENCINI. 

10 CARBONE, Prefae., pag. VIII. 

10* Dagli spogli del Borghini rinvenuti dal Braar si 
rileva che queste tre Novelle sono « cavate d’ un 
Comento delle Epistole d’ Ovidio volgare d’un 
Filippo Bocca di Lampada intorno all’ anno 1300. » 
Le novelle borghiniane 15, 16, 74, 85 si dicono 
tolte « d’ un foglio antichissimo che serviva per 
coverta d’ un libro » (BragI, pag. CXCVI-VII). Di 


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E DELLE SUE FONTI 71 


più, da una Nota degli Scambiamenti, pur rinve- 
nuta dal Braai negli autografi borghiniani, si 
rileva che realmente la Nov. 92 fu tolta da un 
volgarizzamento di Livio, e la 99 dalla Tavola 


rotonda. 


106 Testo Borghini 


Fue un giovane Re in una 
isola di mare, di grandissima forza 
e di gran potere, essendo molto 
giovane quanto per terra gover- 
nare. E quando cominciò a regnare 
si lolse per moglie una giovane 
donzella ed artificiosa e sottile in 
male più che in bene etc. 


Testo Carbone 


Uno giovane re fue in un 
isola di mare, di grande forza e 
di grande potere, ma molto era 
giovane quanto per terra gover- 
nare. (Quando cominciò a regnare 
si tolse per moglie una giovane 
donzella sottile e artificiosa in 
male ete. 


Del resto, vedi meglio le differenze fra i diversi 
testi delle tre Novelle inserite dal BorcHINI nella 
sua edizione del Novellino, nella pubblicazione di 
G. PAPANTI, Novelle di ser Andrea Lancia, Bologna, 


Romagnoli, 1873. 
16 Prefaz., pag. IX. 


10 Veramente vi è qualche differenza fra il volgarizza- 
mento antico edito dal DALMAZZO, e il testo Bor- 
ghiniano. Eccone un esempio: 


Testo Borghini 


esse volte facevano bada- 
lucchì per occupare il ponte che 
era nel miluogo: no ’l potea leg- 
ermente prendere 1’ una parte nè 
altra. Aflora venne uno de’ Galli 
a mezzo il ponte con grande bur- 
banza, che molto era bello del 
corpo a grande maraviglia, e gridò 
ad alta boce: vegna innanzi il più 
forte di tutti i Romani, e combat- 
tasi meco a corpo a corpo, accioc- 
chè la fine della nostra battaglia 
mostri quale gente sia più da pre- 
lare in fatti d’ arme. Li principi 
e' Romani si tacenno grande 
pezza, abbiendo onta ciascuno di 
rifiutare la battaglia e dottando 
d’imprendere primo l’ ultimo peri- 
colo, etc. 


Testo Dalmazzo (11, 163). 


Spesse volte facevano bada- 
lucchi per occupare il ponte, e 
leggermente nol poteano prendere 
l’ una parte nè l’altra. Allora 
venne uno de’ Galli a mezzo il 
ponte, il quale avea il corpo bello 
e grande a maraviglia, e gridò ad 
alta voce: Venga innanzi il più 
forte di tutti i Rioînani, e combat- 
tasi meco, acciò che la fine della 
nostra battaglia mostri quale gente 
sia più da pregiare in fatti d’ arme. 
I prineipi de’ giovani si tacettero 
grande pezza, avendo onta di rifiu- 
tare la battaglia, e non volendosi 
alcuno mettere innanzi al primo 
pericolo, etc. 


Per spiegare queste differenze, il prof. DatL- 
MAZZO dice che la Novella fu copiata da un ms. di 


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79 DEL « NOVELLINO » 


seconda dettatura o recensione, e precisamente da 
un testo del Borghini. 

108 Prefae., p. IX. 

109 È vero che la Novella è più lunga nel Doni che nel 
BoRGHINI, ma non si potrebbe dire che il BoRGHINI 
l’ abbia smozzicata in principio ed in fine, spe- 
cialmente trovando nel cod. Palat. panciat., n. 38, 
p. 130, una versione anche più corta che quella 
borghiniana. Infatti essa comincia dalle parole: 
« Primieramente il suo corpo e la sua barba li 
fece più bellamente apparecchéare » e va sino alla 
fine con lievissime differenze dalla stampa. Il 
cod. mostra essere del sec. XIV, seconda metà. 

110 Del reggimento e de’ costumi delle donne di m. FR. DA 
BarBERINO, Milano, Silvestri, 1842, p. 29. 

111 Nei brani pubblicatine dal prof. BARTSCH (nel Jakr- 
buch f. roman. literat., XI, 43 e seg.), vien citato 
questo Fior di Novelle, ma dal contesto non si 
ricava se sia scrittura dell’autore: Ef de hoc scripta 
aliqua in libro Florum novellarum sepius allegato. 
Altrove cita dicta,... domini Guill’ i de Bergadamo, 
e le «UWusionibus domini Guill’'i de Bergadam. Più 
innanzi è detto: Dicit.... monachus de Montaldo 
provincialis etc. Hoc quidem dicium reperii cum 
suis multis pulcris circa principium illius libri 
provincialis cujus est rubrica talis: Flores dictorum 
nobilium provincialium. Finchè non si esamini il 
cod. non mi libererò dal sospetto che il los 
novellarum e i Flores dictorum mnobilium provin- 
cialium non siano la stessa cosa. [Fortunatamente 
non che distrutti, i Documenti d’Amore e il loro 
commento sono venuti oggi alla luce quasi per 
intiero nell’ edizione diplomatica a cura della 
Società Filologica Romana 1902 e seg. Già nel 1883 
A. THOMAS, avendo potuto studiare l’ inedito Com- 
mento, mise in chiaro che F. da B. compose real- 


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E DELLE SUE FONTI 73 


mente dei Flores Novellarum (così ci avverte ch’ è 
più esattamente il nome dell’ opera), e distinse 
questi dai Flores dictorum nobilium provincialium, 
i quali ultimi congetturò fossero una raccolta di 
notizie biografiche e aneddoti su varj poeti pro- 
venzali (v. Fr. da Barberino et la litt. provene. en 
Italie au M. Age, Paris, Thorin, 1883. pp. 83 e 
110). Recentemente tornò sulla questione R. ORTIZ 
(Zeitschrift fùr roman. philol., XXVIII, 556 e seg.) 
trattandone alquanto confusamente e senza farla 
avanzare di un passo. Egli mostra ritenere che i 
Flores Novellarum potrebber derivare dai Flores 
dictorum mnobilium provincialium, e soggiunge: 
«In questo caso il Novellino, che manifestamente 
risente tanto del provenzale e il cui titolo di Fiore 
di bel parlar gentile sembra una traduzione bella 
e buona dell’ altro: Flores dictorum nobilium pro- 
vincialium dove il parlar corrisponde al dictorum 
ed è da intendere nel senso di nmovellare, e il 
gentile coincide a capello col nodilium, non potrebbe 
avere qualche relazione coi Flores di cui ci occu- 
piamo e rappresentare magari una delle opere, in 
cui il B. ha émbreviato i suoi Flores novellarum? » 
(2. cit., p. 557, nota 3). Ma questi sforzi resultano 
vani del tutto quando si osservi come sia illusoria 
la mostrata corrispondenza dei nomi, giacchè il 
Novellino ha per titolo Libro di novelle e di bel 
parlar gentile (ediz. Biagi, p. 3) e non già Fiore 
di bel parlar gentile. La vecchia opinione che a 
Francesco da Barberino sia da attribuire il Novel- 
lino o parte di esso non ha dunque trovato oggi 
migliori sostenitori di quelli contro cui scrivevo 
un tempo le pagine qui sopra, ed in tanta scarsità 
di notizie sui due Flores citati dal B. e con tale 
debolezza di argomenti, non ci sentiamo davvero 
di concludere coll’ O. (p. 558) che « una certa rela- 


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74 DEL « NOVELLINO >» 


zione bisogna pure ammettere fra esso (Novellino), 
i Flores dictorum e i Flores novellarum del B. »] 

112 Negli estratti del BARTScA veggo menzionato il Ber- 
gadam e un libro in cui ne è fatta menzione, ma 
non si rileva se il libro sia del BarsERINO o 
d’ altri, perchè è citazione monca (fol. 9, v.°): Ut 
corda eorum crescere facias, recita de magnificis 
gestis precedentium.... et de multis bellis ex Tito 
Livio, et de brevibus dictis Beltram del Born, 
Bernard del Ventador, Guill’i Aesmar, domini 
Raymundi de Andegavia, Giraut de Brunel et 
multorum, de quibus hoc libro reperies ex provin- 
cialibus mentionem, et de illusionibus domini 
Quill''i de Bergadam aliquantum. Non potrebbe 
l’ hoc libro riferirsi al Commento stesso marginale ? 

113 Quel Messer Beriola potrebbe esser lo stesso che 
Messer Beriuolo nominato nella nov. LVII gual- 
teruzz. Ma non potrebbe anche aver |’ Ubaldini 
equivocato col trovatore Peirols, se per avventura 
questi fosse citato, fra i tanti, nel commento bar- 
beriniano ? 

U4 Prefaz., pag. XIX. 

115 Lesioni accademiche del GC. GiovANNI GALVANI. Mo- 
dena, Vincenzi e Rossi, 1840, II, 195. 

116 Id. id., p. 197. 

117 Pag. 207. 

118 Bologna, Romagnoli, 1870. 

119 Pag. VI. 

120 Il PirROTTI invece, che mise fuori la sua Adone 
un anno dopo il CARBONE, accetta l’ipotesi del 
l’ UsaLDINI e del GALVANI, opinando che al Bar- 
berino « molte novelle appartengano » e special- 
mente quelle di stile più vivace, di immagini più 
serene e gentili, che narrano di armi e di amore 
o di nuove cortesie. Di più aggiunge che « a rite- 
nere ciò ne conforta l’ onestà che sempre servò 


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R DELLE SUE FONTI 75 


il Barberino nelle sue seritture, e direi quasi 
un’ alterezza signorile » (pag. XIII). 

121 Pag. VIII. 

122 « Vedi per es. nel principio della novella di Gioietta, 
quante parole per dirci le buone qualità di Cor- 
rado! » 

123 Op. cîit., p. 296. 

124 Citiamo, quantunque per esser tirata a soli 26 esem- 
plari, non sia nelle mani di molti, ia splendida 
edizione delle Novelle di Messer Francesco da 
Barberino tratte dal libro del Reggimento e de’ co- 
stumi delle donne, messa in ordine dal comm. 
FRANCESCO ZAMBRINI, Offerta da Giovanni Papanti 
per le nozze Bongi-Ranalli, nel 1868, e stam- 
pata a Bologna nella Tipografia del Progresso. 
A p. 17 si legge: « Fui una fiata in Vinegia. 
Vedemmo una bella donna ecc. ». A p. 22: « Io 
mi ricordo ch’ io vidi una fiata una gentil donna ». 
A p. 31: « Essendo io alla detta Badia, ecc. ». 
A p. 54: « Essendo io una fiata a Parigi, dissemi 
uno cavaliere, ecc. ». A p. 62: « Passandome per 
Alvernia, fummi mostrato presso a N. D. del 
Poggio un castello del nome del quale non mi 
ricorda, ecc. ». A p. 79: « Ebbe in quella con- 
trada, secondo mi disse uno canonico della chiesa 
maggiore, ecc. ». A p. 91: « Ricordami che si 
mantenne più bella la madre, ecc. ». A p. 92: 
« Io pur la vidi invecchiare, ecc. ». A p. 95: 
‘« Vid’ io questa non so come, divenir bianca ». 
Altre volte si citano le fonti: a p. 38: « Nel libro 
di Madonna Mogias d’Egitto.... si dice, ecc. ». 
A p. 42: « Raceonta Pietro Vidale.... et adduce 
di ciò un esempio ». A p. 45: « Leggesi nel libro 
di Madonna Mogias d’ Egitto del quale si fa di 
sovra menzione, ecc. ». A p. 59: « La Contessa 
di Dio.... sicondo ch’ella dice in un swuo trat- 


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76 DEL « NOVELLINO » 


tato, ecc. ». E notisi che le Novelle non sono più 
di XXII, sicchè può dirsi costante l’ uso del Bar- 
berino di citare o un libro o le proprie rimem- 
branze per autenticare la Novella. 

12 Prefaz. alla ediz. giuntina (ediz. torinese, pag. LIII). 

126 Prefae., pag. VI. 

127 Prefas., pag. XII. 

128 CARBONE, Prefae., pag. I; BARTOLI, op. cit., p. 296. 

129 Nella Nov. XXX dicesi che « Messer Azzolino aveva 
uno suo novellatore, il quale facea favolare quando 
erano le notti grandi di verno. » E la LXXXIX 
dice di una brigata di cavalieri che « cenavano 
una sera in una gran casa fiorentina, et aveavi 
un uomo di corte, il quale era grandissimo favel- 
latore; quando ebbero cenato, cominciò una Novella 
che non ne venìa meno. » 

130 Tuttavia è da notare che lo scrittore nel Proemio 
quasi si accusa di mischiare i fiori « intra molte 
altre parole. » 

131 fanno eccezione soltanto la Novella di Bito e ser 
Frulli (KXCVI) e la bella Novella d'amore (XCIX). 

13? Ciò si vedrà meglio dalle notizie sulle ..fonti delle 
Novelle. Del resto l’ autore indica implicitamente 
queste ed altre simiglianti raccolte dicendo nel 
proemio di fare « secondo che per lo PISRRO pas- 
sato hanno fatto già molti ». | 

133 Questo testo è quello che va sotto il nome del TRA- 
PEZUNZIO, ma il BARTHIUS (Advers., c. 10), 1 OuDIN 
(I, 1750) e tutti i critici unanimemente lo credono 
più antico, e postogli il nome del TRAPEZUNZIO 
dallo stampatore solo per maggiormente accredi- 
tarlo. Noi citiamo secondo l’ edizione: S. J. DAMA- 
SCENI, Hist. de vitis et rebus gestis Sanctor. Barl. et 
Josaph. ecc. (Antverpiae, Bellerum, cap. 30, p. 261). 
E il testo concorda abbastanza col greco del Bors- 
SONADE, Anecd. graeca, IV, 268, e col posteriore 


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E DELLE SUE FONTI TÌ 


volgarizzamento latino del BiLLio (in Rosweip, 
Vitae patrum, Antverpiae, MDCXV, p. 313). 

14 Roma, Mordacchini, 1816, p. 105. 

1% 4 Selection of Latin stories, London, 1842, p. 7. 

136 Una forma totalmente diversa, che si discosta dalle 
fonti originali non solo nelle riflessioni, ma nelle 
ragioni stesse astrologiche del celare che fa il 
padre il figliuolo, sostituendovi un esperimento 
per sapere « come nasce l’ amore tra l’uomo e la 
femmina, » trovasi nella Nov. XIX del cod. pan- 
ciatichiano, secondo la stampa del Papanti. Tali 
varietà dal comune testo medievale, indicano una 
posteriore e più libera versione, che serve di pas- 
saggio a quella delle oche di ser Filippo nella 
introduzione alla giornata IV del Decamerone. 
[Avvertiamo che la lezione di questa Novella, 
secondo i mss. che oggi si ritengono più autore- 
voli, è un po’ diversa e meno lontana in qualche 
luogo dal testo latino, di quel che sia la raffron- 
tata lezione gualteruzziana. Ciò si deve in parte 
alla corruzione che ha subito evidentemente que- 
st’ ultima in alcuni passi, mentre in altri appaiono 
le traccie di qualche rimaneggiamento cosciente. 
La lezione che presentiamo secondo il cod. Pan- 
ciatichiano, colle varianti più notevoli del Maglia- 
bechiano, II, III, 343 (M), è ancora assai magra, 
e il lettore che faccia il raffronto, pur modificando 
qualche mia osservazione, potrà tuttora servirsi 
di questa Novella per riconoscere (ciò che altre 
gli mostrerebbero anche più chiaramente) la neces- 
sità d’una spiegazione quale è quella che diedi in 
queste pagine. — Panciat. c. 18%-19* (ed. Biagi, 
p. 25); M, c. 742:« A uno Re nacque uno figliuolo. 
Li savi strologi providdero [M: dissono] che 8° elli 
non stesse X anni che non vedesse lo sole, che 
perderebe lo vedere. Onde {M: Allora] lo Re lo 


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18 


DEL « NOVELLINO > 


fece guardare & passato li X anni [M: passati 
dieci anni) sì li fece mostrare lo mondo & lo 
cielo, lo mare, l’oro & l’argento & le bestie [M: e 
bestiame] & giente; tra l’altre cose li fece mostrare 
belle femine. Lo giovano [M: Que] dimandò chi 
erano [M: chi lle femine fossero] & lo Re li fece 
dire ch’ erano dimoni [M aggiunge: Allora i’ re 
il fecie domandare qual più gli piacesse]. Allotta 
lo giovano disse [M: il gouano parlò e disse]: Li 
dimoni mi piacciono sopra tutte l’ altre cose. & lo 
Re disse [M: Allora disse il padre]: Ben si può 
vedere che istrana {M: tirana] cosa he bellezze 
[M: bellore] di femina [M: femine]. » 


137 [Si abbia ora riguardo a ciò che del ms. Marciano 


ho detto a p. 5i in fine della nota 2.] 


138 Sono in ciò discorde dal BARTOLI (op. cit., pp.-288-9), 


che vorrebbe anteriore il lesto panciatichiano 
appunto perchè più ampio. Egli dice non potersi 
supporre « che sul testo Gualteruzzi altri in quei 
tempi medesimi avesse composto per esercizio 
rettorico un più diffuso componimento. » Qui però 
non ci ha che fare la rettorica, e io farei torto 
alla dottrina del Bartoli citandogli molti casi, 
simili a questo ch'egli nega d’ammettere, comu- 
nissimi nella letteratura medievale. — « Da una 
parte, prosegue il BartoLI, abbiamo uno sche- 
letro, dall’ altro ci sta davanti una persona viva ». 
Siam d’ accordo; ma lo scheletro riceve via via 
ossa, polpe e sangue; così accade in moltitudine 
di casi, nelle opere letterarie: far di un uomo 
uno scheletro e non altro, è opera di anatomisti. 
[Il BartoLI tornò a sostenere la dottrina qui da 
me contraddetta nel III vol. della sua Storia della 
Letter. Ital., Firenze, Sansoni, 1880, p. 200. Ma 
gli studj più recenti sul ms. Panciatichiano hanno 
rivendicato a me una buona parte di ragione, in 


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E DELLE SUE FONTI 79 


quanto è stato assodato che le Novelle più ampie 
in fine del ms. sono posteriori al Novellino, dalle 
quali alcune d’ esse derivano, come già accennavo 
nella nota che segue (vedi E. Rk, op. cit., p. 63). 
Tuttavia, per ciò che soggiungo sulla composi- 
zione del codice Panciat., si veda ora ARUCH, op. 
cit., pp. 42 e seg.] 

159 Vedi ad es. la Novella di Narciso (Gualt., XLVI) 
che il codice panciatichiano narra due volte: 
I° una con semplici varianti, l’ altra con più ampio 
svolgimento (nov. X, Papanti). Anche la Novella 
tratta dal Barlaam vi è narrata due volte: una 
come nel Gualteruzzi, o presso o poco, l’altra 
come si vede nella XIX del Papanti. Un’ altra, 
quella di Migliore degli Abati, è pur due volte 
nel cod. con variazioni insignificanti. Qualche 
Novella del Gualteruzzi è nel cod. panciat. divisa 
in due. 

140 Novella I. 

141 Il BoRGHINI, Pref., (ediz. torinese, pag. LI) negando 
all’ opera il nome postole dal Gualteruzzi di Cento 
Novelle Antiche, dice: « non pure nello scritto in 
penna non abbiamo mai trovato alcuno con tal 
titolo, ma neanche non abbiamo in penna però 
nessun veduto col numero di cento appunto. » 
A questa erronea asserzione, meglio che il codice 
Palatino n. 57, che secondo il Biagi è posteriore 
alla stampa gualteruzziana, risponde il cod. vati- 
cano 3214 che concorda coll’edizione del Benedetti. 
Anche il cod. mutilo magliabechiano concorda, 
a detta del CarBONE (pag. XII) colla stampa del 
Benedetti, salvo la mancanza delle ultime venti. 
Tuttavia il CARBONE accetta (pag. X) la supposi- 
zione del BorGHINI, e dice averne avuto « pienis- 
sima riprova » dal codice Laurenziano 193 « dove 
le novelle sono poco più di trenta, non seguitano 


Go gle 


80 DEL « NOVELLINO » 


in tutto l'ordine delle stampe, non hanno rubriche 
nè enumerazione alcuna, e sono senza fallo da 
riputarsi fra le più antiche ». Escluderebbe il 
CARBONE l’ ipotesi che qui si avesse soltanto una 
scelta del Cento novelle primitivo? [Ora, pur non 
potendosi affermare che la raccolta di cento novelle 
sia la primitiva, resta sempre il valore del proe- 
mio a determinare l’ unità dell’ opera originaria, 
la cui ampiezza tuttavia non è dato precisare. 
Quanto al Laurenziano-Gaddiano 193, esso rap- 
presenta veramente una scelta, sebbene non del 
Cento Novelle.] 

142 Dichiarazione delle Voci: lettera S. (ediz. Torinese, 
pag. LXXIII). 

143 Dal francese probabilmente derivano molte che pur 
non sono di soggetto francese. Le novelle tratte 
dai romanzi cavallereschi sono composte proba- 
bilmente su esemplari francesi (IV, IX, XIII, 
XVIII, XXVII, XXVIII, XLV, XLVI, LXHI, LXV, 
LXXXI, LXXXII). Anche quelle del Re Giovane 
e di Riccardo d’ Inghilterra possono venire dalla 
lingua d’ oc come da quella d’oil. Soggetto francese 
hanno poi quella del Borghese di Francia (XXVI), 
quella della costuma che era nello reame di Francia 
(XXVIII), quella degli astrologi di Parigi (XXIX), 
quella di Messer Roberto di Ariminimonte (Remi- 
remont?) in Borgogna (LXII), ecc. 

144 Novellino provenzale, pag. VI. 

145 Così anche taluni passi del Novellino borghiniano si 
intendono soltanto avendo ricorso ad un testo 
latino. Veggasi ad es. questo brano di Novella, 
che par malamente incastrato nella LXXIV bor- 
ghiniana: « Molte volte si conduce l’uomo a ben 
fare, a speranza di merito o d’ altro suo vantaggio, 
più che per propria virtù; perciò è senno da cui 
l’uomo vuole alcuna cosa, metterlo prima in spe- 


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E DELLE SUE FONTI 81 


ranza di bene, anzi che faccia la domanda. La 
vecchia consigliò che non potea riavere un suo 
tesoro, ecc. » Chi sia e donde venga fuori « la 
vecchia » non s'intende, salvo ricorrendo al testo 
latino (Disciplina clericalis, Parisiis, 1824, 91-9) 
donde la materia fu presa, abbreviandola, e come 
stroncandola; e dove è scritto: « Vetula jusserit.... 
vetula surrexit et inquit, ecc. » 

46 Non siamo i primi a ricercare l’autore del Novel- 
lino, nè la ricerca è propria soltanto della critica 
moderna. ]l Mussaria ha nel Jahrbuch f. roman. 
literat. (1867), VIII, 214, dato notizia di un antico 
codice marciano, dove si trova l’ indice di certi 
lavori biografico-storici di un ignoto M. Antonio 
Niccoletti, che è gran peccato sieno andati per- 
duti. Il NiccOLETTI avea scritto, oltre che su 
Nicolò da Casola bolognese, e sugli scrittori 
de’ Fatti de’ Troiani, dei Romani, di Artù, degli 
amori di Florio e Biancofiore, de’ Reali di Fran- 
cia, ecc., anche « sullo scrittor delle Cento Novelle 
Antiche. » Se queste vite si ritrovassero, certo 
sarebbero di grande aiuto agli studj di storia 
letteraria. [Purtroppo il rinvenimento delle bio- 
grafie di M. A. Niccoletti, autografe, presso il 
conte Francesco di Monzano, già nel 1879 segnalate 
anche dallo HortIs in una giunta alla sua opera 
sugli Scritti latini del Boccaccio, ha procurato 
una delusione di più, e non piccola, agli studiosi. 
Su « Lo scrittore delle cento novelle antiche » il 
NiccoLETTI ci regala qualche frase, vuota del tutto 
d'una qualunque notizia: v. V. CRESCINI, Per gli 
studi romanzi. Saggi e appunti, Padova, Draghi, 
1892, pp. 174-175]. 

“Qualche cenno sulla cultura popolare nel 300 e sui 
fonti di essa, applicabile del resto anche ai tempi 
antecedenti, ho dato nello scritto: Una poesia ed 


D'Axcona - II 6 


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82 DEL « NOVELLINO » 


una prosa di Antonio Pucci, inserito nel Propu- 
gnatore, 1870, disp. V, VI. 

148 [Prendendo il codice Panciatichiano vi troviamo 
ancora nominati parecchi altri personaggi della 
Bibbia nei numeri XVIII e XXXIV dell’ ed. BraGi, 
pp. 25, 26 e 43). 

{49 [Altri racconti derivati dai Féori e vita di filosofî, ecc., 
o, comunque, dalle Vite di Diogene Laerzio, sono 
nel ms. Panciat., e si riferiscono a Diogene (BraaI, 
XLVIII, p. 58), Tullio (B. LV, p. 63 e LXVII, 
p. 74), Socrale (LXII, p. 69), Nasimondro (sic) 
(LXXIV, p. 79), Aristotile (LXXVI, p. 80)]. 

150 [E si aggiungano Giulio Cesare e Nerone: v. ed. Biagi, 
XXXIV, p. 43]. 

151 [Del Saladino si fa ricordo anche nel ms. Panciat.; 
v. ed. Biagi, XXXIV, p. 43). 

2 [V. anche Biagi, XVIII e XXXIV, pp. 25 e 43]. 

153 [Alcuni nomi del ciclo arturiano ci vengono innanzi 
anche nei due luoghi cit. nella precedente nota. 
Su Merlino, il Panciat. ci dà altre due narrazioni; 
v. Biagi, p. 72 e 76]. 

54 Vulg. Elog., I, 12; Purg., 3. 

155 Purg. XVI, 110. 

156 Abbiamo supposto che il Novellino potesse esser 
scritto tra il 1280 e il’90. I Ghibellini furono 
pacificati coi Guelfi e rimessi in Firenze nel °78 
e 79, e furono fiaccati soltanto, come parte poli- 
tica, colla battaglia contro i Ghibellini d’ Arezzo 
nell’ 89 a Campaldino. 

157 [Anche nel ms. Panciat. (c. 26%, Biagi, p. 43) si ricorda 
« lo giovano Re d' Inghilterra che donò tutto »]. 

158 [Coi quali andranno Messer Amari e Don Degio di 
Fienaia (Biagi, pag. 35 e 59)]. 

:9 « Sarei inclinato a credere che coloro che tali novelle 
composero, fossero varie persone piacevoli ed 
ingegnose che le scrissero nello schietto e bel 


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E DELLE SUE FONTI 83 


modo che in quei felici tempi della Repubblica 
fiorentina parlavasi, non per farla da letterati, 
ma per contarle al volgo, e porgergli così materia 
di trattenimento nelle ore vote e nojose, e massi- 
mamente nella sera in tempo d'inverno »: Pre- 
fazione, pag. X. 

160 « Meglio che al popolo si volge ai baroni ed ai 
cavalieri, e dalle loro avventure più spesso tragge 
argomento di novelle e di esempj »: PIEROTTI, 
Prefazione, pag. XIV. [Movendo dalla mia con- 
gettura, E. Sicarpi giunge addirittura all’ ipotesi 
che nell’ autore stesso debba vedersi appunto uno 
di questi « bei favellatori » : v. op. cit., p. 8 seg.]. 

41 Ghibellino lo riconoscono i più: v. fra gli altri, il 
MANNI, il GHIOo e dietro loro il FERRARIO, Prefa- 
zione all’ ediz. dei classici, 1804, pag. VIII. 

2 Vedi nel DeL Lungo, Dino Compagni e la sua Cro- 
naca, vol. I, pag. 409 e seg., alcune argute con- 
siderazioni sul Commento latino del Barberino, e 
sulla relazione delle dottrine in esso contenute 
con il fine per cui fu composto il nostro libro. 

13 Vedi ad es. le Novelle di Castruccio (V), di Rodolfo 
da Camerino (VII, XXVIII, XL, XLI), e di molti 
altri capitani di ventura e signorotti; e per contro, 
le Novelle degli ambasciadori senesi (XXX), di 
quelli del Casentino (XXXI), dei tre fiorentini al 
tempo della guerra di Pisa (XXXVI), di Agnolo 
di Ser Gherardo (LXIV), di Messer Rinaldello 
dell’ Oreno (CXXVII), ecc. 

1 [Il che conferma l’ ArucH, op. cît., p. 51, mettendo 
in evidenza, oltre Maso Leonardo e Ciolo Abati 
(ed. BrAGI, p. 22), un altro anonimo fiorentino 
che fa la sua comparsa nel ms. Panciatichiano 
(c. 26a-b, Biagi, p. 43)]. 

15 Prefue. torinese, pag. XXII-XV, XIX; Prefaz. del 
FerRARIO alla ediz. Milanese, pag. VIII. 


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84 DEL « NOVELLINO > E DELLE SUE FONTI 


166 Lo ZAMBRINI alla col. 613 del suo Catalogo delle opere 
volgari a stampa, ecc., ci dà la notizia che il 
sig. GIANSANTE VARRINI in un suo Discorso su 
Iacopo della Lana volle sostenere che il Novellino 
fosse di fra Guidotto. Ignoro quali fossero le 
ragioni addotte in favor di questa ipotesi: anzi 
se pur se ne adducano: dirò soltanto come è 
perfin dubbio se Guidotto scrivesse in volgare il 
suo Fiore di Rettorica. Vedi la citata opera dello 
ZAMBRINI, col. 500. Ne dubitarono, come avverte 
il NANNUCcCcI, Manwale II. 116, anche il SALVINI, 
il SALVIATI, il CoLomBo: anzi un codice citato dal 
NANNUCCI, accusa il frate Bolognese di plagio del- 
l’opera, scritta primamente dal GIAMBONI. 


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LE FONTI DEL NOVELLINO, 


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TESTO GUALTERUZZI 


NOVELLA I. 


Della ricca ambascieria, la quale fece lo Presto 
Giovanni al nobile imperadore Federigo. 


Il Presto Giovanni manda ambasciatori all’ Im- 
perator Federigo, per provar s’ ei fosse savio in 
opere e in parlare; gli ambasciatori debbono do- 
nargli tre pietre preziose e dimandargli qual’è la 
miglior cosa del mondo. Federigo accetta le tre 
pietre e, senza ricercare della virtù loro, le fa riporre 
nel suo tesoro: indi manda per risposta che la 
miglior cosa del mondo è misura. Il Presto Gio- 
vanni considerando che il dono era stato male 
speso, manda alla corte imperiale un suo lapidaro 
valentissimo in legar pietre. L’ Imperatore gli dà 
anche le tre pietre, e poichè l’una di esse ha virtù 
di celare chi la stringa in pugno, il lapidaro 
scappa via e le riporta al suo signore. 

Con lievi variazioni è la Nov. I del Testo Borghini. 
Vedi nella Romanîia vol. V, p. 76 (ann. 1876) 
un art. di R. KOALER dove si mette a paragone con 

questa Novella un racconto islandese del sec. XIV 

pubblic. da K. Gisuason (Copenhague, 1860; vedi 


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88 LE FONTI 


anche Gkring, JIslandisch. Legend, Novell. ecc. 
Halle, 1884, II, 157). Il fondo del racconto è identico, 
ma il K6BLER giudica la lezione italiana più antica 
o almeno più compiuta, talchè può dirsi contenere o 
l’originale stesso o una forma a questo assai vicina. 
Il KéaLkeR fa pur osservare che alcune frasi della 
Novella rassomigliano assai ad alcuni passi della 
Epistola Johannis regis Indiae Emanueli regi Grae- 
corum missa, et ab ipso Friderico imperatori directa, 
che trovasi anche nella Cronaca di ALBERICO DELLE 
TRE FONTANE, e fu ripubblicata dallo ZarNcKE a 
Lipsia, Edelmann, nel 1878. (V. anche lo studio dello 
stesso Z. in Abhandlungen der K. Scichsichen Ge- 
sellschaft der Wissenschaft. (philol.-histor. Klasse) 
VII, 1007). È assai probabile pertanto che la Novella 
nascesse dalla apocrifa lettera, e che si diffondesse 
nelle varie parti di Europa, tanto da giungere sino 
in Sslanda. 


NOVELLA III. 


D'un savio greco che uno ve teneva in prigione 
come giudicò d'uno destriero. 


Un greco giudica che un cavallo fu nudrito a 
latte d’asina, dal vedergli tenere le orecchie chi- 
nate; che una pietra preziosa ha un verme dentro, 
perchè è calda, anzichè fredda come naturalmente 
dovrebbe essere, e che finalmente il re, al quale 
ha dato siffatte prove di recondita sapienza, è figlio 
di un panettiere, perchè in rimerito gli ha dato 
un mezzo pane per giorno, laddove se fosse vero 
figlio di re, avrebbegli dovuto dare in dono almeno 
una nobile città. | 

È con lievi variazioni la II del Testo B., e, 
molto più svolta, la X del Papanti.. 


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DEL « NOVELLINO » 89 


Il raeconto è di origine orientale, e come osservò 
già il DunLoPp, Gesch. d. Prosadicht. &bers. v. Liz- 
BRECHT (Berlin, Miiller, 1851, p. 212), si ritrova 
nella Novella dei tre figli del Sultano di Yemen, e 
meglio in quella dei Tre avventurieri e del Sultano, 
tradotta dallo Scott (Tales, ecc. transl. from the 
arab. and pers.). Vedilo anche nella traduzione 
tedesca delle Mille e una notte di HaBicHT e Von 
DER Hagazn (nott. 458) e nelle Mille et une nutts 
(ediz. LoiseLEUR-DESsLONacHAMPS, Paris, Panthéon 
littér., 1841, p. 686-94). Nella Vita di Virgilio di 
Donato questo aneddoto è appropriato al gran poeta 
latino; ma come osserva il prof. COMPARETTI (Vir- 
gilio nel M. Evo, Livorno, 1872, II, 141) non trovasi 
nei manoscritti di Donato anteriori al sec. XV, 
sicchè debba considerarsi come interpolazione poste- 
riore. È anche nel libro spagnolo de Los enxem- 
plos, n. CCXLVII (in GayANGOoSs, Escritores en prosa 
anter. al siglo XV, Madrid, Rivadeneyra, 1860, 
p. 508), che l’ editore aggiudica al secolo decimo- 
terzo. Si trova anche in greco moderno nella Histoire 
de Ptocholéon, publ. par E. LeGRrAND (n. 19 della 
Collection des monuments pour servir à l'étude de 
la langue néo-hellénique), e in WAGNER (Carmina 
graeca medii aevi, p. 277-303), nonchè in Giprt, 
Nouvelles études de littérat. grecq. moderne, Paris, 
Maisonneuve, 1878, p. 383 e segg. e Annuaire de 
l’ussociat. pour les études grecq., 1872, p. 53. Per 
altri raffronti, vedi DunLOP, op. cit., p. 487, not. 282. 
È la terza delle Cinque Novelle antiche inedite, 
pubbl. da G. PapantTi per nozze d’Ancona-Nissim 
(Livorno, Vigo, 1851), tralte da prediche anonime 
del sec. XV. 

Su questo tema in generale, e sulle sue molte 
varianti, una delle quali è nèi Peregrinaggio di tre 
giovani figliuoli del re Serendippo di M. Cristo- 


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90 LE FONTI 


roro ARMENO (Venezia, 1577) e un’altra notissima 
nel Zadig di Vorrarre, vedi specialmente BenFEY 
in Orient u. Occia. III, 257, e I. Lévi, Trois contes 
juives, in Rev. des étud. juiv. XI, dove sono riferite 
o indicate altre numerose versioni orientali. Altre 
ancora ne riferisce R. Basset, in Revue d. tradit. 
popul., XI, 365, e in Contes popul. d’Afrique, Paris, 
Guilmoto, s. a., pp. 48, 109. Vedi anche la Storia 
di Rohako in F. L. PuLLé, Un progenitore indiano 
di Bertoldo, Venezia, Antonelli, 1888, p. XXV, XXIX, 
e 22. — Si raccosta al ciclo anche la 1* delle Novelle 
di G. SERCAMBI, ediz. Renier, Torino, Loescher, 1889. 


NOVELLA IV. 


Come uno giullare sî compianse dinanzi ad Ales- 
‘sandro d’ un cavaliere al quale elli avea donato, 
per intenzione che °l1 cavaliere li donerebbe ciò 
che Alessandro li donasse. 


Un povero cavaliere andando al campo di Ales- 
sandro che assediava Gadre (Gadres = Gaza), trova 
per via un giocolare bene in arnese, e riceve da 
lui armi e cavallo col patto che gli darebbe in 
cambio ciò che avesse dalla liberalità di Alessandro. 
Questi gli dà il possesso della vinta città; ma il 
cavaliere chiede invece oro, argento o robe, e ottiene 
due mila marchi. Il giullare si richiama di lui 
innanzi Alessandro, e il cavaliere si difende dicendo 
di aver chiesto ciò che meglio si confaceva alla 
condizione del suo creditore : e Alessandro e i 
baroni lo prosciolgono, commendandolo di gran 
sapienza. 


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DEL « NOVELLINO >» 91 


Con leggiere varianti è la III B. 

Il FAvRE (Recherches sur les hist. fabul. d’ Ale- 
randre, in Mélang. d’ hist. littér., Genève, 1856, 
II, 122) dice che il racconto sembra esser preso dai 
trovatori, ma realmente il fatto trovasi narrato nel 
poema francese di LAMBERT LE TORT e ALEXANDRE 
De BeRNAY (ediz. MicHELANT, Stuttgart, 1846, p. 222), 
salvochéè il cavaliere non chiede per il giullare, ma 
per sè, rinunziando al dono della città, perchè gli 
costerebbe troppa fatica il difenderla. 


NOVELLA VI. 


Come a David re venne in pensero di volere sapere 
quanti fussero i sudditi suoî. 


A Dio spiace quest’atto di vanagloria di David, 
e gli manda l’angelo suo, perchè in pena del pec- 
cato scelga egli o di stare tre anniin inferno, o tre 
mesi nelle mani dei suoi nemici, o rimanersi al 
giudicio del Signore. Egli sceglie quest’ultimo par- 
tito, e Dio manda la morìa nel popolo d’ Israele, 
sicchè scema quel gran numero di sudditi onde il 
re si gloriò. Un giorno che David s’ incontra col- 
l'angelo sterminatore, prega Dio che colpisca lui 
solo colpevole, e allora il Signore gli perdona. 
La fonte sarebbe il secondo libro dei RF, capi- 
tolo XXIV, se non che ivi invece dell’ angelo è il 
profeta Gad che dà a David la scelta fra sette anni 
di carestia, tre mesi di fuga al cospetto degli 
avversarj che lo inseguono, o tre giorni di pesti- 
lenza: ma David si rimette nelle mani del Signore, 
che manda l’ ultimo flagello. Il resto concorda. 


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99 LE FONTI 


NOVELLA VII. 


Qui conta come l'Angelo parlò a Salamone, e disse 
che torrebbe Domeneddio il reame al figliuolo 
per li suoî peccati. 


Si narra come Dio volle punire Salamone to- 
gliendo la successione a Roboamo, e come questi, 
dopo consigliato ottimamente dai seniori, seguisse 
invece il consiglio dei giovani incauti, e così per- 
desse la più gran parte del reame. 


Ciò leggesi nel lib. III dei Re, cap. XI-XII. 


NOVELLA VIII. 


Come un figliuolo di un re donò a un re di Siria 
scacciato. 


Un giovane principe dà tutto il suo tesoro a 
un re dì Siria, il quale sì aveva saputo fare per 
sua follia che i sudditi l’avevano scacciato. Inter- 
rogato del perchè ciò avesse fatto, risponde al 
padre che doveva gratitudine a colui, per avergli 
insegnato tanto che i futuri sudditi proprj non 
cacceranno lui. 


Con poche variazioni è la VII B. 

ll DunLoP (op. cît., p. 212) trova da raffrontare 
questa Novella con quella dei Gesta Romanorum 
(p. 82, ediz. Oesterley), ma il LikBRECAT (nota 283) 
a ragione non vi trova nessuna rassomiglianza. 
Piuttosto potrebbe dirsi che avesse qualche ana- 
logia coll’ altra dello stesso libro al cap. 74 (ediz. 


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DEL « NOVELLINO » 93 


Keller; ediz. Swan, I, 257; ediz. Madden, p. 496; 
Violier, p. 182). 


NOVELLA IX. 


Qui si determina una quistione e sentenzia che fu 
data în Alessandria. 


Un poveretto di Alessandria non avendo altro 
cibo che un pezzo di pane, lo mette sul fumo 
che esce dalle vivande del cuoco Fabrac, il quale 
vorrebbe fargli pagare ciò che gli ha preso. Vanno 
innanzi al Soldano, che dopo gran disputa fra i 
suoi savj, sentenzia che il cuoco si contenti del 
semplice suono di una moneta, e questo riceva in 
pagamento. 


Con leggerissime variazioni è la VIII B. 

La Novella del pagamento del fumo fatto col 
suono de’ danari trovasi fra gli « exempla » di frate 
Bono Stoppani da Como (v. A. OLDbRINI, L'ultimo 
favolista mediev., in Studi Mediev. I (1906), 203, 
n. XXIX), raccolti intorno al 1360; e, trasportata 
la scena in Parigi, in unà Novella francese del 
sec. XV (E. LanGLOIS, Nouvelles francatses inéd. 
du quinzième siècle, Paris, 1908, chap. IX, p. 52; e 
anche in Rev. d. études Rabelaisiennes, I pp. 222-4). 
Un racconto simile al nostro trovasi pure nel PAULI 
Schimpf und Ernst (ediz. Oesterley, Stuttgart, 1866, 
n. 48); e alle abbondanti citazioni dell’ editore a 
p. 478 aggiungasi anche la citazione di RABET.A18, 

. III, cap. 36, a proposito del quale è da veder la 
bibliografia di molte versioni data da P. ToLpo, 
(Rev. d. études Rabelaîsiennes, I, 13-23). 


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94 


LE FONTI 


Molti racconti si trovano simili a questo, come 
quello della musica pagata a suon di parole (Les 
AvadAnas, Contes et apologues indiens, trad. St. 
JuLien, Paris, Duprat, 1859, I, 108): quello del 
prezzo accordato alla cortigiana Tonide contro un 
giovine che l’aveva goduta in sogno (PLUTARCO, 
ediz. Reiske, V, 48, VI, 150, VII, 318, etc., etc.). 
Vedi anche R. Basset, Contes et légendes de la Gréce 
ancienne, in Revue d. traditions populaires, XVI, 
p. 635-36, XVIII, n. 2. Non dissimile è il giudizio 
che in Oriente è appropriato al Re Boccori contro 
una cortigiana che in sogno era stata goduta da 
un mercante, e che reclamava il premio di cinque 
cavalli a lei promessi se il mercante fosse riuscito 
ad averla. Ma fu giudicato che si contentasse di 
vederne l’ ombra nell’ acqua; cfr. Benrey, Intro- 
duzione al Pantschtantra; LieBRECHT, in Jahrbuch 
fiir roman. und engl. litter., II, p. 147; F. L. PuLLÈ, 
Un progenitore indiano del Bertoldo, Venezia, Anto- 
nelli, 1888, p. XXIV ecc. G. LumRRoso, in Rendi- 
conti d. Accad. dei Lincei, III, vol. XI, p. 303, ein 
Archivio delle tradis. popol., I, 969, illustrando un 
dipinto pompeiano in cui ravvisa un giudizio di 
Boccori, reca prove della diffusione in Grecia della 
tradizione orientale su questo re, ricordato, oltre 
che da Plutarco, anche da Diodoro Siculo, Cle- 
mente Alessandrino ecc. A questo proposito ricor- 
diamo anche che il prof. E. Lorwy ha additato un 
dipinto affine del colombatio Pamphili (v. Aneddoti 
giudiziarii dipinti ecc. in Rendic. Lincei, VI, 
fasc. I). Il Papanti (G. B. Passano e i Novellieri 
in prosa indicati e descritti, Note ecc. Livorno, 
Vigo, 1878), annovera (p. 57) parecchie imitazioni 
moderne di questa Novella, tra le quali una del 
poeta milanese BALESTRIERI (n. 205). 


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DEL « NOVELLINO >» 95 


NOVELLA X. 


Qui conta d’ una bella sentenzia che diè lo Schiavo 
di Bari tra uno borghese el un pellegrino. 


Un barese partendo in romeaggio, lascia tre- 
cento bisanti ad un amico, dicendogli che se non 
tornerà, li spenda a suo modo, ma se tornerà, 
gliene darà quello che vorrà. Ritorna infatti e 
chiede il suo: ma l’altro gli dà solo dieci bisanti 
e ritiene i dugentonovanta. Vanno innanzi allo 
Schiavo di Bari che sentenzia così : poichè il patto 
fu che tu rendessi ciò che vorrai, e tu vuoi tenere 
i dugentonovanta ducati, questi restituirai, e avrai 
per te i dieci che non volevi. 


Il prof. WesskLOFSKI (Intorno ad alcuni testi nei 
dialetti dell’ alta Italia, in Propugnatore, V, 390) 
vorrebbe trovar in questo racconto la prima e più 
semplice forma di una narrazione del ciclo salo- 
monico, che potrebbe nominarsi de furto, la quale 
poi ebbe a mischiarsi « con altro ciclo leggendario 
di indole buddistica ». Egli cita in proposito le 
notizie raccolte nel proprio libro I racconti slavi 
di Salomone e Centauro e le leggende europee intorno 
a Morolfo e Merlino (Pietroburgo, 1872, in russo, 
p. 60-97), nonchè il Pantschatantra, BENFEY, I, 
393-404. Realmente però ai luoghi citati si menzio- 
nano Novelle di sentenze e giudizj in favore del 
debole oppresso, ma non ci sembra trovarci nulla 
che proprio ricordi la nostra Novella. Invece leg- 
giamo che un giudizio molto simile a quello della 
nostra Novella è attribuito in Sicilia a Carlo V e 
più tardi al Duca d’ Ossuna (v. SaLomonE-MaRINO, 


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96 LE FONTI 


Spigolature storiche Siciliane ecc. Palermo, Lau- 
riel, 1887, p. 82). Sullo Schiavo di Bari, rimatore 
volgare che sta fra il sec. XII e il XIII, e può vero- 
similmente identificarsi col giudice della nostra 
Novella, sì vedano le importanti notizie date da 
P. RAJna, Lo Schiavo di Bari, in Biblioteca delle 
scuole îtal., serie 1II, anno X (1904), n. 18, e altre 
di F. Scanvon=, Lo Schiavo di Bari israelita? 
per Nozze Fedele-De Fabritiis, Napoli, 1908. 


NOVELLA XI. 


Qui conta come Mastro Giordano fu ingannato 
da un suo falso discepolo. 


Il discepolo per diminuire il pregio del suo 
maestro di medicina pone di nascosto il veleno 
sulla lingua d’ un infermo. 


Il Gaspany (Storia della letter. ital., trad. da 
N. Zingarelli, I, Torino, 1887, p. 435) ci addita 
come fonte della Novella un passo del Liber Ipo- 
cratis de infirmitatibus equorum (v. Trattati di 
Mascalcia attribuiti a Ippocrate ecc. per cura di 
L. BanrsierI, in Collez. di opere ined. o rare, 
Bologna, Romagnoli, 1865, p. 102). 


£ 


NOVELLA XII. 


Qui conta dell'onore che Aminadab fece al Re David 
suo natural signore. 


Aminadab siniscalco di David sta per prendere 
una città dei Filistei, ma per fare onore al suo 
re, fingendo che il campo si ribellasse, lo manda 


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DEL « NOVELLINO » 97 


a chiamare, sicchè sia suo tutto il pregio della 
vittoria. 


La fonte è la Bibbia, ma anche qui citata non 
senza errore: dacchè nel IJ dei Re cap. XII si 
legge il fatto appropriato a Joab, combattente 
contro gli Ammoniti. 


NOVELLA XIV. 


Come uno re fece nodrire un suo figliuolo dieci 
anni in luogo tenebroso, e poi li mostrò tutte 
le cose, e più li piacque le femmine. 


Un principe viene fin dalla nascita tenuto rin- 
. chiuso: quando, compiuti i dieci anni, può uscire 
e gli si mostrano tutte le cose più belle, le donne 
gli piacciono sopra tutte, MRSRSUDgLO gli si dica 
che sono dèmoni. 


Con lieve varianti è la XIII B., e, più ampia- 
mente svolta, la XIX P. 

È questo il notissimo episodio del Romanso di 
Barlaam e Josafat, che nella versione italiana pub- 
blicata dal Bottari (Roma, Mordacchini, 1816) leg- 
gesi a p. 104. Il Du Mérir (Hist. Poés. Scandin., 
p. 348) trova una rassomiglianza, non disdetta 
dal Lik8REcHT (Fonti del Barlaam e Josafat, in 
D’AncOoNA, Sacre rappresentazioni, Firenze, Le Mon- 
nier, 1872, II, 161), tra questo racconto e un epi- 
sodio del Ramayana. Il vero è che ivi il romito 
indiano Riscyasringo, che non ha mai visto donne, 
prende quelle che vengono a sedurlo, non per 
dèmoni, o paperi come è nel Buccaccio (Decam., 
Introd. Giorn. IV) ma per « anacoreti con occhi 
sfavillanti... simili a cosa sopraumana (trad. Gor- 
RES10, Milano, 1869, I, 33) ». Intorno alla forma 


D'Ancona - II 7 


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LE FONTI 


«che la Novella ha nel Mahabharata è ora da vedere 
lo studio di M. KkRBAKER, La leggenda epica di 
Rishyasringa, in Raccolta di studi critici dedic. «ad 
A. D'Ancona, Firenze, 1901, p. 465 e seg., dove si 
menzionano altri riscontri indiani. In una Novella 
africana (R. BassET, Contes popul. d’Afrique, p. 127) 
in modo più conforme alla tradizione nostra, il 
giovane protagonista alla vista degli esseri scono- 
sciuti viene informato dal padre che sono demoni. 
La Novella trovasi anche nelle Latin Stories di 
WriGHT (London, 1848, ai n. 3, e 78), e con qualche 
diversità nel Libro de li exempli in antico veneziano, 
ed. da J. ULRIcA in Scelta di curiosità lett., ecc. 
Bologna, Romagnoli, 1891, disp. 239, p. 139, e 
v. Romania, XIII, 51. Alle citazioni già fatte in 
questo proposito dallo ScAMIDT (Beitr. 2. Gesck. d. 
romant. Poes., Berlin, 1818, p. 27), dal DunLoP- 
LieBRECHT (Oper. cit., p. 230, 462), dal Von DER 
Hagen (Gesammtabent., Stuttgart, 1850, II, VII), 
dal LAnpAU (Die Quell. d. Decamer., Wien, Prandel, 
1869, p. 70), aggiungansi anche quelle del Fior di 
Virtù (nello ZAMBRINI, Libro di Novelle, Bologna, 
Romagnoli, 1868, p. 49), e del libro de los Enxem- 
plos, n. CCXXXI. Prima del La FOnTAINE aveva 
narrato l’aneddoto in poesia francese Martin FrANC, 
morto nel 1460 (v. C. D’I..., Bibliographie de l'amour, 
des femmes, etc., Paris, Gay, 1864, col. 97). Stretta 
affinità con questo racconto ha ciò che si contiene 
nel cap. CCXXXIII delle Vite deé SS. Padri, part. III. 
Recentemente C. PaAscar. cita questa Novella (XVII 
secondo l’ ed. Biagi) a proposito dell’ Antifemmi- 
nismo medievale (Poesia latina medievale, Catania, 
Battiato, 1907, p. 160, n. 2). Il prof. PascaL (p. 162) 
cita poi opportunamente la XVIII, ediz. Biagi, 
ma fuor di proposito la XXX che non può dirsi 
misogina. 


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DEL « NOVELLINO >» 99 


NOVELLA XV. 


Come uno rettore di terra fece cavare un occhio a 
sè, et uno al figliuolo per osservare giustizia. 


Il rettore di una terra ordina che si cavino gli 
occhi agli adulteri. Cade in questo peccato il figliuol 
suo: il popolo grida misericordia pel delinquente; 
il rettore volendo insieme esser giusto e pietoso, 
orba sè di un occhio, dell’altro il figlio. 


Con lievi varianti è la XIV B. 

L’ aneddoto è narrato in CiceRoNE (De leg. II, 6), 
in ELiaNo (XIII, 24), in VaLeRIO MassIMO (VI, 5), 
donde passò ai Gesta Romanorum, ed. KELLER, 
c. 50; Swan, I, 169; Violier, c. XLIX. Vi accenna 
anche il CessoLe ( Volgarizz. del Giuoco degli scacchi, 
Milano, 1829, p. 30). Vedi le annot. dell’ OestERLEY 
in Gesta ecc. (p. 720, n. 50). 


NOVELLA XVI. 


Qui conta della gran misericordia che fece S. Pao- 
lino vescovo. 


S. Paolino nulla potendo dare ad una madre 
che ha prigione il figlio, si costituisce prigione 
egli stesso, e libera il figlio della povera donna. 

Il fatto è narrato in S. GrEGoRIO, Dialog., III, 1. 

Si trova anche in antico francese nel codice Ber- 


nense analizzato dal prof. ToBLER (Jahrb. f. roman. 
literat., VII, 415). 


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100 


LE FONTI 


NOVELLA XVII. 


Della grande limosina che fece uno tavoliere per Dio. 


Piero tavoliere dà tutto ai poveri, poi vende 


sè stesso e distribuisce il prezzo pur ai poveri. 


Il fatto di questo Piero, telonario, cioè ban- 
chiere, è più ampiamente narrato nelle Vite dei 
SS. PP., libro IV, c. XIX. Forma anche il soggetto 
della LVI delle Rime genovesi dei sec. XIII-XIV. 
pubbl. da Nicc. LAaGuMAGGIORE (Archiv. glottologico 
Ital., II, 239). 

In forma assai ampia troviamo in J. ULkicA, 
nel Libro de li Exempli, cit., p. 87, i precedenti 
del fatto narrato laconicamente nel Novellino. Per 
altri notevoli riscontri della Novella vedasi Ro- 
mania, XIII, 32-33. 


NOVELLA XVIII. 


Della vendetta che fece Iddio d’ uno barone di 


Li 


Carlo Magno. 


Un cavaliere di Carlo Magno prima di morire 


lascia a un suo parente arme e cavallo perchè li 
venda e ne dia il prezzo ai poveri. Ma quello si 
ritiene i denari; onde gli appare il defunto che gli 
annunzia la prossima dannazione. E questa infatti 
avviene. 


La Novella è nella Turpinî Historia Caroli Magni 
(ediz. Castets, cap. VII) a proposito di un cava- 
liere di nome Romarico, morto presso Baiona, e 
di un suo fedifrago consanguineo. La si trova 
anche negli Exempli in antico veneziano editi dal- 
l’ ULRicH, p. 101. La Novella corrispondente del ms. 


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DEL « NOVELLINO » 101 


Panciatichiano (ed. Biagi, p. 27), fu dal BARTOLI 
(Storia della lett. ital., Firenze, 1880, III, 1906) 
giudicata come originaria di fronte a quella del 
testo Gualteruzzi. 


NOVELLE XIX-XX. 


Della grande libertà e cortesia del Re Giovane. 
Della grande libertà e cortesia del Re d’ Inghil- 
terra. 


Sono questi, varj aneddoti sul Re Giovane, 
ne’ quali compare Bertran de Born quale istiga- 
tore alla lotta del figlio contro il padre. 


Le relazioni fra il Re Giovane e Bertran de Born, 
diffuse nella tradizione medievale prima di Dante 
(Inferno, XXVIII, 132 seg.) sono accennate anche 
nei Conti di antichi cavalieri (ed. Papa, in Giorn. 
Stor. a. letter., IIl, 200: Conto del Saladino) dove 
Bertran è fatto « maestro del re giovene ». Nei 
medesimi Conté si trovano alcuni degli aneddoti 
delle nostre Novelle (quello del dente e l’altro 
dell’ anima data in pegno ai creditori) ed altri pure 
testimonianti la tradizionale liberalità di quel Re, 
(Op. cit., pp. 202-3). Il BartoLI, (Stor. Lett. Ital., 
III, p. 72 e seg.) accennò all’origine, evidentemente 
provenzale, della tradizione italiana, confrontando 


le due Novelle coll’ antica biografia di Bertran de 


Born. Un riscontro molto particolare si ha fra la 
seconda delle due antiche biografie di Bertran e 
alcuni punti della nostra Nov. XX, colla quale, per 
altro, ha pure affinità la nota razo d’un serventese 
del poeta (v. A. THomas, Poésies complétes de B. de 
Born, Toulouse, 1888, p. LII e 43-44; G. Rua, Gli 
accenni danteschi a B. de Born. in Giorn. Stor. d. 
Lett. ital., XI, 363 e seg., specialmente p. 370-71, 


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102 LE FONTI 


dove si rilevano anche i passi dei commentatori 
danteschi su questa tradizione. Cf. Il c. XXVIII 
dell'Inferno letto da V. Crescini, (Lectura Dantis) 
Firenze, Sansoni, s. a., pp. 61-62). 


NOVELLA XXI. 


Come tre maestri di nigromanzia vennero alla 
corte dell’ imperador Federigo. 


Tre negromanti alla corte dell’ imperadore Fede- 
rigo fanno con loro incantamenti turbare il tempo : 
poi chiedono per guiderdone che loro si conceda 
il Conte Bonifazio per aiutarli contro i nemici. 
Questi va con loro: viaggiano gran tempo, com- 
battono aspra guerra: egli prende moglie, ne ha 
figli, ed il maggiore ha già quarant’anni quando 
i negromanti propongono al conte di tornare a 
vedere l’imperadore. Vanno, e trovano che Fede- 
rigo e i suoi, che supponevano invecchiati o morti, 
sono al medesimo punto del pranzo di quando al 
Conte parve partirsene coi negromanti. 


Con lievi varianti è la XX B. 

L’ avventura rammenta ciò che la tradizione 
musulmana racconta del rapimento di Maometto 
ai sette cieli, al Paradiso ed all’ Inferno, quando 
il profeta ebbe novantamila conferenze col Signore, 
e pur compì tutto questo sì presto che, tornando 
al suo letto, lo trovò ancor caldo, anzi non ancora 
interamente sparsa l’acqua di un vaso, versatasi 
‘ quando Gabriello levò seco Maometto: (v. ReinauUD, 
Monuments, etc., II, 86). Un incantesimo simile a 
quello qui riferito trovasi nelle Novelle Turche tra- 
dotte da PeTIis DE LA Croix (Mille et un jours, ed. 


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DEL « NOVELLINO >» 103 


Lo:sELEUR, p. 306, e Quaranta Visiri, trad. Ber- 
NAUER, Leipzig, 1851, p. 16), col titolo di Storia 
dello Scheik Schehabbeddin. Vedi anche il cap. XIII 
del Conde Lucanor (ed. Keller, p. 86), ove gran 
spazio di anni sembra volgersi per incantesimo, 
nel tempo che realmente corre fra l’ apprestamento , 
e la cottura di due pernici. Si può qui ricordare 
anche il seguente racconto che trovasi nel Mesha! 
ha-Quadmoni (8. 1. ma di Gersone Soncino ai primi 
del sec. XVI, p. 406-36), di Isacco FiaLIO DI SaLo- 
MONE IBN SagnuLa (n. 1204? m. 1259 o 1268) tradotto 
dallo STEINSCANE:DER nella Manna (Berlin, Rosen- 
berg, 1847, p. 20 e seg.). Un giovane di Gerusa- 
lemme, già addottrinato in varie scienze, s’accende 
del desiderio d’imparar la magia. Recatosi a questo 
fine in Egitto, riceve ospitalità da un vecchio del 
paese, cui fa manifeste le sue intenzioni. Questi 
gli si offre maestro, ma il giovane non sa prestargli 
intera fede, e per coprire la sua incredulità dice 
di voler rivolgersi ad un giovane, e così scemar 
fatica a lui grave di anni. L'altro, volendo cor- 
reggerlo della sua incredulità, gli dà da bere e lo 
licenzia. Il giovane va fuori e cade in una cisterna 
donde non può uscire che al mattino di poi: entra 
in un bel giardino, passa un ponte, trova una città, 
dà agli abitanti varie prove del suo sapere, e da 
ciò viene in tanta estimazione, che gli è data in 
sposa la figlia del re. Ne ha un figlio, che un giorno 
cade in una cisterna anche egli, e mentre ei ne va 
in cerca, gli riapparisce il vecchio a chiarirlo che 
tutti i casi occorsigli sono effetti di magica illu- 
sione, e il lungo spazio di tempo è stato un solo 
istante. Confronta anche la storia di Kandu tra- 
dotta dall’ indiano nel Journal asiatiq., 1, 3. Rac- 
conti in cui centinaia d’anni passano in un momento 
si trovano anche riferiti da F. M. LuzeL in Légendes 


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104 


LE FONTI 


chrétiennes de la Basse-Bretagne, Paris, 1881, vol. I, 
pp. 222, 241, 249; e in Contes populaires de la Basse- 
Bretagne, Paris, 1887, vol. I, pp. 40, 6l e 64. Altre 
versioni di questo tema sono indicate dal PuYMAIGRE, 
Les vieux aut. castill. (Paris, Didier, 1862, II, 36), 
dal KeLLer (Einleit. al Roman des Sept Sages, 
p. CLVI), e dal DunLoPp-LiEBRECAT (p.-543), che rife- 
risce la leggenda di un abate Fulgenzio, il quale 
mentre meditava il senso delle parole del salmo 89: 
Mille anni ante oculos tuos tamquam dies hesterna 
quae praetertit, fu tratto in una selva vicina dal 
canto di un uccello, e credè di starvi pochi istanti, 
ma poi si avvide che erano passati ben trecento 
anni: vedi questa leggenda, secondo varie lezioni 
antiche, nei Sermoni di Maurice pk SuLty, recate 
da P. Meyer nella Romania V, 472 (anno 1876); 
in un racconto ponolare inglese, presso BRUEYRE, 
Cont. populair. de la Grande Brett. (Paris, Hachette, 
1875, p. 339), e in un racconto picardo, riferito 
da H. CaRnOoy, Littérature orale de la Picardie, 
Paris, 1883, p. 149: Le pinson et le templier. Da 
questa leggenda cristiana conosciutissima (se ne 
veda presso X. MARMIE&R, Contes popul. de différents 
pays, Paris, 1888, serie II, p. 319, la forma tedesca, 
e per altri riscontri v. Revue de tradit. popul. XIV 
(1899), 124)) trasse il Porta il suo Fraa Diodatt, 
e prese ispirazione il LonaFELLOW (The golden Legenda 
ch. 2). Simile a questa è la bella leggenda del 
viaggio di tre monaci al Paradiso terrestre, che 
troviamo in testi italiani del sec. XIV, (v. Leg- 
gende del sec. XIV ed. da I. DeL Lunao, Firenze, 
Barbéèra, 1863, vol. I, p. 489 seg.; A. GRAP, Di un 
cod. riccard. di leggende volg., in Giorn. Stor. d. 
Lett. ital., III, p. 410; G. Ronponi, Tradizioni popol. 
e leggende di un comune mediev. ecc. estr. dalla 


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DEL « NOVELLINO » 105 


Rassegna Nazionale, Firenze, 1886, p. 141 segg. ecc.). 
Assai notevole, sebbene. sia un po’ diverso dai 
riscontri ora citati, è il sesto degli Esempi mo- 
rali senesi editi da F. ZamBRINI in Trattato dello 
Spirito Santo di fra Dom. Cavalca, Imola, Ga- 
leati, 1886, p. 115 e seg. Vedi anche un artic. 
del KòALER nella Germania di Pfeiffer (II, 432), e 
Hertz, Deutsch. Sage in Elsass, (Stuttgart, Kroner, 
1872, p. 263 e seg.), che sono ricchissimi in indi- 
cazioni di leggende e novelle popolari, ove gli anni 
scorrono come minuti o viceversa. GIOVANNI DA 
Prato amplificò nel suo romanzo questo racconto 
del Novellino (v.. Il Paradiso degli Alberti, ediz. 
Wesselofsky, Bologna, Romagnoli, vol. I, part. II, 
p. 263, e vol. IT, p. 180). A. GRAF in Miti, leggende 
e superstizioni del Medio Evo, Torino, Loescher, 1892, 
vol. I, pp. 88-89, 90-92, 179, riferisce varie leg- 
gende sul rapido passaggio di tempo, e c’informa 
(ib. p. 285) che la Novella di Giov. da Prato passò 
fra quelle che Gaetano Cioni mise sotto il nome 
di Giraldo Giraldi. La più copiosa bibliografia su 
questa tradizione novellistica si ha in XKleinere 
Schriften ecc. di R. K6ALER, hrsgg. von J. Bolte, II, 
Berlin, 1900, pp. 239-40. 


NOVELLA XXIV. 


Come lo imperatore Federigo fece una quistione a 
due savi e come li guidardonò. | 


L’imperatore stando fra mezzo ai giureconsulti 
Bolgaro e M. (Martino) dimanda loro se ei può 
torre ad un suddito suo per dare a un altro, e se 
la legge ammette che ciò che piace al signore 
debba essere osservato dai sudditi. L’uno risponde 


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A 


106 LE FONTI 


che sì, l’altro lo nega, e vuole la legge superiore 
alla volontà del principe. Al primo, Federigo dona 
cappello scarlatto e bianco palafreno; all’ altro, 
potestà di fare una legge. Quistionandosi chi 
fosse stato meglio rimunerato, si conchiude che il 
primo fu trattato come giullare, l’altro come uomo 
giusto. 


Qui paiono confusi due fatti, due dimande che 
la tradizione assevera fatte da Federigo ai dottori 
italiani. OrtAvio MORENA, Hîst. lauden., (in R. Ital. 
Script. VI, 1118) racconta che l’ imperatore dimandò 
a Bolgaro e Martino se fosse padrone del mondo, 
e poichè il primo ebbe il premio di un cavallo, per 
aver risposto che sì, Bolgaro disse: Amisi equm 
quia dixi aequm, quod non fuit aequm, o come 
vuole il SaLiceTo (In cod., L. 3, VII, 37): Bulgarus 
dixit aequm, sed Martinus habuit equum. II BELLA- 
PERTICA (In cod. l. 3, 345) concorda quanto al 
donato e al non donato col Novellino e col MorENA. 
L’aneddoto è raccontato anche da OporRrEDO (in 
Dig. vet., 1. 3, II, 1), ma a proposito dell'altra 
dimanda, a chi, cioè, appartenesse il merum impe- 
rium, e fa che gli interrogati sieno Lotario che 
risponde: a vos solo, e Azzo che risponde: a voî e 
ai giudici, sicchè il primo ebbe in dono un cavallo : 
al che alludendo Azzo disse (Summ. codîicis, tit. de 
jurisdict., III, 13): licet ab hoc amissrim equum, 
sed non fuit aequum. Il Savianr, St. del diritto 
romano nel M. Evo (Firenze, Batelli, 1844, vol. lI, 
p. 47), da cui togliamo queste notizie, non ricorda 
punto il diritto concesso di fare una legge dato 
all’ uno dei dottori, nè la questione su chi fosse 
meglio rimunerato dei due. 


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DEL « NOVELLINO » 107 


NOVELLA XXV. 


Come il Soldano donò ad uno dugento marchi, e 
come ‘il tesoriere li scrisse, veggente lui, ad 
uscita. 


Raccontasi nell’ultima parte di questa novella 
come il Saladino si scandalezzasse veggendo che 
nel campo cristiano i poveri, amici del Signore, 
mangiassero umilmente in terra. 


Con qualche maggiore svolgimento è la XXIV B. 

Questo stesso fatto trovasi nella Cronica di 
TuRpPiNOo, cap. 14, appropriato ad Agolante; vedi 
DUuNLOP, op. cit., p. 117 e 476, e G. PARIS, Hîst. 
poét. de Charlem., (Paris, Franck, 1865, p. 501), ma 
nel Poema di Anseîs de Carthage, a Marsilio : vedi 
GauUTIER, Epop. frane. II, 475. S. Pikr DAMIANO 
(XI, 1) lo appropria ad un re Saraceno prigione di 
Carlomagno (Paris, op. cit., p. 291). Nelle Enfances 
Godefroi (v. 4830 e seg.), il re Cornumarano rifiuta 
di farsi battezzare osservando, tra le altre cose 
meno rette, che i cristiani danno ai poveri i rilievi 
che meglio dovrebbero gettarsi ai cani (Hiîst. litt. 
de la Fr., XXV, 518). Lo racconta anche il Sac- 
cuHeTTi nella Novella CXXV (v. L. Di FRANCIA, 
Franco Sacchetti novelliere, in Annali della Scuola 
Normale Superiore di Pisa, cl. filos. filol., XVI, 
pp. 83-84) e nei Sermoni evangelici (riprodotto anche 
in ZAMBRINI, Libro di Novelle, n. LXXX). Il PARENTI 
nelle sue annotazioni ricorda opportunamente a 
proposito di questa Novella il cap. II, v. 2-6, del- 
l’Epistola cattolica di S. Jacopo. Sulla venuta del 
Saladino in Europa per osservare i costumi dei 
Cristiani, vedi Boccaccio, X, 9; Conde Lucanor, 


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108 


LE FONTI 


c. 12; l’Histoire de Jehan d’Avennes (in Mél. d'une 
grande bibl., E., p. 213); l’Avventuroso Ciciliano, 
ediz. Nott, p. 350, e G. PARIS, La légende de 
Saladin, in Journal des Savants, 1893). Vedi anche 
la Lettera II del Lamr nell’Appendice al MANNI 
(Milano, 1820, p. 14 e seg.). 


NOVELLA XXVIII. 


Qui conta della costuma che era nello reame di 


Francia. 


Era vitupero in Francia a chi andasse in sul 


carro; ma dal giorno che Lancillotto, forsennato 
per amor di Ginevra, si fece tirare sul carro per 
molti luoghi, ciò non fu più tenuto ad obbrobrio. 


Se 


l'esempio di Lancillotto valse a mutare un inve- 


terato costume, perchè l’ esempio di Gesù Cristo 
non dovrebbe valere a perdonare le offese? 


Con diversa moralità è la XXVII B. 

Si direbbe che la Novella, specialmente per la 
moralità che le è aggiunta, fosse tratta da un 
qualche libro di esempj ascetici, simile ai Gesta 
Romanorum. Del resto, sull’ avventura di Lancel- 
lotto, vedi il poema di CRISTIANO DI TRoyrEs, Lan- 
celot ou la Charette (ediz. Tarbé, ne’ Poet. champen., 
Reims, 1849, e ediz. Jonckbloet, La Haye, 1850, 
ediz. W. Forster, Halle), nonchè KELLER, Romuvart 
(Mannheim, Basserman, 1844, pp. 453-512), un brano 
di scrittura antica francese nel DunLoP-LIEBRECHT, 
p. 529, e l'importante studio di G. Paris, Études 
sur les rom. de la Table Ronde: Lancelot du Lac: 
Le conte de la charette, in Romania XII, (1883) 
p. 459 e seg. 


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DEL « NOVELLINO » 109 


NOVELLA XXX. 


Qui conta come uno cavaliere di Lombardia dispese 
il suo. 


Un cavaliere, che non aveva eredi, provvide sì 
che non restasse niente del suo patrimonio dopo 
la sua morte. Ma fece male i suoi conti, onde 
ridottosi in povero stato, ricorse all’ Imperatore 
Federigo. Questi, che altra volta gli era amico, 
non vuol riconoscerlo e lo fa cacciare, perchè non 
aveva voluto che dopo la sua morte altri godesse. 

A questa Novella fan riscontro numerose nar- 
razioni popolari e aneddoti var). Si veda l’ erudito 
lavoro di Giuseppe PiTRÈ, La Novella del conto sba- 

gliato, Palermo, coi tipi del « Giorn. di Sicilia » 1896: 

cfr. La Tradition, an. IX (1897), p. 97 e seg. Una 

variante veronese ci è data da A. BaLLADOHO, 

Tre novellette del contado veronese, Verona, Fran- 

chini, 1904 (per Nozze Perroni-Grande-Marcianti) 

pp. 13-14. 


NOVELLA XXXI. 


Qui conta d’ uno novellatore di Messer Azzolino. 


Il favolatore di Ezelino non'avendo voglia di 
novellare, ma di dormire, e pur dovendo obbedire 
al suo Signore, racconta come un contadino andò 
a mercato a comprar pecore, e tornandosene a casa 
trovò gonfio un fiume, che non potevasi passare 
sopra una piccola barchetta se non con una pecora 
alla volta. Il novellatore qui si ferma, perchè a 
far passare in tal modo tutte le pecore, ci vuole 
almeno un anno, e frattanto può a tutt’agio dormire. 

‘Con lievissime varianti è la XXX B. 


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i na 


110 


LE FONTI 


L’ avventura trovasi già raccontata da Pietro 
ALronso nella Disciplina clericalis (ediz. Schmidt, 
p. 50 e 128; ediz. Labouderie, p. 70; e nel Castotement 
d’un pére à son fils, ediz. des Bibliophiles, 1824, p. 58; 
ediz. Rarbazan-Méon, Paris, Crapelet, 1808, II, 89; 
Le Granp d’ Aussr, Fabliaux, Renouard, 1829, 
I, 269). Più tardi la riferì anche CeRvanTES nel 
Don Quixote, I. 20, e prima di lui l’autore del 
Libro de los enxemplos, n. LXKXXV (ediz. cit., p. 467). 
Per altri raffronti con versioni letterarie e popolari, 
vedi Grimm, K. u. H. March. (Gòttingen, 1856, III, 
145), Meier, Deutsche Volksmdrch. aus Schmwaben 
Stuttgart, Schober), n. 90, e FRISCHBIER, Prussisch. 
Volksreime (Berlin, Enslin, 1870, p. 88). Una Novella 
popolare siciliana (PiTrÈ, Fiabe, novelle eracconti del 
popol. sicil., Palermo, Pedone, 1875, vol. III, p. 108) 
intitolata La fruvatura, e una milanese (IMBRIANI, 
La novellaia fiorentina, Livorno, Vigo, 1877, p. 572) 
intitolata EZ pegorée, sono in sostanza una cosa 
stessa col nostro racconto. La novella popolare 
italiana fu tradotta in inglese da T. F. CRANE, 
Italian popular tales, Boston and New York, 1885, 
p. 156 e 3657. — Su Ezelino nella tradizione popo- 
lare è da vedere A. BonaARDI, Leggende e Storielle 
su Ezelino da Romano, Padova-Verona, 1892, e Eze- 
lino nella leggenda religiosa e nella novella, in Ras- 
segna Padovana di storia, lett. e arti, anno I, p. 235; 
nonchè F. Srieve, Der karakter d. Es. v. R. in 
Anektod. u. Dicht., in Histor. Vierteljaharisch. 1910. 


NOVELLA XXXVI. 


Qui conta come uno Re crudele perseguitava i 


cristiani. 


Un re per vincere il popolo di Dio, contro cui 


non riesce ad avere vantaggio in battaglia, s’ac- 
corda col profeta Balaam. Questi andrà per male- 


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DEL « NOVELLINO » 111 


dire i nemici, e così facilitare la vittoria; ma 
mentre B. sta per far ciò, gli si para dinanzi l’angelo 
di Dio e gl’impone di benedire il popolo, anzichè 
maledirlo. Il Re se ne risente, meravigliato. Allora 
per nuovo consiglio del profeta, il Re invia nel 
campo nemico belle donne apportatrici d’idoli. 
Queste inducono nel peccato gli uomini del Signore, 
i quali in battaglia soccombono. Ma poi essi rav- 
vedutisi e fatta penitenza, si riscattano a libertà. 
Il fatto è biblico. M. Lanpau, (Giorn. Stor. d. 
Letter. It. I, 61) rileva un passo dell’antico libro 
giudaico Midras Rabboth in cui si racconta che le 
Moabite seducevano gl’ Israeliti per il consiglio di 
Bileam, ed è una corrispondenza notevole coll’ ul- 
tima parte della nostra novella. 


NOVELLA XXXVIII. 


D’ uno strologo ch’ ebbe nome Melisus che fu ripreso 
da una donna. 


È il fatto di Talete che uscito di notte a con- 
siderare le stelle, cade in una fossa ed è rimpro- 
verato da una donna perchè guardando le cose 
del cielo, non sa dove pone i piedi. 

Il BARTOLI, op. cît., II, pp. 221-222, nota gli 
stretti rapporti che sono fra questa novella e un 
aneddoto delle Vite dei Filosofi di Diogene Laerzio, 
(Lib. I, Thales). 


NOVELLA XLII. 


Qui conta una bellissima novella di Guglielmo di 
Bergdam di Provenza. 


Accusato di dir male delle donne, Guglielmo è 
circuito dalla regina e dalle sue dame, e minac- 


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112 LE FONTI 


ciato di mala morte con colpi di bastone. Fingendo 
di rassegnarsi al suo destino, chiede una grazia, 
ed essendogli concesso di dimandarla, prega che 
la prima a dargli sia la più disonesta. Le donne 
‘sì guardano l’una coll’altra, ed egli salva la vita 
con questa astuzia. 


Il fatto è appropriato, oltre che al Berguedam 
(ved. Lieder Guillelms von Berguedam, hgg. von 
A. Keller, 1849, p. 4; MiLA Y FONTANALS, De los 
Trovator. en Espana, p. 283), anche ad altri: come 
a Giovanni di Meung (FaucHet, II, 126), al Gon- 
nella (Facezie del Gonnella, ediz. Passano, Genova, 
1868, p. 17), al Marot (Contes du sieur d’OUVILLE), 
a Bertoldo (GuERRINI, La vita e le opere di G. C. 
Croce, Bologna, Zanichelli, 1879, p. 232), ecc., come 
notano anche il DunLOP (op. cit. p. 213) e il PAPANTI 
(Note al Passano ecc., p. 67). Su questo episodio 
nel Salomone e Marcolfo e nel Bertoldo, v. G. Cor- 
TESE-PAGANI, Il Bert. del Croce e é suoi fonti, in 
Studi Medsiev., III, 566. Trovasi anche nel Livre du 
Chevalier de la Tour Landry (ediz. Montaiglon, 
Paris, Jannet, 1854, cap. XXIV). Nel Lai d’Ignaurès, 
il cavaliere di questo nome, minacciato da parec- 
chie donne, chiede di essere ucciso da quella che 
più l’ abbia amato (LE GranD D’'Aussy, Fabliaux, 
IV, 162). 


NOVELLA XLVI. 


Qui conta come Nurcis 8’ innamorò dell'ombra sua. 


È la nota favola di Narciso al fonte. 

Con lievi varianti è la XLIII B. e, ampiamente 
svolta, la XI P. 

È superfluo rinviare alle fonti classiche. Può 
però notarsi che il carattere cavalleresco, questa 


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DEL « NOVELLINO » 113 


mitologica narrazione l’ ha già nel Lai de Narcisse 
(Le GranD d’Aussy, Fabl. I, 250: Barbazan-Méon, 
IV, 143), e delle tre versioni italiane del Novellino, 
in quella pubblicata dal PaApANTI in aggiunta al 
Catal. dei Novellierî (Livorno, Vigo, 1871, p. XXI) 
più che nelle altre due. 


NOVELLA XLVIII. 


Qui conta del re Currado padre di Curradino. 


Il re Currado è allevato con dodici giovani 
suoi coetanei, e i maestri, quando egli commette 
qualche fallo, battono non lui ma i compagni, 
ond’egli per pietà di loro si guarda dal cadere in 
errore. 


Con lievissime varianti è la XLV B. 

Senza il nome di Currado questa novella si 
trova nell’ Ysopet primo, pubblicato dal ROBERT, 
Fables inédites, (Paris, Cabin, 1829, II, 492), che 
cita anche il Fepro del Perotto (n. XI), il RomoLo 
(n. LI), il GALFREDO (n. LI). In italiano trovasi 
nell’ Esopo pubblicato dal Ghivizzani (Bologna, 
Romagnoli, 1866, II, p. 124). È singolare che un 
fatto simile si racconti a proposito di Luigi XV 
(v. G. MaucgRras, Le duc de Lauzun et la cour 
intime de Louis XV, Paris, Plon, 1909, I, p. 286), e lo 
stesso racconto ci si narri come avvenuto alla corte 
di Spagna verso la fine del sec. XVIII, sulla fede 
del Maresciallo Canrobert : « Ce colonel [de la Torre] 
était d’ origine espagnole. Fils naturel de Godoî, 
prince de la Paix, il avait été élevé avec les Infants. 
Comme il était d’ usage en Espagne de ne jamais 
frapper un membre de la famille royale, chaque 
fois que l’un des princes commettait une faute, 
c’ était le futur colonel du 13ème léger qui recevait 


D’ ANCONA - II 8 


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114 LE FONTI 


les taloches »; V. Le Maréchal Canrobert, Souvenir 
d’ un siècle par G. BAPST, t. I, Paris, 1899, p. 389. 


NOVELLA XLIV. 


D' una quistione che fu posta ad un uomo di corte. 


Marco Lombardo, uomo di corte, interrogato 
da un giullare perchè ad un Natale egli non abbia 
avuto dono di robe, mentre il giullare ne ha avute 
sette, risponde a costui: « Tu trovasti più de’ tuoi 
che io de’ miei ». 

L’aneddoto trovasi, con lievi divergenze nel 
Commento d’Anonimo fiorentino (Collez. di opere 
ined. o rare, Bologna, Romagnoli, 1869, vol. II, 
p. 262). È invece attribuito a Dante dal Petrarca 
(Rerum Memorandarum, lib. II), dal quale proba- 
bilmente lo presero il Poggio, Sicco Polenton (Epi- 
toma in vitas script. illustr. Vedi A. SOLERTI, Le vite 
di Dante, Petrarca e Boccaccio ecc., Collez. Vallardi 
8. a., p. 155), nonchè Michele Savonarola, Vespa- 
siano da Bisticci, Domenico Bandini e altri, su 
cui vedasi G. PAPANTI, Dante secondo la tradizione 
e i novellatori, Livorno, Vigo, 1873, pp. 32-33, 90, 
95-97, 113, 117. 


NOVELLA XLIX. 


Qui conta d'uno medico di Tolosa come tolse per 
moglie una nepote dell’Arcivescovo di Tolosa. 


Un medico di Tolosa prende in moglie la nipote 
dell’ arcivescovo, la quale di lì a due mesi gli fa 
una figliuola. Egli la rimanda a casa sua, e quando 
lo zio vuol di ciò rimproverarlo, risponde che egli 


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DEL « NOVELLINO » 115 


prese moglie con intenzione di aver un figlio 
l’anno e non più: se glie ne dovessero nascere 
ogni due mesi, non sarebbe al caso di mantener 
la famiglia: sicchè dia egli la nipote ad uno più 
ricco di lui, che possa sottostare al grave carico 
senza disonorare il lignaggio per povertà. 


È con lievissime varianti la XLVI B. 

Nella Rev. des lang. romanes, 3* ser., vol. II, 
n. 9-10, sett.-ott., 1879, lo CHABANEAU fa notare che 
del fatto sembra trovarsi cenno in questi due versi 
di Pier CARDINAL: Tals cuja ben aver filh de s’esposa 
Que no i a re plus que cel de Tolosa. 


NOVELLA LI. 


Qui conta d'una guasca come si richiamò allo 
re di Cipri. 


Una donna che non sa come sopportare un 
torto che le è fatto, va al Re, uso a sopportare 
dieci mila disonori senza risentirsene, acciocchè 
egli le apprenda come portar pazienza del suo. Il 
Re, vergognandosi, comincia a vendicarsi de’ suoi 
offensori. 


È tale quale la XLVIII B., e con lievi varietà, 
la XXXIII P. 

Ripeterò qui la nota che apposi alla Novella XIX 
di GirovannI SERcAMBI (Bologna, Romagnoli, 1871, 
p. 290); è il racconto che trovasi anche nel Boc- 
caccio (Giorn. I, nov. 9). Nel SERCAMBI trattasi del 
Re Sparaleone di Portogallo; il Novellino e il Boc- 
caccio concordano fra loro: ma donde abbiano 
attinto è ignoto. 


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116 LE FONTI 


NOVELLA LII. 


D'una campana che si ordinò ul tempo del re 
Giovanni. 


Il re Giovanni di Atri ordina che sia messa 
una campana, la quale potesse esser suonata da 
chi gli chiedesse ragione di torti ricevuti; la fune 
dopo qualche tempo si logora, ed è sostituita da 
una vitalba. Un vecchio cavallo è cacciato dal- 
l’ ingrato padrone, che non vuol più mantenerlo. 
Avendo fame e giungendo alla campana, mangia 
la vitalba e la campana suona. Si aduna il con- 
siglio del re, e pensando che il vecchio destriero 
chieda ragione contro l’avaro signore, si condanna 
costui a pascerlo, in rimerito dei servigj resigli 
da giovane. 

Con varianti lievissime è la XLIX B. e con mag- 
giori svolgimenti, la XVII P. 

Un fatto consimile è raccontato di Carlo Magno: 
ma chi suona la campana è una vipera, nel cui 
nido e sulle cui uova si è posto un rospo. Vedi 
G. PARIS, Hist. poétique de Churlemagne, Paris, 1905 
(ristampa), pp. 354-56; L. GautiER, Épop. frane., 
Paris, 1880, III, p. 148; X. MARMIER, Contes popul. 
de différents pays, II série, Paris, 1888, p. 331-32; 
GRIMM, Deutsche Sagen (trad. franc. del Du Theil, 
II, 155), Von DER Hagen, Gesammtab. (II, 635, III, 
CLXIII-V) e i Gesta Romanor. (ediz. Grisse, p. 345; 
ediz. Oesterley, c. 105; e vedi quest’ ullimo a p. 728 
per le fonti). La leggenda di Carlomagno e del 
serpente sembra restasse viva in Zurigo, secondo 
attesta E. Miintz, É/udes iconogr. e archéol. sur le 
M. Age, I série, Paris, 1887, p. 89. Questa leggenda 


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DEL « NOVELLINO » 117 


s’ introdusse in quella dell’ amore del grande impe- 
ratore per la moglie morta: v. G. PARIS, op. cit., 
pp. 3382-83 e 544. — Questa prova di giustizia, coi 
medesimi particolari si trova attribuita al duca di 
Calabria figlio di Roberto d’Angiò: v. G. DE BLA- 
SIIS, Le case dei principi angioini ecc., estr. dal- 
l’Arch. Stor. per le prov. napol., anni XI e XII, 
Napoli, 1887, p. 68, n. 2. Qualche analogia colla 
nostra novella presenta un aneddoto siciliano rac- 
colto da G. PirtrÈ, Avvenimenti fuceti di Sicilia 
(Curiosità popol. tradizionali, vol. II, Palermo, 1885, 
p. 117), dove un asino rosicchiando un sarmento 
attaccato per giunta alla fune di una campana, la 
fa sonare. 

Sulla campana, o tamburo o altro per coloro 
che avessero richiami o lagnanze da fare al Re o 
Imperatore, d’ India, di Cina, di Persia ecc., vedi 
una erudita nota di R. Basset, in Revue des tradit. 
popul. XXIV, p. 192. 


NOVELLA LIII. 


Qui conta d’ una grazia che lo inperadore fece 
un suo barone. 


Un imperatore concede a un suo barone di far 
pagare un danaro a qualunque uomo magagnalo 
passasse da una sua terra. Si presenta un zoppo 
che nega di pagare, e si azzuffa col gabelliere, 
ma levando in su le mani, scopre di esser monco : 
sicchè è richiesto di due danari. Segue a negare 
e contrastare, ma cadendogli intanto la berretta di 
capo, fa conoscere di essere orbo, onde è richiesto 
di tre danari. Si accapiglia col gabelliere, e mostra 
di esser tignoso, onde è costretto di pagare quattro 


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118 LE FONTI 


danari, quando con un solo avrebbe potuto passar 
ollre. 


È anche la L del B. 

La novella è nella Disciplina Clericalis (edi- 
zione Schmidt, p. 45; ediz. La Bouderie, p. 49; 
Castoiement, ediz. Biblioph. franc., p.39; ediz. Bar- 
bazan-Méon, II, 75; Le GranD, Fabl., III, 223). 
È nei Gesta Romanor. (cap. 157), ma manca al 
Violier. Per altre indicazioni, vedi lo ScuMIDT, 
p. 121, alle quali si aggiunga il Libro de los 
enxempl., n. XIII, nonchè gli altri citati dall’ Or- 
STERLEY, p. 738. 


NOVELLA LIV. 


Qui conta come il piovano Porcellino fu accusato. 


Il piovano Porcellino è accusato dal vescovo 
Mangiadori di lasciarsi sedurre dalle donne: ma 
sul punto di esser gastigato, sa che il vescovo deve 
ricevere in camera una amica. Si appiatta sotto il 
letto, e ad un dato momento, esce fuori: il vescovo 
gli perdona per forza. 


Cfr. col Fabliau francese intitolato dal Le GRAND 
(Fabl. III, 126): De l’évéeque qui bénit sa mattresse, 
e dal WRIGHT (Anecdot. literaria, London, 1844): 
The Bishop and the priest, e analizzato dal LE 
CLERC nella Yist. littér. de la France, XXIII, 135. 
Per le somiglianze fra questa nov. e le nov. I, 4 
e IX, 2 del Decameron, v. L. pi FRANCIA, La IV 
novella del Decameron e le sue fonti, nella miscel- 
lanea A Vittorio Cian i suot scolari dell’ Univ. di 
Pisa, Pisa, Mariotti, 1909, p. 63 e seg. 


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DEI, « NOVELLINO » 119 


NOVELLA LVI. 
Come uno della Marca andò a studiare a Bologna. 


Uno scolaro povero pattuisce con un tale, per- 
chè lo mantenga allo studio in Bologna, di pagargli 
mille lire al primo piato che vincerà. Ma, finiti 
gli studj, quegli non esercita la sua professione 
per timore di dover pagare il prezzo. L’altro gli 
muove causa, mostrandogli con un dilemma che per 
mezzo di questa egli otterrà in ogni caso i denari. 

È, in sostanza, il famoso dilemma attribuito a 

Protagora, benchè qui manchi la risposta dello 

scolaro (v. AuLo GELLIO, Noctes Atticae, V. 10, a cui 

ci rinvia J. ULRICH, Romanische Meister Erecihler : I, 

Die Lundert Alten Erzàhl., Leipzig, 1905, p. 128). 


NOVELLA LVIII. 
Di Messer Beriuolo cavaliere di corte. 


Dignitose parole di Messer B. a chi lo incitava 
a rispondere ad un atto triviale e a detti villani. 
Il motto è attribuito a Dante in una novella 
del Sacchetti (v. L. pi FRANCIA, F. Sacchetti, cit., 
p. 131). 
NOVELLA LIX. 


Qui conta d’ uno gentiluomo che lo imperadore 
fece impendere. 
È la LVI B. 
È la notissima novella della Madonna d’ Efeso 
(PeTRON., Satyr., XXV), che sebbene abbia qualche 
rassomiglianza colla novella chinese di Tchou-ang- 


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120 


LE FONTI 


tseu e la matrona di Soung (vedi Mille et un jours, 
ediz. Loiseleur-Deslong., p. 695), è però tenuta di 
greca origine: anzi il RÉMuSsAT (Contes chinois, III, 
145) traducendola dal chinese, la crede imitata 
dalle favole efesie, penetrate forse fino in Cina, e 
alle quali probabilmente ebbe ricorso anche Pe- 
TRONIO, secondo opina il DAcIER (Examen de l’ kist. 
de la Matr. d’ Eph., in Mémoires de l’Acad. des 
Inscript., XLI). Altri tengono per più probabile 
l’ origine orientale, fra’ quali è da riporsi anche il 
dottissimo BenFEY (Pantschat., 1, 460). Nel Medio 
Evo la troviamo nel Policraticus di GIOVANNI 
SALISBURIENSE (VIII, 11), non che nelle collezioni 
di favole esopiane (PHaAEDR., ediz. Jannelli, I, 14; 
RomuLus, ediz. Oesterley, p. 69), e nelle varie ver- 
sioni della Hist. Septem Sapientum (vedi MussAria, 
Beitr. 2. literat. d. Sieb. Weis. Messt., p. 90; K. Gox- 
DEKE, Liber septem sapientum in Orient und Occ., 
Gòttingen, 1866, p. 385 e seg.; LoIiseLEUR-DESLONG., 
Essai, etc., Techener, 1838, p. 161; KELLER, Roman 
des Sept Sages, Tiibingen 1836, Einleit., p. CLIX, e 
Dyocletianus Leben, Quedlinb., 1841, p. 49). Di qui 
passò alle varie traduzioni del Romanzo dei Sette 
Savj (vedi pel Francese, il Romanzo in prosa, Paris, 
Techener, 1838, p. 80; e per quello in versi, edi- 
zione Keller, p. 143; per l’ inglese, la cit. Introduz. 
del KeLLeR, p. LXXXIX; pel tedesco, la ediz. del 
Marbach, p. 85; per l’armeno, la nov. XIV). In 
italiano si trova a pag. 65 del Libro dei Sette Savj 
da me pubblicato (Pisa, Nistri, 1864, p. 34), nel 
testo pubblicato dal CAPPELLI (Bologna, Roma- 
gnoli, p. 34), nella Storia d’ una crudel Matrigna 
(Bologna, Romagnoli, p. 41) e nella Storia di Ste- 
fano figliuolo d’un imperatore di Roma, pubbl. da | 
P. Ragna, Bologna, Romagnoli, 1880 (disp. 176 


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DEL « NOVELLINO » 121 


della Scelta di curiosità lett.) p. 121. Indipenden- 
temente dal libro dei Sette Savj, si trova in latino, 
nelle Latin stories del WRIGHT (p. 156, 297); in 
ebraico, nelle Par«bolae vulpium di RaBBI Bara- 
cHIAE NIKDANI (Pragae, MDCLXI, p. 293); in tedesco. 
nei Beispiele di Boner, p. 59; in francese, oltre 
che in SAINT-EvREMOND (I. 236) e in LAFONTAINE, in 
Marie De FRANCE (ediz. Roquefort, 1820, II, 171), in 
Eusrace DEscHAMmPSs, nell’ Ysoper (RoBeRT, Fadl. 
inédait., Paris, Cabin, 1825, II, 431), e nei Vabliaua 
di Barbazan-Méon, III, 462. Per altre indicazioni, 
vedi il RoBERT (loco cit.), e il DunLoP (p. 41, 522). 
In italiano trovasi nell’ Esopo senese, n. XLIX, nel 
Riccardiano, n. XXXI, nel lucchese, n. XXXI, e 
in quello del Ghivizzani, n. XLIII, non che nel- 
l’ Accio Zucco n. 49, o nel Tuppo, n. 49. Come 
novella, trovasi in quelle del SeRcAMBI (Bologna, 
Romagnoli, 1871, p. 138), e in quelle degli Inco- 
gniti, nov. II. Per altre versioni in verso o in 
prosa, vedi Passano, Novellieri in prosa (Torino, 
Paravia, 1878), vol. II, p. 413, e Novellieri in veri, 
p. 4, 273. Il dott. KoHLER in un artic. del Jahkrd. 
f. roman. literat. (XIII, 407) ricorda anche un’ altra 
versione ebraica del Buch Kidduscim (Giessen, 

1817, p. 104), ed una popolare russa narrata dal 
LercH nell’ Orient u. Occid., II, 373. V. anche 
GriseBACcH, Die Wanderung der Novelle von der 
treulosen Wittme durch die Weltlitteratur, Berlin 
1886; Amabile di continentia, romanzo morale a 

cura di A. Crsari, Bologna, Romagnoli (Colle. di 

op. ined. o rare), p. CKXXVII e seg., non che del 

medesimo, Come pervenne e come rimase in Italia 

la Matr. d’ Ef., Bologna, Zanichelli, 1890; G. AMALFI, 

Partenio di Nicea e le favole milesie (parte prima), 

Napoli, 1906, p. 34, n. 


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199 LE FONTI 


NOVELLA LX. 
Qui conta come Carlo d’ Angiò amò per amore. 


Con lievi variazioni è la LVII B. 

Senza darne il sunto, nè indicarne le fonti, no- 
tiamo soltanto a proposito della smania pei tornei 
qui attribuita a Carlo, e della contrarietà del re 
per simili ludi, come ToLomro pa Lucca, fra le 
cause per le quali S. Luigi acconsentì alle pro- 
poste pontificie di investire il fratello del reame di 
Napoli, pone anche quies sui regni quod perturbabat 
Carolus in torneamentis (Rer. Ital. Script., XI, 1154). 
Però, fatto re, sembra che Carlo divenisse poco 
propenso alle giostre e ai tornei; v. G. pe BLASHS, 
Le case dei principi angioini, cit., p. 25, nota 2. 
Sulla nostra novella v. U. Di GIuLIo, Amor che a 
nullo amato, ecc., nel giornale La Favilla, XXV, 
p. 205. 


NOVELLA LXI. 
Qui conta di Socrate filosofo come rispose a’ Greci. 


Il Soldano de’ Greci manda ambasciadori a 
Roma per essere assolto dal pagar tributo. I romani 
rimettono la risposta in Socrate filosofo romano. 
Vanno a lui gli ambasciadori, e trovandolo occu- 
pato in lavorar la terra ed essendo da lui ban- 
chettati assai miseramente, credono di poterlo 
corrompere con danari. Ma Socrate, rifiutando i 
doni, sentenzia che i greci seguitino ad esser sog- 
gelti a Roma nell’avere e nelle persone. 

Con lievi differenze è la LVIII B., e con mag- 


giori assai, appropriata al re di Francia ed a 
Seneca, è la VIII P. 


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DEL « NOVELLINO » 123 


Il PARENTI osserva con ragione che questa 
novella, in cui sono malamente scambiati i luoghi, 
i tempi e le persone, si potrebbe riferire al fatto 
di Curio narrato dagli storici, e ricordato in breve 
da CicekonE (De Senect. n. 55): Curio ad focum 
sedenti mugnum auri pondus Samnites cum attu- 
lissent, repudiati ab eo sunt. Non enim aurum 
habere praeclarum sibi dixit, sed iis qui haberent 
aurum imperare. Potrebbe anche riferirsi a Fabrizio 
(GeLLio, I, 14, VaLer. Mass., IV, 3, 6, FRONTIN., 
IV, 3, 2, Serv. ad VI, 845). Alla leggenda di Socrate 
appartiene anche il cap. LXI dei Gesta Romanorum 
(ediz. Swan, I, 213; Violier der hist. rom., cap. 59). 
Una certa analogia è anche fra la novella del 
Novellino ed una narrata dal Sacchetti nel .Ser- 
mone 38, v. L. DI FRANCIA, op. cît., p. 72. 


NOVELLA LXII. 


Qui conta una novella di messer Roberto. 


La Contessa di Ariminimonte in Bretagna gia- 


cesi con un portiere, del quale già le sue ancelle 
avevano provato le forze. Il conte lo sa: ammazza 
il villano, e del cuore fa una torta che le donne 
mangiano e trovano buona. Il conte allora scuopre 
loro di che è fatta, e la contessa e le sue donne 
si fanno monache in un monastero da esse fon- 
dato. Nel quale rimase poi il costume che ogni 
cavaliero vi capitasse, fosse di tutto punto fornito, 
ma alla mattina di poi dovesse alle tre volte 
mettere un fil di seta nella cruna di un ago, sotto 
pena di perdere ogni suo arnese. 


Quest’ ultima parte, con notevoli differenze, 
forma la XVIII P. 


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Ma; 


124 


LE FONTI 


Il cuore dell’ amatore dato in pasto all’ amata 
dal marito geloso, trovasi primamente in quel laio 
di Guiron accennato nel poema di Tristano (edi- 
zione Michel, III, 39, 95; WoLr, Ued. die Lais, p. 52): 
quindi nel Lai d’Ignaurès, ove non una sola ma 
dodici dame se ne pascono, e poi si lasciano 
morir d’ inedia (ved. Le Granp D’A., Fabl., IV, 162; 
Hist. littér. de la France, XVIII, 776). Su questo 
stampo sono condotti il Romanzo della Dama di 
Fayel (vedi Ze Roman du Chasteluin de Coucy et 
de la dame du Fayel, ediz. Crapelet, Paris, 1829; 
Hist. littér. de la Fr., XVII, 664), che dopo l’orri- 
bile pasto ammannito!e dal marito si lascia morire 
di fame; la novella della moglie di Guglielmo 
Rossiglione che, mangiato il cuore del drudo suo 
Guardastaguo, si getta da una finestra, come rac- 
conta il Boccaccio « secondo che narrano i pro- 
venzali » (Decam., IV, 9), e la novella di Caterina 
de’ Salimbeni che si trafigge con un coltello 
(Novelle ined. di G. Sercambi, per cura di R. RENIER, 
Torino, Loescher, 1889, p. 338). Aggiungasi la leg- 
genda tedesca del cavaliere Brennberger riferita dai 
Grimm nelle Deutsche Sagen (trad. franc., II, 252). 
Per altre versioni antiche e moderne del cuore 
mangiato, vedi Von DpER HAGEN (Gesammt., 1, 
CXVI), e per l’uso letterario e il significato sim- 
bolico che gli si diede nell’ antica poesia, vedi la 
mia annotazione alla Vita Nuova di DANTE (Pisa, 
Nistri, 1873, p. 6). Della leggenda del cuor man- 
giato ha scritto RocHHoLz nel Zeitschr. f. deutsch. 
Philot., 1868, nonchè il GrAEssE, Literdrgesch., III, 
1120. Vedi anche nella Romania, VIII, 343 (a. 1879) 
l’art. di G. PARIS, Ze Roman du Chatelain de 
Coucî. La seconda parte della nostra novella ha 
qualche somiglianza colla licenziosa Historia del 
Bolognese edita da J. ULRICH in Romanische For- 
schungen, XX, 3, secondo una rara stampa popolare. 


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DEL « NOVELLINO » 125 


NOVELLA LXIV. 


D'una novella che avenne in Proenza alla corte 
del Po. 


Questa ampia novella che non sembra appar- 
tenga al nucleo più antico del Novellino (v. ArUCH, 
in Rass. Bibl. d. lett. it., cit., p. 35) ha strette 
relazioni con un rifacimento della biografia di 
Rigaut de Berbesieux datoci da un ms. Lauren- 
ziano, come mostrò A. THoMmaAs, Richard de Bar- 
besieux et le Novellino, in Giorn. di filol. rom., III, 
12 e seg.; tuttavia G. PARIS giudicò che il novel- 
latore dovesse aver sotto gli occhi un testo diverso, 
sebbene affine al Laurenziano (v. G. PARIS, Jaufré 
KRudel, in Revue histor., LII (1893), p. 236. 


NOVELLA LXV. 


Qui conta della Reina Isotta e di Messer Tristano 
di Leonis. 


Tristano avea questo contrassegno colla Reina 
Isotta, che venisse a favellargli d’amore ogni qual- 
volta fosse torbida l’acqua di un rigagnolo che 
passava per il palazzo reale. Un giardiniere si 
avvide della cosa, e ne fece avvertito il re Marco, 
che si appiattò sopra un pino soprastante alla 
fontana. Venne Tristano e fece il segno, e Isotta 
si mosse per andare al convegno, ma alzando gli 
occhi al pino vide l’ombra sua più spessa. Sospet- 
tando del vero, Isotta vitupera Tristano accusan- 
dolo di parlar male e bugiardamente di lei, e 
Tristano fingendosi pentito, giura di partire il dì 
appresso per non più tornare. Il re è contento del- 


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126 LE FONTI 


l’onestà della moglie, e trattiene a corte il nipote 
che la mattina appresso faceva finta di partirsi. 
Con lievi varianti è la LXII B. 
Vedi il poema di Tristano (ediz. Michel, I, 1-18); 
la Tavola Ritondu (Bologna, Romagnoli, p. 232 e 
seg.); Le Roman de Tristan publ. par J. Bédier, 
T. I, Paris, Firmin-Didot, 1902 (Soc. d. anciens 
textes) p. 198 e seg. Il KELLER (Kom. des Sept Sages, 
Einl., p. CLXXVII) cita anche GoTTFR. von STRAS- 
sBuro, Werke (ediz. Von der Hagen, II, 243) e il 
Buch der liebe (ed. Biisching e von der Hagen, I, 49). 


NOVELLA LXVI. 


Qui conta d’ uno filosofo lo quale era chiamato 
Diogene. 


È la nota novella di Diogene al sole e Ales- 
sandro Magno. 

Quasi identica è la LXIII B. 

Vedi VaLer. Mass. (IV, 3). Si trova anche nella 
Discipl. Clericalis (ediz. Schmidt, p. 78; edizione 
Labouderie, p. 179; BarBazaN-Méon, Fabl., II, 171; 
Le GRAND D’A., Fabl., I, 365); ma ivi è attribuita a 
Socrate, sicchè questa non può esser la fonte diretta 
del Novellino. Per gli autori antichi e medievali 
che riportano l’ aneddoto, vedi le annotazioni dello 
SCHMIDT (op. cit., p. 162). 


NOVELLA LXVII. 


Qui conta di Papirio come il padre lo menò a 
consiglio. 


Papirio fanciullo romano viene dal padre con- 
dotto in Senato un giorno di seduta segreta. La 


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DEL « NOVELLINO » 127 


madre vorrebbe saper da lui che cosa si è trattato ; 
ed egli, per liberarsi dalla molestia, dice essersi 
consigliato se sia più proficuo alla Repubblica che 
gli uomini abbian due mogli o le donne due mariti. 
La madre dice la cosa ad altre donne; la novella 
si sparge, e ne nasce un tumulto delle donne 
romane innanzi al Senato. La prudenza di Papirio 
è lodata, ma si approva che d’ora innanzi niun 
fanciullo sia introdotto in Senato. 


Con lievi varianti è la LXIV B. 

Vedi in proposito AuLo GeLLio, I, 23; MAcROBIO, 
I, 6, 20; PoL1B., III, 20. Molte indicazioni sulle suc- 
cessive versioni di questa novella trovansi nelle note 
dell’ OesteRrLEy alla novella 392 del PAULI, Schimpf 
und Ernst, e in quelle dello stesso OESsTERLEY al 
cap. 126 dei Gesta (p. 732): aggiungasi l'indicazione 
dei versi su questo soggetto di ILpEBERTO (Opp., 
col. 1356). In italiano trovasi la novella fra quelle 
del Sercambi, con Merlino per protagonista (v. Nov. 
ined. per cura di R. Renier, cit. p. 118), nel Vo/ga- 
rizeamento del giuoco degli Scacchi (Milano, Fer- 
rario, 1829, e in ZAMBRINI, Libro di Novelle, Bologna, 
Romagnoli, 1868, p. 1), nel FrA PaoLino, Trattato 
de Regimine Rectoris (ediz. Mussafia, Vienna, 1868, 
p. LIII, 44), e nel Fiore di filosofi (ediz. Cappelli, 
Bologna, Romagnoli, p. 16), in NANNUCcCcI, Manuale, 
Barbèra, 1857, II, 305 e nell’ ediz. di H. Varnbagen, 
Ueber die Fiori e Vita di filosofi ecc. (Erlangen, 
Iunge, 1893, p. 9). L’ aneddoto è menzionato, ma, 
a quel che pare, senza attribuirlo al fanciullo 
Papirio, anche in un antico predicatore francese, 
citato dal Lecoy DE LA MARCHE, La chaîre frane. au 
moyen-Gge (Paris, Didier, 1868, p. 404). È poi un epi- 
sodio del Marcolfo e del Bertoldo: v. G. CorTESE-PA- 
GANI, Il Bert. e i suoi fonti, in Studi Mediev. III, 592. 


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128 LE FONTI 


NOVELLA LXIX. 


Qui conta della gran giustizia di Trajano Impe- 
ratore. 


Con lievi varianti, e senza l’ ultima parte, è la 
LXVII B. 

È la notissima istoria dell’imperatore Trajano 
(da Dione Cassio attribuita ad Adriano) e della 
vedovella, riferita anche da DANTE (Purg. X, Para- 
diso XX). Vedila in Giovanni Diacono (II, 44), 
PauLo Diacono (17), Giov. DAMASCEN. (De iis qui 
in fid. dorm. I, 16) e in SIGEBERT, Chron. ann. 521, 
citati dal GREGOROVvIUS, St. della città di Roma, 
III, 3, 2; nonchè nella Legenda aurea (ed. Grisse, 
p. 196), nei Fiori e Vita di filosofi (ed. Varnhagen, 
cit. p. XX e seg., e p. 31); e nel commento ai Docu- 
menti d'Amore di FR. DA BARBERINO (ediz. della 
Soc. filol. romana, p. 92). Quantità di testi, così 
sopra Traiano e la vedova come sulla liberazione 
dell’ anima di Traiano per opera di S. Gregorio, 
sono raccolti dal MAssMann, Kaiserchrontk, III, 752 
e seg.: ma su tutta la leggenda, le sue origini e 
gli svolgimenti, vedi G. PARIS, La legende de Trajan, 
Paris, Imprim. nation., 1878 e A. GRAF, Roma 
nella memoria e nelle immaginazioni del M. Evo, II, 
Torino, Loescher, 1883, p. 1 e seg.: e anche il 
Commento dello ScartAzzINI al X, 75 del Purg.: 
v. pure M. Bari, La Legg. di Tr. nei volgarizz. 
del Breviloquium, Firenze, Carnesecchi, 1895. La 
sola prima parte della novella trovasi anche nel 
Dolopathos (in LoIsELEUR, Essaî, etc., p. 131; ediz. 
Montaiglon, p. 265). Tutti gli antichi commentatori 
danteschi ne fanno menzione, per es. l’AnoNIMO 
Riccarpiano (ediz. Fanfani, Bologna, Romagnoli, 
JI, 17), 1’ Ottimo (ediz. Torri, Pisa, II, 161), il DeLLA 
LANA (ediz. Scarabelli, Bologna, Romagnoli, II, 116), 


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DEL « NOVELLINO » 129 


il Buti (ediz. Giannini, Pisa, Nistri, 1860, II, 235). 
Notisi che secondo questi due ultimi è la lingua 
stessa di Traiano, trovata ancor fresca, che parla 
allo scongiuro fattole dal Pontefice, e dice a chi 
appartenne. Trovasi questo racconto anche nel 
Fiore di Filosofi (ediz. Cappelli, p. 58, e NANNUCCI, 
Manuale, II, 315). In proposito della liberazione di 
Traiano vedi il libro intitolato: Istoria del M. A. 
F. ALronso Giaccone nella quale si tratta esser 
vera la liberazione dell'anima di Trajano impera- 
tore dalle pene dell’ Inferno per le preghiere di 
S. Gregorio papa, fatta volgare ed aggiuntane 
alcuna cosa del P. M. D. F. PirrERI camaldol. 
(Siena, Bonetto, 1595) e anche la Historia ceu veris- 
sima a calumniis multorum vindicata ecc. Vene- 
tiis, 1993. La prima tradizione invece è riprovata 
dal Baronio (t. VIII an. 119 e 604), e dal BeLLARMINO 
(De purgat., 1I, 8); v. BAYLE, Dictionnaire ecc., ad voc. 


NOVELLA LXXII. 


Qui conta come Cato si lamentava contro alla 


ventura. 

Per il lamento del prigioniero contro alla For- 
tuna, di cui trovasi traccia in molte opere medievali, 
è da tener presente la grande diffusione dell’ opera 
di Boezio. Anche in età più recente a quella del 
Novellino si ebbero componimenti ispirati alla stessa 
idea; v. A. MepIN e L. FRATI, Lamenti storici dei 
sec. XIV, XV, XVI, Bologna, Romagnoli, 1887, (disp. 
919 della Scelta di curiosità letter.) vol. I, p. 66 e seg. 


NOVELLA LXXIII. 


Come il Soldano avendo bisogno di 1inoneta volle 


coglier cagione a un giudeo. 
Per poter trarre moneta da un giudeo, il Sol- 


ar 


dano gli dimanda qual sia la vera fede: perchè 
D’ AncONA - II 9 


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130 LE FONTI 


se egli dirà che sia la propria, ingiurierà quella 
dei saraceni, e se dirà che sia questa, non dovrebbe 
osservarne un’ altra. Il giudeo risponde col noto 
apologo dei tre anelli simili lasciati da un padre 
morente a tre figli, ma dei quali uno solo è vera- 
mente prezioso, e il padre solo il conosce. 


Con lievi varianti è la LXXII B. 

L’ origine giudaica o maomettana di questa 
novella è evidente, sebbene il libro ebraico del 
Scebet Jehudà che la contiene, non sia che del 
secolo XV (vedi LAnDAU, Die Q. d. Decam., p. 64, 
2 ediz., p. 163). Il testo ebraico trovasi tradotto 
in italiano dal LEVI, Cristiani e Ebrei (Firenze, 
Le Monnier, 1866, p. 411), e su diesso è da vedere 
quel che dice il NicoLas, Essais de philos. et d’ hist. 
religieuse (Paris, Lévy, p. 325). É noto come questa 
novella, della quale si è giovato il LEssINa pel suo 
Nathan der meise, si trovi, oltre che nel nostro 
libro, anche nel Decamerone (I, 3), nell’ Esopo di 
Francesco del Tuppo (v. G. Rua, Di alcune novelle 
inserite nell’ Esopo dî Fr. del Tuppo, Torino, nozze 
Merkel-Francia, 1889, pp. 11-12), e nell’Avventuroso 
Ciciliano di Boson Da Go8pio (III, 337, riportato in 
ZAMBRINI, Libro di Novelle, p. 60). Questa stessa 
narrazione, ma animata da spirito assolutamente 
diverso, e per provare la preminenza della fede 
cristiana, trovasi nei Gesta Romanor. (ediz. Keller, 
cap. 89; ediz. Swan, I, 41; Violier, p. 224), e nel 
Dis dou vraî antiel, analizzato nella Mist. litt. de 
la Fr. (XXII, 259), e pubblicato dal prof. ToBLER 
(Leipzig, 1871). Vedi altri raffronti nelle note del- 
1’ OrstERLEY ai Gesta, p. 726. Il prof. SALVATORE 
Marino (La Baronessa di Carini, Palermo, Pedone, 
1873, p. 20) dice che la novella è popolare in 
Sicilia. 


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DEL « NOVELLINO » 131 


NOVELLA LXXIV. 
Qui conta una novella d'uno fedele e d'uno signore. 


Un villano sapendo che a un signore piacciono 
molto i fichi, gliene porta una soma, ma quando 
già se ne trovavan tanti che si davan anche ai 
porci. Il signore credendosi scornato da questo 
dono, ordina che il villano sia legato, ei fichi gli 
sieno l’uno dopo l’altro gettati in volto. A ogni fico 
che gli capita presso all’occhio, il villano ringrazia 
Dio. Interrogato del perchè, risponde: perchè se 
avessi seguito un pensiero che ebbi di portar pesche, 
a quest’ora sarei cieco. Il signore ride, perdona, 
e lo ricompensa largamente. 


È la LXXIII B. 

Trovasi nel Talmud (Medrasch Rabà, Levitico, 
parte VI, p. 172), riferita all’ Imperatore Adriano, 
ed è tradotta dal Levi, Parabole, leggende e pen- 
sieri racc. daé libri talmudici (Firenze, Le Mon- 
nier, 1861, p. 213), e dall’ Hurvirz, Die Sagen d. 
Hebraer (Leipzig, 1826, p. 69). Al buffone turco Nasr- 
Heddin-Hodja troviamo attribuito questo stesso 
motto, (v. A. GAZEAU, Les bouffons, Paris, 1882, 
p. 203). Anche questa novella è secondo il Saro- 
MONE Manino (op. cit., p. 20), popolare in Sicilia. 
In Sveronio (Vit. Tiber., cap. 60) si narra di un 
pescatore di Capri che portò a Tiberio una triglia; 
ma l’ Imperatore malcontento che colui avesse sco- 
perto ove egli si nascondeva, ordinò che con quella 
gli si sfregasse la faccia: onde il malcapitato ebbe 
a dire: meno male che non gli ho portato una 
aligusta. 


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133 LE FONTI 


NOVELLA LXXV. 


Qui conta come Domeneddio si accompagnò con 
uno giullare. 


Domeneddio e un giullare si accompagnano 
insieme: un giorno il secondo va a nozze e l’altro 
ad un mortorio. Avendo risuscitato il morto, Dome- 
neddio ne ha gran ricompensa, e con una parte 
dei danari, il giullare compra un capretto, lo arro- 
stisce, ma ne prende per sè gli arnioni. Il com- 
pagno dimanda gli arnioni e l’altro risponde che 
in quel paese i capretti non ne hanno. Un’altra 
volta, Domeneddio va a un par di nozze, ed il 
giullare a un mortorio, ma non gli riesce di risu- 
scitare il morto, onde è tenuto per beffatore e 
condannato alla forca. Domeneddio vorrebbe saper 
chi mangiò gli arnioni, ma l’altro persiste nella 
sua risposta: pur tuttavia è liberato, perchè il 
morto è risuscitato da Domeneddio. Questi però 
dichiara di volersi partire dalla società, e fa tre 
parti dei danari, una per sè, l’altra pel giullare, 
e la terza per chi mangiò gli arnioni. Allora il 
giullare confessa per ingordigia ciò che fino allora 
aveva ripetutamente negato. 

Più breve, e cangiato il Signore in un mago, 
è la LXXV del codice Marciano, stampato dal 
Tessier per nozze Della Volpe-Zambrini, Venezia, 
1868, p. 13. 

L’ Hist. littér. de la France (XXIII, 93) dà alla 
novella una origine francese, ma senza arrecarne 
nessuna prova. Le versioni tedesche notate dai 
GRIMM (K. u. Hausm., III, 109) a proposito del 


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DEL « NOVELLINO » 133 


racconto popolare Bruder Lustig (n. 81) sono tutte 
più recenti della nostra. Altre versioni popolari, 
più o meno compiute, si leggono in GLINSKI, Bajarz 
Polski (Wilna, 1862, II, 220); in SCHÒNWERT, Sttten 
und Sagen (Ausburg, Rieger, 1889, III, 302): in 
STRACKERJAN, Aberglaube u. Sagen aus dem Herzog. 
Oldenburg (Oldenb., Stalling. II, 301); in PETER, 
Volksthimliches aus éòsterr. Schlesien (Troppau, 
1867, II, 136); in Wenzia, Westslamischer Mdàr- 
chenschate (Leipzig, Lorck, 1857, p, 88); in Rat- 
sToN, Cont. popul. de la Russie, Paris, Hachette, 
1874, pag. 317; in Cosguin, Cont. popul. Lorrains 
(Romania, a. 1877, VI, 578), e Cont. popul. de Lor- 
raine, ecc., Paris, Vieweg, 8. a., I, p. 285; in 
LuzeL, Lég. chrét. de la Basse Bretagne, Paris, 
Maisonneuve, 1881, vol. I, p. 30 (v. anche p. 39 
e sg.). Solo in parte vi troviamo riscontro in una 
leggenda algerina edita da NicoLaipes, Folk-lore 
des Arabes de l’Algerie, in La Tradition, VII (1893), 
p. 192 sg., e in una riferita da F. PéTIGNY (Contfes 
de la Beauce et du Perche, in Rev. d. trad. pop., 
XIII, p. 182-183). Vedi un art. del dott. K6AHLER 
sul libro del PETER nei Gòtt. gelh. Anzeig. (1868, 
L 1377) e le indicazioni aggiunte dal Cosquin, 

. cit., p. 579 e p. 286-288; dal CRANE, Ifal. popul. 
Di Boston and New-York, 1885, p. 361. Nella 
Zeitschr. d. deutsch. morgenlina. Gesellsch. (XIV, 
280), trovasi un testo persiano pubblicato e tra- 
dotto dal RucKeRT, contenente questa novella, alla 
quale si aggiunge anche l’altra, della quale diremo 
più sotto al n. LXXXIII, ambedue appropriate, 
come nel nostro libro, a Gesù. Il poeta persiano 
FARÎ-DAT-DîNn- ATTAR che ne è autore, morì nella 
prima metà del sec. XIII. La prima parte di questa 
novella, fino cioè alla condanna del compagno, e 
senza l’ episodio degli arnioni, trovasi in un rac- 


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134 LE FONTI 


conto popolare toscano, riferito dal De GUBERNATIS, 
Novelline di S. Stefano (Torino, 1869, n. 31; Gesù 
e Pipetta); il solo episodio del capretto trovasi in 
un racconto abruzzese (A. De Nino, Usi e costumi 
abruzzesi, Firenze, Barbéra, 1887, vol. IV, p. 77, ein 
uno siciliano raccolto da R. CASTELLI (Arch. d. trad. 
pop., XXII, p. 222); quello del miracolo mal riu- 
scito, nella novella siciliana Lu Signori, S. Petru e 
li apostoli (PitRÈ, Fiabe, Novelle ecc. vol. III, 54) e 
nell’ altra S. Pietru e lu scarparu, in Fiabe e Leg- 
gende, Palermo, Lauriel, 1888, p. 194; e cfr. p. 195-6 
per altre indicazioni. V. pure M. MonNIER, Les contes 
pop. en Italie, (Paris, Charpentier, 1880, p. 30); ed 
anche un racconto abruzzese raccolto da G. Fina- 
MORE (Arch. d. trad. pop., IV, 475). Tutta intera 
la novella è in NERUCCI, Novelle pop. montalesi, 
Firenze, Le Monnier, 1880, nov. XXXI: Pipetta 
bugiardo; in A. BaLLaporo, Alcune legg. di {esù 
Cristo e S. Pietro (Folk-lore veronese), Verona, 
Franchini, 1897, p. il, 13 e sg., e nel periodico 
Niccolò Tommaseo del Giannini, II, 121; in G. G. 
BAGLI, Saggio di nov. e fiabe in diul. romagnolo, 
Bologna, Fava e Garagnani, 1887, p. 18 e sg., e 
in un’ altra versione abruzzese riferita da G. Fina- 
MORE (Arch. d. trad. pop., IV, 487). V. poi in Arch. 
d. trad. pop., XX, 44-45, alcune altre indicazioni. 


NOVELLA LXXVI. 


Qui conta della grande uccisione che fece il re 
Ricciardo. 


Il Soldano manda, sotto specie di cortesia, un 
destriero al re Ricciardo, sceso in Palestina senza 
cavallo. Ma il re vi fa montar su un suo scudiere : 
il cavallo lo conduce al padiglione del Soldano, 


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DEL « NOVELLINO » 135 


che aveva tentato, con tale strattagemma, di impa- 
dronirsi del nemico. 


Con leggiere varianti è la LXXV B. 
L’ Hist. littér. de la France (XXIII, 162) dice: 
« L'’ histoire, qui ne parle point de cette ruse, dit 
seulemeni que Malek-Adel, frère de Saladin, admi- 
rant la bravoure de Richard, lui fit présent de deux 
chevaux arabes sur le champ de bataille. L anecdote, 
arrangée en fabliau, peut fort bien venir de nos 
‘ rimeurs; nous ne l’ avons point retrouvée dans leurs 
manuscrits ». Ivi sì rinvia al MicHAUD, Hist. des 
Croisades, t. II, p. 509. 


NOVELLA LXXXI. 


Qui disotto conta il consiglio che tennero li figliuoli 
del re Priamo di Troia. 


Il Gorra (Testi ined. di storia troiana, ecc., 
Torino, Loescher, 1887, p. 212) avverte che « se il 
racconto del Novellino.... deriva certamente dal 
« Roman de Troie », non ne proviene però diret- 
tamente; qualche anello intermedio è necessario 
ad ammettersì ». 


NOVELLA LXXXII. 


Qui conta come la Damigella di Scalot morì per 
amore di Lancialotto de Lac. 


Questa damigella spregiata nell’amor suo, mo- 
rendo disperata, ordina che il suo corpo sia messo 
in una navicella, nobilmente arredata, e in una 
borsa alla sua cintura si ponga una lettera che 
dia ragione della sua morte. La navicella giunge 


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136 LE FONTI 


a Camalot, e tutta la corte del Re Artù legge la 
lettera. 
Con lievi varianti è la LXXXI B. 
Vedi La morte Arthur (ediz. Furnival, London, 
1864, vv. 1048-1095), La mort d’Arthure.... compiled 
by sir TH. MaLory (ediz. Wright, London, 1866; 
e ediz. Strachey, London, 1868, cap. IX, XIX, XX). 
Di qui, principalmente, trasse il TEnnyson il suo 
poema The lady of Shalott (v. D. LAURENCE CHAM- 
BERS in Modern Language Notes, XVIII, 227). 


NOVELLA LXXXIII. 


Come Cristo andundo un giorno co’ discepoli suoi 
per un foresto luogo, videro molto grande tesoro. 


Cristo passa co’ discepoli da un luogo ove è 
‘molt’oro e consiglia di lasciarlo stare, come quello 
che è cagione che le anime si perdano. Giungono 
dopo di essi due compagni che deliberano di divi- 
dersi il tesoro: uno va alla città a prendere un 
mulo per caricar la preda: l’altro resta a guardia. 
Ma quegli riporta un pane attossicato che dà da 
mangiare al compagno, e questi, volendo rimaner 
solo possessore del tesoro, uccide l’altro a tradi- 
mento. Poi è colto dalla morte, e i due corpi giac- 
ciono accanto all’intatto tesoro. Cristo ripassa 
coi discepoli, e mostra loro la verità della sua 
sentenza. 

Più svolta, e cangiato Cristo in un romito, è 

la LXXXII B. e la XVI P. 

Negli Avadanas (trad. JuLien, I, 60, II, 89) rac- 
contasi che il Budda un giorno, viaggiando con 
un compagno, scoprì un mucchio d’oro e di cose 


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DEL « NOVELLINO >» 137 


preziose: ed ecco, gli gridò, un serpente velenoso. 
Ma un uomo che li seguiva raccolse il tesoro e lo 
portò a casa, e fece tante spese e si mise in tanto 
lusso, che eccitò la cupidigia del re, e venne spo- 
gliato ed ucciso, mentre ricordando le parole del 
Budda, esclamò: è un serpente velenoso. Il Lie- 
BRECHT (Orîent. u. Occid., I, 656) assevera che il 
racconto ha origine orientale, e rimanda al FABRI- 
cius, Codex Apocr. Nov. Test. III, 395, e alle Malle 
e una Notte (traduz. tedesca, Breslau, 1856, XIV, 
91). Si vedano, a questo proposito, i Riscontri 
orientali di I. Pizzi in Giorn. stor. della letter. ital., 
XXII, pag. 225. Varie redazioni di questa novella 
ci dà R. Basset, Contes popul. berbères, Paris, 
Leroux, 1887, p. 107 e 202; Recueil de textes et 
docum. berbères, pag. 42; Contes popul. d’ Afrique, 
cit., p. 185; Contes et légendes arabes, in Revue des 
tradit. pop., XIV, p. 438-39; Un recueil des contes 
de l’ Australasie, in Revue des trad. pop., XX, p. 2. 
L’ origine orientale è confermata da A. LecLèRE in 
un art. della Rev. d. trad. popul. XXVI, 277, dove 
è narrato che quattro malvagi, un mentitore, un 
ladro, un assassino e un seduttore si accozzano 
insieme e raccolgono un gran tesoro, che ciascun 
d’ essi vorrebbe per inganno far suo, e tutti restan 
morti, e l’ultimo dalla donna che ha sedotto, 
sicchè nessuno ne gode, e il tesoro resta nascosto e 
introvabile. L’ avventura è entrata a far parte della 
Rappresentazione di S. Antonio (Rappres. Sacre, 
Le Monnier, 1872, II, 33) aggiungendosi alla primi- 
tiva leggenda che non ne ha traccia. In Francese 
trovasi nei Ci-nous-dit, raccolta inedita di novelle 
ricordata da P. PARIS (Les Mss. frane., IV, 82). In 
tedesco è fra le opere di Hans SacHs (ediz. Godeke, 
I, 225), pel quale vedasi A. CesaANO, Hans Sachs 
e i suoi rapporti colla letter. ital., Roma, Officina 


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138 


LE FONTI 


poligr., 1904, p. 30 e seg., e la recens. di B. Co- 
TRONEI, in Riv. d’Italia, VIII, 1905, p. 672-673. 
Dal Novellino il racconto è passato al MorLINO 
(nov. XLII, ediz. Jannet, p. 84) e forse al CHAUCER 
(Pardoner ’s Tale). Per la versione orale popolare, 
vedi KuHnn, Westfal. Sagen (Leipzig, 1859, I, p. 76, 
945) e ZinaerLe, K. u. Hausm., (Regensb., p. 104). 
Una variante veronese ne dà A. BarLaporo nel 
giornale Niccolò Tommaseo (Arezzo, 1904), I, p. 20. 


NOVELLA LXXXV. 


Qui conta d'una grande carestia che fu a un 


tempo in Genova. 


La grande carestia di cui si fa menzione è vero- 
similmente quella durata per sei mesi, nel 1171, 
secondo ci racconta lo storico GIUSsTINIANI negli 
Annali di Genova, I, 248 (v. Giornale Ligustico, 
gennaio 1881, p. 40 e seg.). 


NOVELLA XC. 


Qui conta come lo imperadore Federigo uccise un 


suo falcone. 


Un giorno a caccia, l’ Imperadore lascia andare 


il suo falcone prediletto dietro una grue; questa 
fugge, e il falcone si rifà sopra un'aquila gio- 
vane. Federigo, accortosi della preda, gli taglia 
il capo, perchè il falcone uccise fellonescamente 
il suo signore. 


Il dott. KònLER m' avverte che l'avventura tro- 
vasi anche col titolo: Der junge Konig und sein 
Falke nella raccolta di novelle ebraiche di TENDLAU, 


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DEL « NOVELLINO » 139 


Fellmesers Abende (Frankfurt, 1856, p. 25), ma senza 
alcuna citazione di fonti. 


NOVELLA XCI. 
Come uno si confessò da un frate. 


Uno si confessò a un frate di aver avuto inten- 
zione di rubare, ma non esser riuscito. Il frate 
non vuol dargli l’assoluzione, dacchè egli ha pec- 
cato come se avesse recato ad atto il suo divisa- 
mento, se non gli porti i danari che da lui saranno 
dati in elemosina. Un altro giorno il peccatore 
promette di mandare al frate uno storione: non 
lo fa, e l’altro aspetta invano. Redarguito, risponde 
che, poichè aveva avuto l’intenzione di mandar- 
glielo, faccia conto di averlo avuto davvero. 


Si trova anche in PauLi (ediz. Oesterley, n. 248), 
e a p. 507 l’editore cita per un racconto consimile: 
Scherz u. Warheyt, 80, MeMEL, 77, p. 49, e Lustig- 
macher, 86, 146. Trovasi anche in WALDIS, Esopus 
(ed. Kurz, IV, 14), salvo che il peccato è l’aver 
desiderato la moglie altrui. Tanto l’ OrsTERLEY 
quanto il Kurz nelle loro note raffrontano questa 
novella con l’ altra che vedemmo sopra al n. IX. 
Il KòHnLeR m'indica anche NicoLas DE Troyes, 
Le Grand Parangon des nouvelles, n. 28. Si ricordi 
anche una novella italiana riferita da M. MonNIER, 
Les contes popul. en Italie, Paris, Charpentier, 1880, 
p. 217 (La poule volée), che ha somiglianza colla 
nostra; una versione veronese di A. BALLADORO, 
La coa de la pita (v. Folk-lore veronese — Novel- 
line — Verona-Padova, Ducker, 1900, p. 191-92); 
la novella popolare milanese £/ paisan e el pret, 
recata dall’ Imbriani (Novellaia fiorentina, p. 619), 


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140 LE FONTI 


che in nota ricorda una novella del Sacchetti, CXCVI, 
e una del Bandello (IV, 3). 


NOVELLA XCIV. 
Qui conta della volpe e del mulo, 


La volpe vedendo un mulo ne ha paura, e corre 
al lupo raccontandogli qual nuova bestia ha in- 
contrato. Vanno tutti e due, e il mulo dice loro 
che ha scritto il suo nome nel piè dritto che alza. 
La volpe si scusa di non saper leggere; il lupo 
va sotto, ed è ammazzato con un calcio. La volpe 
conclude che non ogni uomo che sa lettera è savio. 


Con lievi varianti è la XCI B. 

Sulle antiche raccolte di favole che contengono 
anche questa, vedi RoBERT, Fabl. inéd. (II, 16, 365), 
ScHMIDT, Beitrage, etc., (p. 181) e DuMÉRIL, Poes. 
inéd. du moy. Gge, (p. 199); The Erempla of J. de 
Vitry, ediz. Crane, London, Nutt, 1890, p. 13; si 
v. anche Lecoy pe LA MARCHE, L’ Esprit de nos 
ayeux, Paris, 8. a., p. 85. Fa parte anche del poema 
di Renardo (v. RoBERT, id.), pel quale si veda 
L. SuDRE, Les sources du roman de Renart, Paris, 
Bouillon, 1893, p. 332 e seg., ed è anche nella tra- 
duzione neogreca pubblicata dal GRIMM (p. XLVIII), 
e dal GipeL, Étud. sur la littér. grecq. moderne 
(Paris, 1866, p. 341). Trovasi anche in Schimpf und 
Ernst (p. 170), nella Disciplina clericalis (edizione 
Schmidt, p. 41), in ErieNnE De BouRBON, p. 244, 
nel Libro de los enxemplos, n. CXXVIII, nei Pro- 
verbi di Cintio DE’ FABRIZI, n. III (v. LieBRECHT in 
Jahrbuch. f. roman liter., I, 433). Per narrazioni 
orali e popolari, vedi Kunn, Merk. Sagen (Der 


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DEL « NOVELLINO » 141 


dumme Wolf), e HAuUPT unD ScHMALER, Wendisch. 
Volksl. (II, 161). Ricordiamo inoltre un racconto 
africano riferito da R. Basset, Contes popul. d'Afri- 
que cit., p. 25 (Le lion, le chacal, le mulet, ecc.) 
e da J. RIVvIÈRE, Recueil de contes popul. de la 
Kabylie, Paris, Leroux, 1882, p. 141; uno greco 
raccolto in Roccaforte (v. La Calabria, riv. di let- 
teratura popolare, anno I, (1888) p. 46-47); e uno 
toscano di G. PitRÈ. Nov. popol. toscane, Firenze, 
Barbèra, 1885, p. 241-43, che ha qualche analogia 
col nostro. 


NOVELLA XCGVII. 

Il BARTOLI (Storia d. lett. it., cit., III, 187-88) ci 
indica in uno degli Assempri di Fra Filippo da 
Siena (Siena, 1864, p. 78) il tema di questa novella, 
più ampiamente svolto. 


NOVELLA C. 


Come lo imperadore andò alla montagna del 


Veglio. 


Vi si racconta in primo luogo, come Federigo 


imperadore andò una volta alla montagna del Veglio, 
e come questi, per mostrargli quanto fosse temuto 
e obbedito, con un solo cenno fece che due assas- 
sini che erano su una torre si gettassero giù 
morendo incontanente. 


Questa favola, nota l’AMARI, St. dei Mussul- 
mani in Sicilia \III, 649, Firenze, Le Monnier, 
1852), era stata già raccontata più volte in tempi 
diversi mutando sempre i personaggi: nel IX 
e X secolo fu attribuita agli Ismaeliani di Persia, 
nel XII, a que’ di Siria quando Saladino andò a 
trovare Sinàn. Il DEFREMERY, Nouv. recherches sur 


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149 


LE FONTI 


les Ismaeliens, plus connus sous le nom d' Assasins, 
(in Journ. Asiatig., 1864), dice che il fatto fu attri- 
buito prima al fondatore della setta degli Ismae- 
liani di Persia, Hacan Ibn Sabbah (cfr. ELMAKIN, 
Hist. saracenor., sub a. 483), e si racconta pure 
del famoso capo dei Carmali Abou-Jhàhir-Soleiîman 
(cfr. HerBeLOT, Bibl. orient., sub. Carmathe, 1776, 
p. 326). Gli autori occidentali hanno pur essi avuto 
contezza di questa leggenda; il continuatore di 
GuaLieLMOo DI Tiro (in MicHAUD, Bibliot. des Croi- 
sades, I, 372) e MARIN SanuDo, De secretis fidel. 
crucis (p. 201) ne fanno menzione anch’ essi, ma 
sotto una data posteriore di qualche anno alla 
morte di Sinàn. In questi autori (vedi anche nella 
Collection des histor. occident. des Croisades, II, 
286, 230, 231), il cavalier cristiano è Enrico conte 
di Sciampagna, cui le Novelle antiche sostituiscono 
Federigo, e l’ AMARI crede originata tal sostituzione 
dalla voce fatta correre che Federigo facesse per 
suo conto pugnalare il Duca di Baviera dagli 
Assassini, a’ cui ambasciadori diede un convito in 
Melfi nel 1232. 

La seconda parte della novella dice come l’Im- 
peratore conoscesse di esser tradito dalla moglie, 
perchè andando a lei, essa gli dice che vi fu pur 
testè. È la XCVIII B. Trovasi già un simil racconto, 
passato poi al Decamerone (gior. III, nov. 2), nel 
Calila e Dimna arabo (traduz. ingl. di Windham 
Knatchbull, p. 165), e nell’Anmari-Sohaili o Libro 
dei Lumî, p. 167. Vedilo tradotto da GALLAND e 
Carponne nei Mille et un jours (ediz. Loiseleur- 
Deslong, p. 472). Leggesi anche nella versione 
spagnuola del Calila è Dymna (in GAYANGOS, 
Escritor. en prosa anter. al s. XV, Madrid, Riva- 
deneyra, p. 36). In Francese trovasi nel Roman de 
Trubert (Mfon, Nouv. Recueil, I, 213). 


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DEI « NOVELLINO » 143 


TESTO BORGHINI (') 
NOVELLA VI. 
Come un fabbro si riscosse d’ una quistione. 


Un fabbro accusato présso all’ Imperadore Fede- 
rigo di lavorare anche le feste, si scusa col dire 
che ogni giorno deve guadagnare quattro soldi e 
non più: dei quali una parte ne rende, l’altra ne 
dà, la terza getta, la quarta adopera. Invitato a 
meglio spiegarsi, dice che colla prima mantiene 
il padre, colla seconda fa lemosine, colla terza 
alimenta la moglie, e l’ultima spende pel suo 
sostentamento. L’ Imperadore gli comanda di non 
spiegare a nessuno questo mistero, se prima non 
abbia cento volte veduto la sua faccia, e chia- 
mati i Savj propone loro la questione dei quattro 
soldi, spesi in quei quattro modi. I Savj non 
sapendo come risolverla, vanno al fabbro che pro- 
mette di parlare se gli si portino cento bisanti 
d’oro. Così i Savj sciolgono la questione proposta; 
ma l’imperadore si adira col fabbro, che venuto 
alla presenza di lui si difende col dire di aver 
cento volte visto la sua faccia sui bisanti d’oro. 

Con non molte differenze è la VI P. 
Vedi nei Gesta Romanor. (c. 57, ediz. Keller; 

Swan, I, 189; Madden, X, 25, e p. II, 3, 279; Violier, 

p. 128). Ma nelle diverse redazioni dei Gesta manca 


(1) J. ULRICH nella sua traduzione tedesca del Novellino, Die hun- 
dert alten Erzdihlungen (Romanische Meister-erzdîhler hrsgg. von 
F. J. Krauss) Lipsia, 1905, p. 108, incorse in una svista; ivi si corregga 
«Aus dem Texte Papantiîs », e a p. 103 « Aus dem Texte Borghinis ». 


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ESSI. de RL 


144 


LE FONTI 


la seconda parte della novella. E la sola prima 
parte di essa trovasi nel W.-C. SuyTH, The persian 
moonshee (London, 1840, n. 21). Intera, e come 
racconto popolare trovasi in Chioggia e î suoi canti 
di A. GarLaTo, Venezia, Naratovich, 1885, p. 172, in 
Simrock, Deutsche Mdrch. (n. 8), nelle Sicilian. 
March. della GONZENBACH (n. 90), nel PiTrÉ, vol. IV, 
p. 270 ed è riferita da X. MARMIER in Contes pop. de 
diff. pays, cit., Paris, 1888, II serie, p. 307. La sola 
parte seconda trovasi in racconti popolari del 
Brandeburgo (v. EnaeLIEN, D. Volksm. tn d. Mark. 
Br., I, 116), del Tirolo (ZingerLe, K. u. H. M., 
p. 121) e di Sicilia (PiTRÉ, Indovinelli, dubbii e 
scioglilingua, ecc., Torino-Palermo, 1897, p. 312 
e in Arch. delle trad. pop., XIV, p. 532 e seg.). Per 
altri riscontri, vedi K6HLER nelle annotazioni alle 
Sicil. March. (II, 234), LiEBRECHT, in Orient u. Occid., 
III, 372, e OESTERLEY, Gesta Romanor. (c. 57, p. 722). 
Ricordiamo anche una novella greca di Lesbo rife- 
rita da L. PineaU in Rev. des trad. popul., XII], 
p. 194 e seg.; e i cenni su tal leggenda di A. Grar, 
in Roma nella memoria e nelle immag. del M. Evo, 
Torino, 1882, I, p. 245. 


NOVELLA LI. 


Come il Saladino si fece cavaliere, e il modo che 


tenne Messer Ugo di Tabaria in farlo. 


Si narra come il Saladino desiderasse esser 


fatto cavaliere, e con qual cerimoniale procedesse 
in farlo il suo prigioniero Messer Ugo di Tabaria. 


È il poema De l’ordene de chevalerie, analizzato 
nell’ Hist. littér. de la France (XVIII, 755 e segg.) 
e in LegranD D’ Aussy, Fabdl., (I, 208), e pubblicato 
per intero in Barpazan-Mfon, Fabl., I, 59. Trovasi 


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DEL « NOVELLINO » 145 


anche nel Roman de Jean d’ Avesnes (DINAUX, 
Trouv. du Nord de la Fr., IV, 426), e in CHASTELAIN, 
Instruct. d’ un jeune prince, (Mélang. d’ une grande 
bibl., D., 297). Antiche versioni tedesche e fiam- 
minghe sono notate nel BrunET, Manuel (III, 233; 
V, 1514). Posteriore a questa del Novellino, checchè 
ne dica in contrario il LAMI, Appendice al Manni 
(Milano, Pirotta, 1821, p. 12), è, secondo noi, la 
narrazione che si trova nel lib. IIl, c. 13, dell’Av- 
venturoso Ciciliano di Mess. Bosone DA GoBBIO 
(Firenze, ediz. Nott, p. 310): Come Messer Ulivo 
di Fontana fece cavaliere il Soldano di Bambilonia. 
È anche narrata dal Doni nella Libreria II, donde 
passò alla raccolta di sue novelle (ediz. Lucca, 
Fontana, 1852, p. 148, e a quella di G. Petraglione, 
Bergamo, 1897, p. 49 e cf. p. 194). | 


NOVELLA LVI. 


Qui conta come una vedova con un sottile avvedi- 
mento si rimaritò. 


Essendo in Roma proibito alle vedove di rima- 
ritarsi, ed una, ancor giovane, avendone voglia, 
ordinò ai suoi famigliari che menassero per la 
città un cavallo scorticato. Pel primo giorno se ne 
discorse molto per tutta Roma, poi via via il rumore 
si acchetò, e in breve non se ne parlò più, per 
quanto lo spettacolo sì protraesse. Da ciò la vedova 
prese coraggio, e si rimaritò, mostrando ai con- 
giunti come delle cose nuove ed inusitate si discorre 
qualche tempo, poi la gente se ne ristucca e pensa 
ad altro. 

Con varianti di dettato soltanto, è la IX P. 
Trovasi anche fra le Novellette, Esempj morali 
e Apologhîi di S. BERNARDINO DA SIENA (Bologna, 


D’ ANncOoNA - II 10 


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146 LE FONTI 


Romagnoli, 1868, p. 27), e nell’ Esopus di WaALDIS 
(ediz. Kurz, Leipzig, Weber, 1862, III, 6: Von einer 
Witmwen und einem grinen Esel). 11 dott. KòBLER 
a proposito di questa novella in un articolo dei 
Goetting. gelehr. Anzeig. (10 novembre 1869) rimanda 
a Boner, Eldestein (n. 50), ABSTEMIUS, Fad., n. 80: 
de vidua et asino viridi, e a GELLERT. Vedi anche 
le note del Kurz, II, 114. Sulla proibizione fatta 
alle vedove di rimaritarsi, v. a proposito di questa 
novella, G. AMATI nei prolegomeni alla Bibliogr. 
Romana, vol. I, Roma, 1880, p. CIII e seg. Recen- 
temente EmiLio RE (Bollett. Soc. Filol. Romana 
del 1907) mostrò in questa novella « l’appropria- 
zione della tradizione corrente a una persona deter- 
minata ». È una Mabilia Savelli che rimasta vedova 
d’ uno Stefaneschi andò sposa ad Agapito Colonna, 
e morì nel 1815. 


NOVELLA LXV. 


Qui conta di due ciechi che contendeano insieme. 


Durante la guerra del re di Francia col Conte 
di Fiandra due ciechi contendono insieme di chi 
avrà vittoria, ed uno sostiene le parti del re, l’altro 
dice: sarà che Dio vorrà. Il re di ciò avvertito 
fa cuocere due pani, in uno dei quali fa mettere 
dieci bisanti d’oro, e questo dare al cieco che tiene 
dalla sua. I due ciechi tornano a casa, e quello 
che dice: sarà che Dio vorrà, mangia il pane 
colla sua donna, mentre l’altro si ciba di altro 
pane accattato, e delibera di vendere quello avuto 
dal re. Il compagno, a cui il pane del re parve 
assai buono, si offre compratore dell’altro, e vi 
trova dentro il danaro. La mattina di poi conta 
la cosa al compagno, il quale conviene anch’egli 


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DEL « NOVELLINO » 147 


che le faccende di questo mondo sono in mano di 
Dio, e la cosa viene agli orecchi del re, che ne 
resta pur esso convinto. 


Con qualche variante è la XIV P. 

Trovasi, a quel che dice il RoBeRT, Fables inéd. 
(1. CXLIX), anche nel Renart le contrefait. Qualche 
cosa di simile a questa novella, ritrovano il DUNLOP 
(op. cit., p. 250) e il SimRocE, Quellen des Shakesp. 
(Il, 246), nella nov. I, giorn. X del Decamerone, nel 
Barlaam e Josafat, e nei Gesta Romanor. (c. 109), 
nonchè negli Exempla di J. da VirRry (ed. Crane, 
p. 18 e 153). La forma primitiva, senza menzione 
della guerra, ma colla sola disputa se più giovi 
l’aiuto di Dio o quello di Cesare, è probabilmente 
quella che si trova nelle Latin stories del WRHIGT, 
n. CIV, e nel PauLI (n. 326); ove son da vedere a 
p. 510 le annotazioni dell’ OestERLEY, nonchè quelle 
dello stesso a pag. 729 pel cap. 109 dei Gesta. Si 
veda anche la versione che riferiscono L. PINEAU nei 
Contes pop. grecs de V ile de Lesbos (Revue des trad. 
pop., XII, 193, 194); il BenFEy, Introduz. al Panc., 
I, 407 e 604; G. FinAMORE in 7rad. pop. abruzzesi, 
vol. 1, Novelle, Lanciano, Carabba, 1885, p. 115. 
Sul tempo della guerra menzionata nella nov. si 
veda ciò che congettura E. RE, op. cit., p. 63, 
nota 1. Egli col RoB£kz®t, l. cit., ascriverebbe la 
novella « circa al primo quarto del secolo XIV », e 
conforta l’ipotesi con un passo del ViLLani (X, 87). 


NOVELLA LXVIII. 


Qui conta come fu salvato un innocente dalla 


malizia de’ suoî nemici. 


I cortigiani di un re, invidiosi di un donzello 


venuto di recente a corte, gli dicono che il Re è 


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148 LE FONTI 


assai offeso del suo fiato, e che parlandogli, torca 
la bocca o volga la faccia altrove. Il Re si mara- 
viglia di questo contegno del giovane, e i corti- 
giani glielo spiegano col dire che il donzello ha 
detto che non può sostenere il fiato puzzolente 
della bocca del Re. Questi adirato scrive ad un 
fornaciajo che faccia gran fuoco, e metta nella for- 
nace la persona che a lui manderà per prima. Dà 
una lettera al giovane pel fornaciajo : ma essendo 
ora di messa, il donzello indugia alquanto e 
frattanto un cortigiano va al fornaciajo per sapere 
se avesse bruciato l’invidiato rivale. Giungendo 
per primo, è messo lui nel fuoco: e il giovane 
torna libero a corte; il Re mandando a morte tutti 
i suoi nemici, lo innalza di grado e di onoranza. 


Secondo il LieBREcHT la prima parte di questa 
novella è nel Somadeva, cap. 20 (trad. Brockhaus, 
II, 62). Il KeLLER, Dyoclet. Leben (p. 44, Einleit.), 
dice ch’ essa ricorda l’ avventura del giovane Ahmed 
nei Sette Viziri (trad. ingl. Scott, X, p. 53), che 
è riferita dal LoiseLEUR-DESLONGScHAMPS nel suo 
Essai (p. 132-134). Cristianizzata, diventa questa 
novella il racconto du roi qui voulut faire bràaler 
le fils de son sénéchal (LE GRAND D' Aussy, Fabdl., 
V, 56; Méon, Nouv. Rec., II, 336), e il capitolo 89 
dei Gesta Romanor. (in inglese, ed. Swan, I, CIV; 
ed. Oesterley, 283). In italiano è divenuta la n. VIII, 
6 degli Ecatommiti del GirALDI, una novella del- 
l’ Esopo di Fr. del Tuppo (v. G. RUA, op. cit., p. 13), 
e qualche cosa se ne trova nel poemetto popolare 
di Florindo e Chiarastella. Per altri raffronti vedi 
DunLoP (op. cîit., p. 487), E. Du MérIL (Poésies 
inédites du M. A., cit., p. 219), la cit. Introduzione 
del KeLLER, le note dell’OEsTERLEY, p. 749, e l’illu- 


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DEL « NOVELLINO » 149 


strazione di G. PARIS a una versione catalana del 
sec. XV, nella Romania, V, 454 (a. 1876). Altre 
versioni, oltre le qui notate, si ricordano dal- 
l’ HerTz, Deutsche Sage in Elsass (Stuttg., 1872, 
p. 279-93). Per la seconda parte della leggenda vedi 
le ricche indicazioni del WessELOFSKy nella Roma- 
nia, vol. VI, p. 181 e seg. (a. 1877). Di questo 
divulgato tema ci dànno altre versioni J. RIVIÈRE, 
Rec. de cont. pop. de la Kabylie, cit., p. 35 e seg. ; 
A. Dozon, C. albanaîis, Paris, Leroux, 1881, p. 97 
e seg.; SCHISCHMANOFF, Lég. rélig. bulgares, Paris, 
Leroux, 1876, p. 97 e seg.; F. M. Luzet, C. pop. de 
la Basse-Bretagne, cit., Paris, Maisonneuve, 1887, 
vol. 1, p. $6; G. RonponI, Trad. pop. e legg. di un 
comune mediev., cit., p. 161; L. NATOLI, Prosa e 
Prosatori Siciliani del sec. XVI. Milano-Palermo- 
Napoli, Sandron, 1904, p. 134 (dove si riferisce la 
nov. secondo la dà lo scrittore siciliano ArGISTO 
GiurFREDI nei suoi Avvertimenti Cristiani; cf. in 
Documenti per servire alla st. di Sicilia, IV serie, 
vol. V, p. 69); G. FinAMORE, Trad. pop. abruzzesi, 
vol. I, p. 65 e 103. Del resto, sulle origini di questo 
motivo si veda l’ importante articolo del KuHN in 
Byzantinische Zeitschrift, IV, 244. 


NOVELLA LXXIV. 


Qui conta di certi che per cercare del meglio per- 
derono il bene. 


Nell’ultima parte della novella, o per dir meglio 
nella terza novelletta che qui si contiene, ritrovasi 
il racconto di colui che non poteva riavere un depo- 
sito fatto in buona fede ad un falso amico. Una 
vecchia lo consiglia di far sì che altri proponga 
all’amico infedele un deposito di gran valore, e 


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La LI i . 


. è 
tibi 


150 LE FONTI 


costui temendo che l’ ingannato non sveli la frode, 
gli rimanda i suoi scrigni, e ne riceve in cambio 
altri vuoti. 

La novella è di origine orientale, e trovasi in 
CARDONNE, Mélang. de littérat. ortent., II, 62, e 
nelle Mille et un jours (ed. Loiseleur, p. 652) tratta 
dall’ Agiaib-Elméaser. Vedila anche nella Discipl. 
cleric. (ed. Schmidt, pp. 55 e 137; ed. La Bouderie, 
p. 91; ediz. Biblioph. frang., p. 88; ed. Barbazan- 
Méon, II, 107: Le Granp D’Aussy, Fabliaur, III, 248). 
Vedila anche nei Gesta Romanorum (ed. Grisse, 
ed Oesterley, n. CXVIII, e le note dell’OESsTERLEY, 
p. 730), nel Libro de los enxemplos (n. XCII), e nel 
Libro de li exempli edito dall’ ULRICH (0p. cit., p. 80, 
cfr. Romania XII, p. 29). Parecchi critici (Hist. 
littér. de la France, XIX, 829; Du MÉRIL, Hist. poés. 
scandin., 356 ; LANDAU, Die Quell. des Decamer., 82; 
DunLoP, p. 247), trovano in questa novella l’origine 
della X novella dell’ VIII Giornata del Decamerone. 


NOVELLA XCII. 


Qui conta d'uno nobile romano che conquise un 
8uo nimico in campo. 
È il fatto di Tito Manlio Torquato tolto da Trro 
Livio (prima deca, libr. VII, $ IX-X), colle parole 
stesse dell’ antico volgarizzamento italiano. (La 
prima deca di T. Livio.... per cura del prof. C. Dal- 
mazzo. Torino, stamperia Reale, 1846, II, 163). 


NOVELLA XCIV. 


Come un re per mal consiglio della moglie uccise 
i vecchi «li suo reame. 


Un giovane re ha moglie giovane, invidiosa e 
gelosa di un vecchio precettore del marito. Ottiene 


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DEL « NOVELLINO » 151 


da lui che si uccidano tutti i vecchi del reame. 
Più tardi il re si fa uno strano sogno, ma i suoi 
consiglieri, tutti giovani anch’essi, si scusano per 
l’età loro di non saperlo dichiarare, ed egli manda 
perciò ai sav) vecchi di un re vicino. Gli rispon- 
dono che saprà decifrargli il sogno chi venga a 
lui menando seco l’amico, il nemico e il giullare. 
Un giovane quando venne l’ ordine di uccidere i 
ve::chi, aveva salvato il padre nascondendolo senza 
saputa della moglie, ma non senza che questa se 
n’avvedesse. Quando andò in volta il nuovo bando 
reale, il vecchio superstite consiglia il figlio a 
presentarsi dal re col cane, la moglie e un figliuo- 
letto. Ei va, ed afferma che il cane è il suo migliore 
amico, perchè anche percosso gli è fedele; il figlio- 
letto è il giullare che lo sollazza; e la moglie è 
il peggior nemico. Questa si adira, e scopre al 
re che il marito ha disubbidito ai suoi voleri, 
salvando da morte il padre. Il re, accordando 
perdono, manda a cavar fuori dal nascondiglio il 
vecchio, che gli dichiara il senso del sogno. 
Questo racconto già del sec. X trovasi in un ser- 
mone di RATERIO vescovo di Verona (v. D’AcHERY, 
Spicileg., I, 395; Mussaria, Ueb. eine altfranzbsisch. 
handsch. d. Universit. biblioth. eu Pavia, in Siteungs- 
berichte der K. Akademie d. Wissensch., philol. 
hist. Klasse, LXIV (1870), p. 595 e seg.): vi manca 
soltanto il fanciullo presentato come giullare, che 
trovasi invece nella Scala coli di JOANNES JUNIOR 
(Mussaria, id., id.), e nel Dolopathos (vedi Loi:se- 
LEUR, Essaî, pp. 125, 291, ediz. Montaiglon, Paris, 
Jannet, p. 225). Infinite sono le versioni più o meno 
compiute di questo racconto. Ricorderemo soltanto 
quelle dei Gesta Romanorum (ed. Keller, 124; Swan, 


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152 


LE FONTI 


II, 164; Violter, p. 422), della Storia di Stefano 
figlio d’ un imper. di Roma, ediz. del Rajna, cit. 
p. 220 (v. anche in Romania, X, p. 25: P. RaJna, 
Una versione in ottava rima del libro dei sette savi), 
e del Schimpf u. Ernst del PauLi (ed. Oesterley, 
n. 123), ove sono da vedere le note dell’ Oesterley 
p. 732 dei Gesta, e 521 del Pauti, nonchè la citata 
dissertazione del Mussaria ad illustrazione di un 
favolello francese di tal argomento; si aggiungano 
le notizie raccolte dal KòsBLER in una rassegna 
sul lavoro del Mussaria inserita nei Geetting. gel. 
Anz. (25 jan. 1871) e in Kleinere Schriften cit., 
vol. II, p. 401. V. anche A. GRAF, Roma nella 
memoria ecc., cit., vol. II, p. 43; nonchè una nota 
di A. WESSELOFSKyY, in Giorn. Stor. della lett. ital. 
VIII, 275. Per la forma orale e popolare di questa 
novella, vedansi oltre i due scritti citati del Mus- 
SAFIA e del K6BLER, anche le annotazioni (III, 170) 
alla novella 94 delle K. und Hausm. dei GRrIMM, 
ed altre versioni riferite da G. FinAMORE, Tradiz. 
popol. abruzzesi, vol. II (parte seconda) p. 45 e seg. 
Il racconto è entrato a far parte anche del ciclo 
bertoldiano: vedi GuUERRINI, G. C. Croce, p. 215. 
Una novella di Hans Sachs, diversamente svolta 
nei particolari, ha pure il motivo del maggiore 
amico e del maggior nemico (v. A. Cesano, H. Sachs 
e $ suoi rapporti colla lett. it., cit. pp. 32-33). — 
L’ episodio del figlio che salva il padre dalla sorte 
cui si vogliono condannare tutti i vecchi, trovasi 
anche in una nov. di Francesco del Tuppo (vedi 
G. Rua, op. cit., p. 13) la quale però nel rimanente 
è altra cosa, e si riferisce a uno stratagemma che, 
secondo le leggende sarebbesi usato spesso negli 
assedj (v. G. PirrÈ, Di uno stratagemma leggendario 
di città assediate, in Atti della R. Accad. di scienze 
lett. e b. arti di Palermo, serie III, vol. I, 1891). 


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DEL « NOVELLINO » 153 


TESTO PAPANTI 


NOVELLA I. 


Come uno filosafo isputò in bocca al figlio del re 
per lo più vile luogo della casa. 


Un figliuolo di un re conduce un filosofo a vedere 
la sua casa, e come questa era tutta a oro, e il 
filosofo aveva bisogno di sputare, quando il gio- 
vane aprì bocca, l’altro vi sputò dentro, consi- 
derando quello il più vil luogo di tutta la casa. 


L’ aneddoto è in Diogene Larrzio (II, 75) appro- 
priato ad Aristippo e a Simo tesoriere di Dionigi 
il tiranno (v. anche in GuALTERI BURLEI, Liber de 
vita et moribus philosophorum). Di qui passò negli 
Exempla di J. pe ViTRy, (ed. Crane, pp. 66, 195-196), 
nel commento del Boccaccio all’ Inferno di Dante 
(ed. Fraticelli, Firenze, 1844, vol. I, pp. 306-7); nel 
Libro de los Enxemplos n, GXVIII, ecc. e nel libro 
di Salomone e Marcolfo, donde probabilmente venne 
al nostro Bertoldo. Veggasi in proposito C. Cor- 
TESE-PAGANI, Il Bertoldo ecc., in Studi mediev. II, 
p. 553, 567, 582. Trovasi anche nel PauLI (n. 475), 
e vedi a p. 528 le annotazioni dell’ OgrstEeRLEv. In 
italiano, trovasi pure nell’ Avventuroso Ciciliano (ed. 
cit., p. 346) riferito a Gian di Berrì e al Saladino; 
nel Rosaio della Vita del Corsini (ediz. Polidori, 
Firenze, 1855, p. 78), è riferito a Diogene ed Ales- 
sandro; nel BanpeLLo (III, 42) come accaduto 
all’ ambasciator di Spagna in casa della cortigiana 
Imperia. 


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TuL PBPIOI 


154 LE FONTI 


NOVELLA XII, 


Un cavaliere era felice tanto a questo mondo 
che di lui solea dirsi: non gli manca altro che 
lira di Dio. Sentendoselo sempre ripetere, gli 
vien voglia di sapere che sarebbe questa ira di 
Dio, e si parte con un servo per cercarla. Un 
giorno si abbattono in due serpenti, che fra loro 
combattono: l’uno spicca all’altro il capo, ma poi 
subito corre a cogliere una certa erba, e postala 
fra il capo e il corpo del compagno questi torna 
sano e intiero. Al Cavaliere viene curiosità di 
tentar la prova su di sè, e si fa spiccare il capo 
dal servo, ma gli è poi rappiccato alquanto torto. 
Il servo vorrebbe ricominciare per far meglio le 
cose, ma l’altro si rifiuta, e ricordandosi dell’ira 
di Dio, conclude col dire che tanto l’è ita cer- 
cando che l’ha trovata e avuta. 


Nelle novelle popolari troviamo chi va cercando 
la paura e non ci riesce: vedi Grimm, K. u. H. Mdrch. 
(n. 4, e le note, III, 9 segg.) e SCHNELLER, March. u. 
Sagen aus Wdalschtirol (Innsbruck, Wagner, 1867); 
e altro che cerca la morte e trovatala ne esce 
malconcio, come il cavaliere della nostra novella: 
vedi WoLr, Deutsche Mdrch. u. Sagen (Leipzig, 
Brockhaus, 1845, n. 10). La serpe che riattacca il 
capo coll’erba, e così insegna a far rivivere le per- 
sone uccise, è nel Pentamerone I, 7, nelle Fiabe 
e Leggende siciliane del PiTRÈ, I, 95, e IV, 372, in 
FINAMORE, Trad. pop. abruzzesi, I, (parte prima) 
p. 208; in un racconto greco di Chios, raccolto da 
S. Tsapellas (La Tradition, VII, 243). L' esempio 
vien dato invece da due tarantole in un racconto 


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DEL « NOVELLINO » 195 


che riferisce il Cosguin, Contes pop. de Lorraine, 
cit., pp. 79-80. V. anche sul capo mal riappiccato, 
NeRruccI, Novelle Montalesi, n. XLIV: Giovannino 
seneca paura, e PirtrÈ, Nov. pop. toscane, cit. p. 204 
e seg. Per l’ erba che risuscita v. R. Basser, 
C. et lég. de la Gréèce ancienne (Rev. d. trad. pop. 
XXI, 227); J. RivikRE, C. pop. de la Kabylie, cit. 
p. 199; e una novella raccolta in Costantinopoli 
dal NicoLaipes (La Tradition, VII, p. 86). 


NOVELLA XIII, 


Raccontasi qui di un Signore che aveva com- 
prato uno schiavo il quale intendeva la lingua 
degli uccelli. Questi gli predice molte sventure 
che poi si avverano, sicchè il padrone lo licenzia 
dicendo di voler stare al piacer di Dio, nè voler 
più sapere le cose prima che avvengano. 


Non trovo l’ origine precisa di questa novella, 
ma il prof. TEZA, La tradizione dei Sette Savj nelle 
novelline magiure (Bologna, 1864, p. 24), a propo- 
sito di quel racconto che forma il poemetto popo- 
lare intitolato: Il compassionevole caso e lieto fine 
di Ermogene figlio di un mercante alessandrino, 
ricorda alcuni libri e racconti orientali ove si ha 
menzione dell’ intendere il linguaggio degli uccelli: 
di ciò si vanta Salomone nel Corano (XXVII, 16), 
e dialoghi di lui cogli uccelli si riferiscono nel 
libro dei XL Visivi (ediz. Bernhauer, p. 96). Nella 
redazione turca del libro del Papagallo (Rosen, I, 238) 
il re indiano dimanda d’ intendere gli animali ecc. 
Vedi per maggiori indicazioni la nota dello ScHAMIDT, 
Die March. d. Straparola (Berlin, 1817, p. 323), 
alla nov. 3 della notte IV. Anche nell’ Introduzione 
alle Mille e una notte (ed. LoisELEUR, p. 12) sì narra 


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uti. mo SF 


156 LE FONTI 


di uno che intende il linguaggio degli animali, e 
l’ editore fa osservare che già lo ScHLEGEL, Journal 
Asiat., 1813 (p. 509) aveva notato l’ origine della 
novella dal Ramayana, aggiungendo che è pure 
nell’ Harivansa (trad. Langlois, I, 108). 


NOVELLA XXI. 


Messer Dianese cavaliere trevigiano consuma 
tutto il suo in gentilezze e magnificenze. Si an- 
nunzia che il re di Cornovaglia bandisce una gio- 
stra, e darà la figliuola al vincitore. Gli amici di 
Dianese lo forniscono di tutto punto, ed egli si 
avvia alla giostra. Dopo qualche tempo, nota come 
la gente lascia la via diretta per un sentiero stretto, 
e sa che ciò avviene da che in quella giace inse- 
polto un cavaliere morto indebitato, ed è usanza 
del paese non seppellire coloro che muoiono in 
tal condizione. Egli si offre di pagare pel defunto, 
e lo fa seppellire a grande onore, tanto che con- 
suma tutto il suo, e non gli resta che un cavallo. 
Quando si ripone in viaggio è raggiunto da un 
mercatante, che gli si offre compagno e lo fornisce 
di moneta, a patto che divideranno a metà tutto 
ciò che guadagneranno. Arrivano in Cornovaglia ; 
Messer Dianese vince la giostra, e ha in moglie 
la figlia del re. Dopo qualche tempo, i due com- 
pagni risolvono di tornare a casa loro, e sono ric- 
camente donati dal re. Giunti vicino a casa, il 
mercatante ricorda al cavaliere la sua promessa, 
e fa due parti: l’una di tutto il tesoro, l’altra della 
donna. Messer Dianese sceglie questa, e l’altro va 
per la sua strada: ma poi lo raggiunge, e ren- 
dendogli ogni cosa, gli dichiara di essere colui 


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DEL « NOVELLINO » 157 


di cui ebbe pietà, pagandone i debiti, e seppellen- 
done il corpo. Indi sparisce, e va in paradiso. 


È questa la novella del Morto riconoscente, della 
quale sarebbe troppo lungo e forse impossibile 
arrecare tutte le versioni letterarie e popolari. 
Rimandiamo adunque per maggiori notizie ai libri 
del SiMROCcK, Der gute Gerhard und die dankbaren 
Todten (Bonn, 1856) e Die Quellen d. Shakespeare, 
Bonn, 1870, vol. II, p. 238; alle giunte e osserva- 
zioni del K6HLER nella Germania dello PFEIFFER 
(III, 199, XII, 55), nell’ Orient wu. Occ. (II, 322), nelle 
Sicilian. March. (11, 248) e meglio e più compiuta- 
mente in Kleinere Schriften, cit. pp. 5-6, 32; del 
LieBRECHT negli Heidelberg. Jahrb. d. literat. (1868, 
n. 29), dello ScHIEFNER nell’Orient u. Occ. (II, 174) e 
del BenFEY, Pantschat. (I, 219). Solo alle versioni 
popolari ricordate più specialmente dal KGHLER nelle 
note alle Novelle siciliane, aggiungeremo la men- 
zione di alcune altre, per dare idea della grande diffu- 
sione di questo motivo. Se ne ricorda una versione 
australasiana, una berbera, una greca (v. R. BASSET, 
Un recueil de contes de l’Austral., in Rev. d. trad. 
pop. XX, 7); una slava ce la dà L. LeGER, in Rac. 
d. contes pop. slaves, Paris, Leroux, 1882, p. 119, e 
un’ altra, dove il motivo tradizionale è alquanto 
alterato, è in X. MARMIER, C. pop. de diff. pays, cit. 
p. 43. Della Francia ce ne danno varianli: J. F. 
BLADE, C. pop. de la Gascogne, Paris, Maison- 
neuve, 1886, II, 69; F. M. Luzet, C. pop. de Basse- 
Bretagne, cit. I, 403 e II, 180; Lég. chretiennes de 
la Basse-Bretagne, I, 76 e 90, II 40 e seg., 57; 
SÉBILLOT, C. pop. de Haute-Bretagne, Paris, Char- 
pentier, 1880, nov. 1; E. Cosquin, C. pop. de Lor- 
raine ecc. I, 214, che fornisce altre indicazioni 
importanti. L’episodio del morto riconoscente tro- 


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158 


LE FONTI 


vasi anche nel Richars li Biaus, romanzo francese 
del secolo XIII, analizzato da C. Casati (Paris, 
Franck, 1868, p. 27). Ricordiamo inoltre una ver- 
sione islandese (H. Gorina, Islendak Aeventyri, 
Halle, 1884, vol. II, pp. 6-7), una catalana nei 
Quentos populars catalans collecion. por F. MASPONS 
y LaBRÒS, (Il, p. 34, Barcellona, Verdaguer, 1872); 
quella delle Novelline popolari rovignesi dell’ Ive 
(Vienna, Holzhausen, 1877, p. 19) ove sono degne 
di osservazione le dotte illustrazioni dell’ editore; 
una abruzzese in A. De Nino (Ust e costumi abruz. 
cit. III, 309), e una toscana di G. NERuUCCI, (Arch. 
d. trad. pop. III, p. 378). In italiano abbiamo questa 
novella con maggiori o minori differenze e modi- 
ficazioni, nello STRAPAROLA (Nott. XI, nov. 2); 
(v. G. Rua, Intorno alle Piacevoli Notti ecc. in 
Giorn. Stor. d. letter. ital., XVI, pp. 272-74), e nel 
poemetto popolare: Istoria bellissima di Stellante 
e Costantina figliuola del gran Turco, la quale fu 
rubata da certi cristiani che teneva in corte suo 
padre e fu venduta a un mercante di Vincenza 
presso Salerno, con molti intervalli e successi, com- 
posta da GiovANNI Orazio BRUNETTO. Il poemetto 
popolare diede anche argomento ad una commedia 
del teatro torinese di marionette dei fratelli Lupi 
(v. P. ToLpo, Nella baracca dei burattini, in Giorn. 
Stor. della letter. ital., LI, 33-34). 

Altre notizie sulla leggenda del morto ricono- 
scente 8° avranno, infine, dagli studj seguenti: 
M. Hippe, Untersuch. 2. d. mittelengl. Romanze von 
Sir Adamas, in Arch. fir das Studium d. Neuren 
Sprachen und Litter. LXXXI, (1888), pp. 141-182; 
G. HuetT, Le conte du mort reconnaissant et une 
coutume de l’ Ile de Timor, in Revue d. trad. pop. 
XXIV, 305; G. HacL GeRrouLD, The gratefull Dead, 
London, 1908. 


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DEL « NOVELLINO » 159 


L’ origine del racconto non è ben determinata. 
Il Benrey inclina ad ammettere una origine orien- 
tale, notando che alcuni particolari rinvengonsi 
in racconti indiani, ed opinando che la versione 
russa possa esser l’ anello di congiunzione e di 
trapasso dall’ Asia all’ Europa. Invece il SimRocK 
crede che la patria e la vera sede del racconto sia 
la Germania, e risolutamente lo connette colla 
mitologia tedesca (Deutsch. Mythol., p. 478). Il 
prof. COMPARETTI (Prefazione alla Novella di Messer 
Dianese, ecc., Pisa, Nistri, 1868) opina che l’idea 
fondamentale del morto riconoscente trovisi già in 
un passo di CicERoNE, De divin. (I, 27, cfr. VAL. 
Mass., I, 7, 3), citato anche da altri (German., 
III, 209). Il Renan, a proposito della versione giu- 
daica ch’ è nel libro di Tobia, mostrò credere ad 
un’ origine babilonese della leggenda (v. L’ Église 
chrétienne, Paris, Calman-Lévy, 1879, p. 560). 


NOVELLA XKXII. 


La moglie di un cieco, geloso tanto che da 
quella mai non si partiva, dà la posta all’amico 
sopra un albero di pere. Al marito che è rimasto 
sotto, stringendo il pedale perchè altri non vi 
monti, cadono addosso le pere, e chiestone ragione 
alla donna, ella gli risponde che non v’è altro 
modo per coglierle. San Pietro, che vede dal cielo 
lo scorno e la beffa del povero marito, chiede a 
Dio che a questo sia resa la vista. Alle parole 
irose del marito, la donna risponde che s’ella non 
avesse fatto così, egli non avrebbe mai più veduto 
lume, e quegli ne rimane lieto e contento. 

La novella trovasi tale quale nelle Latin Storîes 

del WRIGHT (nov. 78) e tra le favole metriche di 


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160 LE FONTI 


ApoLrus (in Append. alle Lat., Stor., p. 174, e in 
LevsER, Histor. poetar. med. aev., p. 2008). In 
tedesco, secondo avverte il KòBLER nei Gétt. gel. 
Ane. (1869, p. 774), trovasi anche nel KELLER, 
ErzaAhlung. aus altdeutsch. Handschriften (p. 298), 
e fu imitata da WieLAND (Oberon, VI, 80 e seg.). 
Un'altra versione vedi in XPYIITAAIA, recueil de 
docum. pour servir è l’étude des tradit. popul., 
Heilbronn, Henningen, 1883, vol. I, p. 65 e seg.; 
e per altre v. Mélusine, IV, 277. Rammenta, solo 
in parte, la nota novella dell’ albero delle pere del 
Decamerone (VII, 9), che trovasi già nel Bahar 
Denusch (ed. Scott., II, 64), e che tu imitata da 
CHauUCcER, The Marchantes Tale, in Canterb. Tales, 
vv. 9089 (vedila analizzata in PkccHIO, Sf. critica 
della poes. inglese, Lugano, Ruggia, 1833, II, 197), 
da Pope (January and May), e dal LAFONTAINE 
(La gageure des trois comméères, II, 7). 


NOVELLA XXIII. 


Quattro figli di un Re vanno a cercar loro ven- 
tura. Il primo va a Parigi e vi apprende tutte le 
scienze: il secondo in Cicilia e vi diviene balestriere: 
il terzo in Catalogna e v’ impara ad esser ladro: 
il quarto a Genova e diventa esperto in far navi. 
Tornati a casa, vanno tutti e quattro a liberare 
una donzella e ad acquistare un gran tesoro custo- 
dito in una isola da un drago, e menano a buon 
fine l'impresa. 

La novella è qua e là mutila, e manca della 
fine, nella quale si dovrebbe disputare chi abbia 


avuto maggior parte alla liberazione della fanciulla, 
e meriti averla per sua insieme col tesoro. 


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DEL « NOVELLINO » 161 


Il racconto trovasi nel Vetalapangavinsati 
(I venticinque racconti del vampiro). Se ne veda 
la versione in Rev. d. trad. popul., I, 370 e in 
Arch. a. trad. pop., XI, 27; si cfr. la versione di 
G. Grion, in Giorn. St. d. lett. It., XIX, 454, e 
v. E. PAvOLINI, Appunti di novellistica indiana, in 
Giorn. Soc. Astat., XII, 161. Si trova anche nel 
Tàti-NAméh (nov. IV del Pappagallo), e nel Siddikùr 
(nov. I, ed. Jiilg, Leipzig, 1867). Lo stesso motivo, 
alquanto variato e con esito diverso, si ha nella 
novella delle Mille e una notte intitolata Storia di 
Achmed e della fata Peiri-Barun (ed. Loiseleur, 
p. 610-41), nel libro persiano il Trono incantato 
(v. Le Tròne enchanté, ecc., par Lescallier, New- 
York, Desnoues, 1817, I, p. 193 e seg.); in un rac- 
conto caldeo (Rev. d. trad. pop., XXIII, 331), e 
altrove con maggiori o minori differenze (vedi 
BeNFEY, Pantsch., I, $ 104 e DECOURDEMANCHE, Notes 
sur le livre de Sendebad, in Rev. d. trad. pop., XIV, 
405. Per le versioni popolari tedesche, ungheresi, 
russe, e perfino dei Negri del Madagascar, vedi oltre 
che in Grimm, annotaz. al numero 129 (III, 212), 
SCHNELLER, March. aus Wdlschtir. (n.° 14), e in 
WeESsSsELOSFKY, Il Paradiso degli Alberti (Bologna, 
Romagnoli, 1867, vol, I, part. II, p. 238 e segg.) 
Vi è anche una versione malese riferita dal BASSET 
(Rev. d. trad. pop., XX, 6) e una araba, dal mede- 
simo (ib., XV, 114); una greca di Lesbo (LE PinEAU, 
C. pop. de l’île de Lesbos, in Rev. d. trad. pop., 
XII, 202), una dell’ Asia Minore (CARNOY ET Nico- 
LAÎDES, Trad. pop. de Vl Asie Mineure, Paris, Mai- 
sonneuve, 1889, p. 57 e La Tradition, V, 326); una 
albanese (Dozon, C. alban., Paris, Leroux, 1881), 
oltre due slave (X. MARMIER, op. cît., I, p. 23 e 
A. REMBAUD, La Russie épique, Paris, 1876, p. 414); 
una estonica (MARMIER, op. cît., p. 264), una della 


D’ Ancona - II 11 


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162 LE FONTI 


Bassa-Bretagna (F. M. Luzac, C. pop., cit., III, 312), 
una inglese (Rivista Europea, N. 5, anno IX, 
Firenze, 1878, p. 505). Trovasi anche nel Penta- 
merone (giorn. V, tratt. 7), e nello STRAPAROLA 
(Nott. VII, fav. V), nonchè nel Mortino (n.° 80, 
Paris, Jannet, p. 155). V’ è relazione fra la nostra 
novella ed una delle questioni d’ amore del Filocolo 
(v. P. RAJNA, L'episodio della questione d’amore 
nel Filocolo del Boccaccio, in Romania, XXXI, p. 58 
e seg.). Una redazione popolare italiana fu pubbli- 
cata nel Jahkrb. f. rom. liter. (VII, 30-36); un’altra 
siciliana è nella raccolta della GONZENBACH (n.° 45), 
e pure in quella del PirrÈ, vol. I, p. 197; e una 
toscana: i tre regali o la Novella de’ tappeti, nelle 
Novelle Montalesi del NeRUCCI, n.° XL. 


NOVELLA XXVII. 


Un imperatore scorgendo somiglianza fra sè e 
un pellegrino, domanda a costui se sua madre fu 
mai in Roma. L’altro gli risponde che non la 
madre, ma il padre suo fu in Roma spesse volte. 


Trovasi già, secondo avverte l’ OestERLEy (nota 
al n.° 502 del PauLi), in Prinio (7, 12, 10, $ 55), 
SoLino (I, 83), VAL. Massimo (9, 14, 3), MacRroB., 
Saturn. (1, 4, 21), ecc. È anche negli Exempla 
vagabunda di frate Bono DEGLI STOPPANI (in Studi 
Mediev., II, 200) e si trova nei Contes di BonAVvEN- 
TURE DES PeRIERS (ed. P. L. Jacob, Paris, Garnier, 
8. a., p. 57), il quale però, evidentemente, trae il 
motto da Valerio Massimo o da Macrobio. Altri 
autori cita il LieBRECHT nei Gòotting. gel. Anz. (1872, 
stéick 17) in un art. sopra le Novelle untiche del 
PapPANTI. Il BaLLADORO riferisce un motto uguale 
al nostro, raccolto in Verona, e che sarebbe stato 


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DEL « NOVELLINO » 163 


detto da un gondoliere veneziano all’ Imperatore 
d’Austria (Folk-lore veronese, Novelline, cit., p. 125). 


NOVELLA XXXI. 


Un pellegrino commette un delitto ed è perciò 
condannato o a pagare mille lire o a perder gli 
occhi. Non avendo di che pagare, è condotto ben- 
dato, alla giustizia. Per via lo vede una donna 
ricca ma brutta, e si offre a pagar per lui, purchè 
la sposi. Quando gli è tolta la benda, vista la 
brutta donna che doveva sposare, comincia a gri- 
dare: Ribende, ribende, che meglio è non veder 
mai, che veder sempre cosa che gli spiaccia. Il 
Signore della terra, saputa la cosa, lo lascia 
libero. 

Cfr. colla fav. 69, lib. IV, dell’Esopus di WALDIS. 

In nota, il Kurz (p. 70) rimanda fra gli altri a 

Hans Sacgs (IV, 3, 13, cfr. con PAULI, Anhang. 

n.° 4), ma il paragone non ci sembra esatto. Nei 

Proverbj di Cintio DEI FABRIZI (n.° 37), si trova 

narrato l’ identico fatto, col motto di: Rebdbindemini 

(v. V. IMBRIANI, Rebindemini di Aloise Cinzio delli 

Fabrigi, ediz. di CL esempl., Napoli, Morano, 1886, 

e G. RuA, Intorno al « Libro della origine di vol- 

gari proverbi » di A. C. det Fabrizi, in Giorn. Stor. 

d. lett. it., XVIII, p. 95). Il prof. LEMGKE, (Cintio 

dei Fabrizi, in Jahrbuch. f. roman. Literat., I, 318) 

darebbe alla novella e alia parola una origine 

arabica: a noi pare che questa venga senz’ altro da 
benda, bendare. Il LiEBRECAT nei Gòott. gel. Aneeig. 

(1872, stéch 17) riferisce in questo proposito un 

passo del Zeloso di Don ALPonso Uz pe VELASCO. 


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Original from 


UNIVERSITY OF IOWA 


V. 


LA LEGGENDA DI MAOMETTO 
IN OCCIDENTE 


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Dagli Atti dell’ Accad. dei Lincei serie IV, vol. IV, p. 111-267 (1888) 
e dal Giorn. Storico della Lett. Ital., XIII (1889), p. 199 e segg., 
con aggiunte. 


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I. 


Nell’ antico rifacimento in versi italiani del 
Tesoro di Brunetto Latini, * che probabilmente 
appartiene alla fine del XIII secolo, sotto brevità 
ma pur facendo una aggiunta al testo, si accenna 
per tal modo alle favole che corsero in Occidente 
fra le genti cristiane intorno al fondatore del- 
l’ Islamismo: 


(159 r°) Poi li mise in errore Machumitto; 
Ò udito dire che fue monaco e cardinale, 
Che lui lasciò Eradio che dovesse predicare. 
Era di vita et di spirito tanto, 
Che Cristiani et Pagani l’adoravano per santo, 
Et Pelagio era il suo nome; 
Della casa della Colonna di Roma fue sua natione. 


Ma il secondo versificatore del Tesoro, che com- 
pose l’opera sua nel 1310, maggiormente, com’ è 
suo costume, si diffonde sulla vita e i fatti del 
Profeta, e così ne discorre: 


(149 vo) Ò trovato e udito novellare 
Ch’ Eradio lasciò oltre mare 
Uno de’ Cardinali, romano, 
Che predicasse [al popolo ?] cristiano, 


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168 


LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


Ch'avea nome Pelasgio, 

Monacho de la badia di San Damagio. 
In quel tempo, come piacque a Dio, 

EI Papa ch’era allora si morio; 

Pelagio adomandò a’ chardinali il papato, 
E perchè lo domandò, nolli fue dato: 
Chè l’averebbe avuto, 

Sì era a’ chardinali il fatto suo piaciuto; 
E perciò, siccome gran dottore, 

Rimase tutta quella gente in errore, 

E avevavi adoperato tanto 

Tutta la gente l’adorava per santo. 

Egli era in ongni scientia perfelto, 

E impuosefnjli nome Malchonmetto 2: 

È a dire, in eloquio romano: 

Messo dell’alto Dio Sovrano. 3 

Ora un giorno ch’eran grandi le biade, 
Pelagio chavalcava per le contrade 

Con molta gente a sua compagnia. 

Or avenne a una incrociata di via 

Fecie ristare la gente, 

E esso s’andò a purgare il ventre. 
Nella ritornata molto piacente 4 

(Che ivi fossono, Pelagio nol sapea) 

I porci li dierono addosso 

E tutto lo ’nfransono la charne e Il’osso. 
Et ebbe tardi il socorso, 

Chè una troia li diede di morso, 

E gli altri porci l’aveano sì conchulchato 
Che poco meno n°era ito il fiato. 

Ma si aveva perduta la favella; 

Per lo morso gli uscivano $ le ciervella. 
Ma innanzi che morisse, 

Tutto acorto disse, 

Che ’1 batesimo avea [ch'] è lucerna 9 

D’ andare al rengno di vita eterna; 

E perciò quelli che sono di quella corte 
Quando s’ aprosimano a la morte 

Si fanno battezare, 


E credonsi per quello cotale batesimo salvare; 


E perchè i porci Maometto attoiro 


E ’n loro ydioma avea nome il porco siro, 7 


Statuirono et ordinarono comunemente 
Che d’ indi innanzi niuno di loro gente 
Non manduchi della carne del ziro; 

E chi lla manicasse, stabiliro 


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IN OCCIDENTE 169 


Che, sicome traditore e testimonio falso, 
Che sanza rimedio dovesse essere arso. 

El corpo suo in Baldacha è tumulato 

In uno avello di pietra et di ferro lavorato 
Sotto uno avorio molto adorno; 

Quattro colonne il sostengono intorno, 
Che à dentro nel colmo della giuntura 
Una pietra di chalamita pura, 

Che vi sta come gemma in uno anello, 
Che tiene inn’ aria quello avello. 


Qui dunque troviamo, compendiata tuttavia e 
mozza, anche nel secondo rifacimento, che pure è 
più diffuso, la leggenda occidentale sopra Mao- 
metto; intorno alla quale giustamente osservava il 
Renan, che una curiosa storia da farsi sarebbe 
questa appunto, del concetto che si fecero e lun- 
gamente mantennero le popolazioni cristiane sul 
fondatore dell’islamismo, sino al giorno in che 
la critica storica n’ ebbe pienamente illustrata la 
vita. * Noi, sperando ch’ altri più dotto nella mate- 
ria e più esperto delle fonti a cui attingere, tratti 
a fondo quest’ argomento, dell’ ampia e complicata 
leggenda toccheremo almeno due punti, menzionati 
nei sopra riferiti testi: l’anteriore cristianità di 
Maometto e il modo della sua morte. 

Facendo morire il profeta sbranato dai porci, 
la tradizione europea e cristiana non seguiva nè 
trasformava nessuna relazione scritta od orale che 
venisse dall’ Oriente, essendo concordi gli scrittori 
musulmani nel narrare che Maometto perisse di 
veleno; ma obbediva per tal modo ad un istinto 
di avversione contro il fondatore dell’ islamismo. 
Per quel ch’ è, invece, dell’ anteriore cristianità 
di Maometto, concorrevano a farla comunemente 
ammettere e il niodo di sentire dei tempi e le tra- 


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- a — r — 


170 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


dizioni, non disformi in tutto dal vero, che dal- 
l’ Oriente giungevano alle popolazioni occidentali. 
Le genti cristiane del medio evo non considerarono, 
nè potevano considerare l’Islamismo altrimenti che 
come una eresia, uno scisma; non videro nè pote- 
vano vedervi una religione nuova, che, venendo 
dopo il Giudaismo ed il Cristianesimo, doveva 
necessariamente tenere, come realmente tenne, del- 
l’ uno e dell’ altro. Secondo la comune credenza, 
il Cristianesimo, unica religione di verità, era a 
suo tempo comparso nel mondo in adempimento 
d’immancabili promesse, come fede comune del 
genere umano; e a suo tempo avrebbe trionfato 
degli ultimi recalcitranti, che, non contando i 
pochi pervicaci giudei, raccoglievansi nella gene- 
rale denominazione d’ idolatri o pagani. Non essen- 
dovi perciò omai più che una religione, ogni novità 
di credenza diveniva necessariamente scissione 
dell’ unità cristiana, prodotta, come qualsivoglia 
eresia, dall’ orgoglio o da ignobili passioni, ad 
istigazione del diavolo, perpetuo nemico dell’uomo. 
L’islamismo adunque alle menti degli uomini del- 
l’età di mezzo dovette naturalmente sembrare una 
delle tante aberrazioni dalla verità predicata da 
Cristo: uno dei tanti scismi che, già anche prima, 
aveano lacerato l’ inconsutile veste: un episodio 
della guerra continua del re delle tenebre contro 
la vera fede introdotta da Cristo nel mondo: e 
i seguaci di Maometto, « haeresiarca potentior 
Arrio®», apparire come eretici e null’ altro. !° 

Se non che, se tale era il concetto che del mao- 
mettismo si formavano, e non potevano non for- 
marsi, quelle antiche generazioni, ** vi erano anche 


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IN OCCIDENTE 171 


autorevoli e diffuse tradizioni, provenienti dai cre- 
denti stessi in Maometto, le quali confortavano 
siffatta opinione. Secondo tali racconti, un seguace 
di Cristo, un eremita avrebbe profetato l’ opera di 
Maometto; non molto ci voleva poi, perchè colui 
diventasse iniziatore e maestro: e, via via proce- 
dendo, e talvolta i due personaggi confondendosi 
in uno, l’eremita salisse a patriarca, e il patriarca 
a cardinale; anzi, poco gli dovesse mancare per 
divenir Papa. Attratto dalla fiaba volgare in seno 
al cristianesimo, Maometto «doveva avere, come 
tutti gli eretici che lo precedettero, un luogo emi- 
nente nella gerarchia. Ma l’origine e il punto di 
partenza di queste favole cristiane è nella tradi- 
zione musulmana, se non nella storia: e noi vo- 
gliamo appunto mostrare il nesso fra la leggenda 
occidentale e l’ orientale, e seguire poi il naturale 
incremento ed ampliamento di quella fra le plebi 
europee nell’ età di mezzo. 


ll. 


Gli agiografi musulmani già di buon’ora intro- 
ducono nella vita del loro legislatore un monaco ?* 
cristiano; e denominandolo più generalmente 
Bohayra o Bahîrà,! o anche, come vedremo, 
Sergio, ne fanno un prenunziatore del profeta. Si 
sa che la tradizione musulmana è feracissima di 
racconti (hadit) intorno a Maometto ; Bokhari, che 
visse nel secondo secolo dall’ Egira, ne conosceva 
dugentomila, ma ne raccoglieva solo settemiladu- 
gentoventicinque, da lui tenuti per sinceri. Fra 


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172 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


questi può mettersi, e non è rifiutata da parecchi 
biografi del profeta, !* la tradizione dell’ incontro 
di Maometto con Bohayra o Bahîrà. Noi qui la 
riferiamo nella forma in che sì trova in Ibn-Hi$àm, 
editore, come noi diremmo, della Vita del profeta 
(Sirît ar rastl) di Ibn-Ishàq (m. 768): e la tra- 
duzione del testo arabo ci fu fornita dalla cortesia 
del dotto amico Michele Amari. 

Raccontato come Maometto fanciullo partì per 
la Siria col suo zio e tutore Abù Talib, in una 
carovana di mercatanti, Ibn Ishàg segue in questo 
tenore : « Fermossi la carovana a Busra in Siria, 
» ad un monastero, nel quale vivea un monaco 
per nome Babhîrà (o Bohayra): uom dotto nella 
scienza cristiana: chè ab immemorabili non era 
mai mancato in quel monastero un monaco, che 
possedesse la loro scienza, cavata, a quanto 
dicono, da un libro, che passava in eredità da 
superiore a superiore. Spesso la carovana erasi 
fermata in quel monastero, e Bahîrà non aveva 
detto una parola a’ mercatanti, nè era andato 
loro incontro. Ma quest’ anno, com’ei li vide 
adagiare presso il suo monastero, imbandì loro 
un gran desinare. Si crede ch’ei l’abbia fatto 
per qualche segno che vide; e dicono ch’ egli 
dal monastero si accorse di una nuvola che 
facea ombra al Profeta, a lui solo fra tutta la 
carovana: e che, ferma che fu la carovana, e 
messasi sotto un albero, i rami di esso si acco- 
stavano l’ uno all’ altro per far ombra sul posto 
dove sedeva il Profeta. Bahîrà allora mandò loro 
a dire: Io v’ ho imbandito questo desinare, o 
signori Coreisciti, e voglio che tutti vi prendiate 


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IN OCCIDENTE 173 


parte, giovani e vecchi, schiavi e liberi. Come 
va, gli disse uno di loro, o Bahîrà, che oggi tu 
pensi a questo e non l’ hai fatto mai le tante 
volte che siam venuti qui? che pensi tu oggi? 
Hai ragione, rispose il monaco: ma oggi siete 
ospiti miei, e io bramo di farvi onore. Mangiate 
dunque tutti quanti. Allora si messero tutti a 
desinare, lasciando il Profeta là dov'era: e ciò 
per la sua fanciullezza, sicch’ egli rimase sotto 
l’ albero co’ cammelli. Ma Bahîrà non vedendo in 
alcuno de’ convitati i segni a’ quali avea rico- 
nosciuto il Profeta, O signori Coreisciti, ripigliò, 
non va lasciato fuori dalla mia mensa niuno 
della brigata. Risposero: Non manca nessuno 
che possa presentarsi a te; soltanto un ragazzo, 
il più piccino, e però l’ abbiam lascialo in 
disparte. Oh no, disse Bahîrà, chiamatelo, chia- 
matelo, e ch’ei segga a mensa con noi. E un 
coreiscita aggiunse : Sì per, Allat o per ’Ozzah !° 
sarebbe male di lasciare in disparte il figliuolo 
di ‘Abd Allah ib Abd’ al Muttalib. É si volse a 
lui, lo prese in braccio e lo fe’ sedere cogli altri. 
Bahîrà si messe fitto a guardarlo, e riconobbe 
nella sua persona alcuni segni, che egli aveva 
trovati nella descrizione del Profeta. D’onde, 
fornito il desinare e andati i commensali chi 
qua e chi là, Bahîrà [preso in disparte il Pro- 
feta] gli disse: O giovane per Allat e per ’Ozzah, 
io ti chieggo che tu risponda alle mie domande. 
Ei disse così, perchè aveva sentita la gente della 
carovana giurare a quel modo. Or v° ha chi rac- 
conta che il Profeta rispose a Bahîrà: Non mi 
scongiurare per Allah e per’Ozzah, ma per Allah: 


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174 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


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io non ho mai profanato [Iddio] con codesti due 
nomi. Allora rispose Bahîrà, rispondimi per Allah! 
Ebbene, disse Maometto, dimanda pure. Lo inter- 
rogò circa alcuni fenomeni che gli avvenissero 
nel sonno, e delle immagini che gli si presen- 
tassero in mente, e d’ogni sua cosa, e Maometto 
gli raccontò tutto, in guisa che Bahîrà si accertò 
della identità sua e alfine guardatogli il dorso, 
vi scoprì il suggello della profezia nel mezzo 
delle spalle. — Annota qui Ibn-Higàm che somi- 
gliava alla cicatrice d’ una coppetta. — Ripiglia 
Ibn Ishàq che Babhîrà, voltosi ad Abù Talib, gli 
domandò se quello fosse suo figliuolo, e rispo- 
stogli di sì, replicò: Non può essere: questo fan- 
ciullo non può avere padre vivente. Invero, disse 
AbA Talib, egli è figlio di un mio fratello. — 
E del padre che n’ è? — Morì lasciando la vedova 
incinta di questo bambino — È il vero, disse allora 
Bahîrà. Fa di ritornare con lui al suo paese e 
guardalo da’ Giudei, chè, per Dio, se lo vedes- 
sero e sapessero di lui quel che so io, lo fareb- 
bero capitar male. Questo ragazzo avrà allo 
stato! Fa presto a ricondurlo al suo paese. E 
Abà Talib, fornite le sue faccende, ritornò presto 
alla Mecca. Secondo alcune tradizioni, si sup- 
pone che Zurair, Tammam e Darîs, kitabii 
(uomini del libro, cioè Giudei, Cristiani 0 Sabii), 
avessero visto in quel viaggio gli stessi segni 
che Bahîrà, e che fossero andati presso costui, 
ma che ei li abbia allontanati da Maometto, 
ricordando loro i comandamenti di Dio, e i segni 
che apparivano in Maometto. Dicesi ancora, che 
quei tre, andati presso Bahîrà, non rimasero 


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IN OCCIDENTE 175 


» soddisfatti se non quando loro ebbe detta ogni 
» cosa, e che allora si persuasero che fosse vero il 
» suo giudizio, e andaron via ». 

Così Ibn Ishàq nell’ottavo secolo ci parla di 
Bahîrà ; !” e quasi colle stesse sue parole la tradi- 
zione si ritrova due secoli dopo negli Annali del 
più illustre storiografo arabo, il Tabarî (m. 923). 1° 
Ma uscita dai confini dell’ Arabia, noi la vediamo 
ben presto giungere e in Siria e in Mesopotamia: 
paesi in più stretle e continue relazioni con Bisan- 
zio, e perciò ottime e dirette vie alla propagazione 
di questa leggenda fra le genti cristiane. 

La versione siriaca potrebbe, se non erriamo, 
esser rappresentata da due testi in cotesto idioma, 
che si conservano nella collezione Sachau della 
biblioteca di Berlino, e che furono fatti recente- 
mente conoscere dal dott. Riccardo J. H. Gottheil 
di New-York.® Ambedue trovansi in copia mo- 
derna, ma evidentemente sono assai antichi, e i 
fatti menzionati nell’ uno di essi ci porterebbero 
al nono secolo, ai tempi cioè di Hàrun ar-Ragid. 
L’un d’ essi direbbesi di mano di un nestoriano, 
l’allro di un jacobita; ma il racconto parrebbe 
sostanzialmente appartenere, o per lo meno ver- 
rebbe appropriato a un Yesu‘yab: forse quel Yesu 
‘yab di Gadala che visse nel secolo settimo. °° La 
versione jacobita è così intitolata: « Scrivo la 
» storia di Rabbàan Sargis, che è chiamato il Sara- 
» ceno, Bahîrà, e il Siro. Lo chiamano odiatore 
» della croce, monaco che vive sul monte Sinai, 
» e la storia di come insegnò a Maometto. Amen ». 
Il succo del racconto è questo. Cacciato dalla sua 
chiesa, per certe sue speciali opinioni sulla croce, 


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176 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


Yesu‘yab va in Yatrib (Medina) dove trova Bahîrà 
(Sargîs), vecchissimo, che da oltre quarant’anni 
non aveva veduto cristiani, e che è grandemente 
lieto della sua venuta. Dopo sette giorni il vec- 
chio muore, e un discepolo di lui, di nome Hakim, 
gli racconta le relazioni del monaco col Profeta. 
Dalla sua cella Sergio un giorno avea visto Mao- 
metto in una carovana, con un nembo di luce 
intorno al capo. Sergio gli predice la sua futura 
grandezza di riformatore religioso e gli inculca 
di dire che ricevette la sua dottrina dall’ angelo 
Gabriele. Gli promette inoltre un libro, ch’ egli 
dovrà altaccare alle corna d’ una vacca: ?” rac- 
colto poi il popolo, dirà aver ricevuto quel libro 
dal cielo. 

La stessa immedesimazione di Bahîrà con Ser- 
gio ?* troviamo in uno scrittore insigne del decimo 
secolo, cioè in Masùdi (900-956) di Bagdad. « Uno 
» dei personaggi, così egli scrive, del fitrah (inter- 
» vallo), fu, infine, Bohayrà il monaco. Era egli un 
cristiano zelante, il cui nome nei libri cristiani 
è Serdjes, ?° e discendeva da Abd-el-Kais. * 
Quando il Profeta, in età di dodici anni, si recò 
in Siria per faccende di commercio collo zio Abù 
Talib, accompagnato da Abù-bekr e da Bela], 
passarono innanzi la cella dove Bohayrà viveva. 
Questi riconobbe il Profeta ai suoi lineamenti e 
a certi segni particolari, quali i suoi libri gli 
avevano rivelato, e scorse una nube, che cir- 
condavalo quand’ei posava. Fece scendere i viag- 
giatori, li ricevè con onore, e preparò loro un 
pasto. Uscì dalla sua cella per riconoscere il 
suggello della profezia fra le spalle del Profeta; 


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IN OCCIDENTE 177 


» pose la mano su cotesto segno e credette alla 
» missione di lui. Rivelò poi a Abà-bekr e a Belàl 
» ciò che doveva accadere a Maometto, che pregò 
» di rinunziare al viaggio mettendo in guardia i 
» suoi parenti contro le insidie dei Giudei e dei 
» Cristiani. Abù Talib, lo zio del Profeta, avvi- 
» sato di siffatti pericoli, ricondusse indietro il 
» nipote ». 35 


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Cosiffatta è nella sua prima e più semplice 
forma la leggenda che l’ Oriente ?*° musulmano 
trasmetteva all’Occidente cristiano, e che questo 
avrebbe lentamente, ma costantemente trasfor- 
mata. In essa abbiamo un eremita, un asceta, 
cristiano ?” ma eretico, e probabilmente, secondo 
la condizione de’ tempi e de’ luoghi, seguace di 
Nestorio, che prevede la futura grandezza del gio- 
vane coreiscita. Se non che, preannunziando egli 
la missione religiosa di Maometto, non vi prende 
parte alcuna: resta un disinteressato precursore, 
un mero privilegiato veggente. Già però nel testo 
siriaco, che è evidente scrittura di un settario cri- 
stiano, ei comincia a diventare, oltrechè prenun- 
ziatore, cooperatore del Profeta. 

Ma a poco a poco, anche presso alcuni scrit- 
tori musulmani noi vediamo attribuita maggior 
importanza a Bahîrà. Narrano essi di un secondo 
viaggio di Maometto in Siria fatto in età più 
adulta, e quand’egli era già ai servig) di Cadiga 
(Hadîgah), la quale, fidando nella onestà e nella 


D’ Ancona - II 12 


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178 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


prudenza di lui, gli aveva affidato una quantità 
di merci da trafficare, e datogli per compagno 
Maysarah. Quando da costui ella seppe che due 
angeli proteggevano il capo di Maometto dai raggi 
del sole, ** e ebbe veduto i vantaggi che il servo 
le aveva procurato nel mercatare, deliberò sen- 
z’altro di sceglierlo a marito. Ora, secondo tali 
scrittori, in questo secondo viaggio in Siria, Mao- 
metto, non più bambino ma uomo, si sarebbe 
imbattuto in Bahîrà : ?° e questi, dolente di vederlo 
prestar culto agli idoli, gli avrebbe comunicato 
la cognizione del vero Dio, e letto, inoltre, passi 
della legge, dei Salmi, degli Evangeli. *° Altra men- 
zione di Bahîrà si trova presso alcuni commenta- 
tori del Corano, nel luogo dove si parla di ottanta 
uomini che accorsero in Medina al profeta, quan- 
d’ egli già aveva cominciato la sua predicazione: 
fra quelli, e in mezzo a un maggior nucleo di 
abissini, vi sarebbe stato il rahîb Bahîrà con altri 
sette sir), fra i quali Zurair, Tammam e Darîs. ® 

Di queste tradizioni musulmane intorno a Babhîrà 
passò in Occidente or la prima forma soltanto, or la 
seconda : or quella cioè che lo dava per un semplice 
veggente, or l’ altra che lo dipingeva come maestro 
ed ispiratore di Maometto. E in quest’ultimo caso, 
Bahîrà diventa il più spesso Sergio monaco ere- 
tico, che qualche autore arabo, come Ibn‘Sad *? 
chiama Nestorio, quasi personificando in lui la setta 
eretica cui apparteneva; e noi già abbiam visto che 
l’autore del libro siriaco e Masùdi conoscevano 
l’ identità dei due personaggi di Bahîrà e Sergio, ** 
e Masîdi cita gli autori cristiani che ricordavano 
Sergio. Già dunque dal decimo secolo la leggenda 


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IN OCCIDENTE 179 


di Bahîrà erasi largamente diffusa fuori dei paesi 
musulmani. Non però essa sola; ma insieme con 
essa anche quella che gli scrittori musulmani 
raccontavano intorno ad un altro asceta arabo: 
Varaka. 
Varaka (Waragah), figlio di Naufal, era uomo 
pieno dello spirito di Dio e desideroso di profes- 
sarne il vero culto : scandalizzato perciò dell’ ado- 
razione prestata agli idoli ed alla pietra nera della 
Mecca. Già prima che Maometto principiasse la sua 
predicazione, egli aveva avuto un colloquio con 
alcuni amici, animati del suo stesso spirito, Otman, 
Obaydallah e Zayd, per provvedere insieme a toglier 
via l’errore e ricondurre gli arabi al vero. Ognun 
d’essi tentò proprie e diverse vie per raggiungere 
quest’ alto fine: di Varaka si assevera che cono- 
scesse l’ ebraico, leggesse assiduamente il Vecchio 
e il Nuovo Testamento, finisse col farsi seguace del 
Vangelo, traducendone parte in arabo. Quan- 
tunque più o meno cristianizzato, aveva ferma fede 
che ben presto dal seno stesso della sua gente 
dovesse sorgere un nuovo profeta. A lui, grave 
ormai d’anni e ricco di senno, ebbe ricorso Cadiga 
per sapere il vero circa le visioni che da qualche 
tempo agitavano Maometto, e nelle quali egli diceva 
mostrarglisi l’ angelo Gabriele. Dei dubbj che tene- 
vano così sospeso Maometto, tanto da credere alcuna 
volta di esser posseduto da maligni spiriti, sola 
Cadiga era partecipe: e mentre il profeta si ritirava 
sul monte Hira, cercando nella solitudine e nel 
silenzio di conoscere il vero su sè stesso, la fida 
moglie andava in persona ** ad interrogare nel suo 
recesso Varaka, che era cugino suo. Il solitario la 


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180 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


rassicurava, e le confermava che Maometto era 
l’ atteso profeta. 3° 

Così, in sullo stesso nascere dell’ islamismo, al 
punto della vita di Maometto quand’egli era ancora 
inconsapevole dei suoi destini e anche quando poi 
confuse voci lo chiamavano alla sua missione, la 
storia e la tradizione musulmana ponevano due 
solitarj, cristiani o semi-cristiani; l’un de’ quali non 
solo prevede quel che farà Maometto ma, secondo 
alcuni, anche lo ammaestra; e l’ altro, distruggen- 
done i dubbj, lo sospinge per la sua via. Dell’ uno 
e dell’ altro ebbero evidentemente contezza le genti 
occidentali *” spesso anche confondendoli insieme ; 
ma tanto bastava perchè scorgessero in Maometto 
il discepolo di un cristiano eretico, e poi, collo 
svolgersi della leggenda, facessero di Maometto 
stesso un apostata, e dell’Islamismo una corrotta 
diramazione del Cristianesimo. 

Alla leggenda di Varaka si ricollega la più antica 
narrazione che di Maometto e de’ fatli suoi troviamo 
in scrittori non asiatici: vale a dire quella conte- 
nuta nella Chronographia di Teofane bizantino 
(751? - 818). Ecco un sunto di ciò che Teofane scrive. 
Dopo aver raccontato che la morte di Maometto 
è imputabile a dieci Giudei, che in lui avevano 
dapprima scorto il Messia, e che poi vedendo che 
sì cibava di carne vietata di cammello si eran ricre- 
duti, ma erano rimasti presso di lui per far danno 
al cristianesimo, il cronista ripiglia di più addietro 
i fatti del Profeta; e fattane la genealogia, giunge 
alle nozze con Cadiga, proseguendo poi con queste 
parole : « Profectus autem in Palestina, cum Jud®is 
» et Cristianis versabatur, et quedam de sacris 


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IN OCCIDENTE 181 


eorum scriptis venatus est. Porro, cum morbo 
comitiali laboraret, uxor virum eo aliquando cor- 
reptum animadvertens, gravem inde concepit 
dolorem; quod nobilis ipsa tali viro, non solum 
pauperi, sed etiam comitiali infirmitate affecto, 
conjuncta esset. Is autem eam delinire commi- 
niscitur hujusmodi verbi: Angeli cognomento 
Gabrielis visio mihi manifestatur : cujus aspectum 
ipse ferre non valens, mentis deliquium patior, 
et concido. llla, cum ad manum Monachum 
quemdam haberet, ob pravos in fidem sensus 
relegatum, et istic morari consuetum, hominem 
consuluit, cuncta viri secreta denunciavit, ac 
ipsius Angeli nomen. Is, cum mulieri rem plane 
persuasam vellet, dixit ei: Verum enunciavit: 
iste quippe Angelus ad omnes Prophetas desti- 
natur. Ipsa itaque ceteris prior Pseudabbatis 
verbis credula, viro deinceps adhibuit fidem, ac 
inter alias feminas contribules eum Prophetam 
esse disseminavit etc. ».** 

Sulle orme di Teofane procedono nelle loro 
narrazioni Anastasio bibliotecario (— m. prima 
dell’ 886), ** Costantino Porfirogenita (905-959), ‘° 
Cedreno (— m. 1057), ‘** Zonara (— m. 1130?) ‘* ed 
altri, 4 salvochè i dieci Giudei non appariscono in 
essi come autori della strage di Maometto. Presso 
tutti questi autori, Varaka non è più, come nella 
tradizione orientale, un asceta arabo, alla cui 
mente, insieme con una confusa speranza di un 
nuovo messo di Dio, splendano più o men chiari 
alcuni dommi del cristianesimo; ma è un monaco 
esule, anzi cacciato dal suo convento per erronee 
dottrine, che, senza ragione apparente, conferma a 


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189 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


Cadiga la missione celeste del marito. Andando 
innanzi vedremo che la ragione non mancherà : la 
leggenda svolgendosi logicamente, farà che per tal 
modo il monaco rejetto si vendichi della ricevuta 
offesa. 

Quest’ ulteriore svolgimento della leggenda di 
Varaka, presenta molta varietà; ma il più delle 
volte Varaka si confonde con Bahîrà: non però 
col Bahîrà mero prenunziatore, ma col Babîrà 
maestro ed istigatore di Maometto. Quando di tal 
personaggio si parla come di consigliere di Cadiga 
al momento in che si manifesa in Maometto il mal 
caduco e qual persuasore a lei della divina mis- 
sione del marito, si ritrovano in lui i tratti essen- 
ziali di Varaka; laddove poi, quando dai racconti 
gli è attribuita tanta parte nella formazione del 
nuovo culto, e sopratutto quando se ne fa un cri- 
stiano, per quanto eterodosso, ei viene meglio a 
ragguagliarsi con Bahîrà. 


IV. 


Cominciamo ad esaminare questa serie di leg- 
gende già iniziate nel racconto di Teofane, riferendo 
ciò che scrive l’ abate Guiberto di Nogent (1052- 
1124). Trattando di Maometto, Guiberto evidente- 
mente ignora quando precisamente egli vivesse, 
ma lo crede « parvae multum antiquitatis », perchè 
non trova nessun dottore della Chiesa che abbia 
scritto contro di lui; niuno si meraviglierà, dunque, 
se volendo parlarne, riferirà « quae a quibusdam 
disertioribus dici vulgo audierim ». Non è sicuro 


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IN OCCIDENTE 183 


neanche del nome: ma « plebeja opinio » è che si 
chiamasse: « si bene eum exprimo, Mathomus ». 
Tra il fine dell’ undecimo e il principiare del duode- 
cimo secolo, il nome e la vita del fondatore del- 
l’islamismo erano ormai, come si vede da quello 
che dice Guiberto, dominio della plebe, materia 
di popolare racconto; nè è perciò da meravigliarsi 
se al vero della storia si fosse così largamente 
mescolata, anzi sovrapposta, la favola. 

Non so in qual tempo, prosegue Guiberto, morì 
un patriarca di Alessandria. Fra i suoi successori 
la voce pubblica indicava anche un eremita di 
quelle parti. Ma quando si volle più addentro cono- 
scerne le dottrine, si concluse che queste non erano 
rigorosamente conformi alla fede cattolica. Fu allora 
abbandonato anche dai suoi partigiani, sicchè egli 
cominciò a pensare in qual modo potesse vendi- 
carsi. Allora, l’antico nemico, vista l’ opportunità, 
gli susurrò all’ orecchio che ponesse mente ad un 
giovane di tali e tali fattezze, di tal e tal nome, 
che gli sarebbe occorso innanzi: lo istruisse nelle 
sue dottrine, e mentre ne avrebbe conforto all’in- 
giuria, conseguirebbe autorità maggiore di quella 
invano agognata. Il giovane si presentò, e fu amo- 
revolmente accolto dall’ eremita e da lui imbevuto 
delle sue ree credenze : e di povero che era fu fatto 
ricco, procurandogli il matrimonio con una ricca 
vedova, alla quale l’ eremita aveva annunziato 
volerle dare in marito un profeta. Se non che, poco 
dopo le nozze apparve in Mathomus il mal caduco. 
La moglie, di ciò spaventata, ricorse al solitario, 
dicendogli preferire la morte al conjugio con uomo 
siffatto. Ma egli, astutissimo, cessa, o sciocca, le 


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184 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


disse, di ascrivere ad obbrobrio ciò che è segno di 
gloria: non sai tu che, ogni qualvolta lo spirito 
profetico scende sull’ uomo, non può questi resi- 
stere alla maestà divina che l’agita e scuote? Essa 
si lascia persuadere, e a poco a poco si sparge fra 
i popoli il grido che è sorto un nuovo profeta. Il 
quale intanto, consigliandosi col suo dottore, pre- 
para la nuova legge, che a favore di chi la segua 
scioglierà i freni ad ogni turpitudine. Radunate le 
turbe, fattele per tre giorni digiunare, Mathomus 
annunzia loro che Dio manderà la nuova legge in 
modo insolito e meraviglioso. Aveva egli ammae- 
strato una vacca, dandole di sua mano il cibo, in 
modo che lui solo conoscesse, discernendolo fra 
tutti. ** A lei legò fra le corna un libretto, e al 
terzo giorno essa uscì fuori da un nascondiglio, 
quasi prostrandoglisi. Il libro fu sciolto ; e, letto 
alle avide turbe, venne da esse ricevuto con 
gaudio, per la licenza di costume che consa- 
crava. Per questa perversa istituzione, che non 
solamente scusava i vizj della carne ma li impo- 
neva come virtù, venne gran danno al Cristiane- 
simo, dacchè la nefanda dottrina si sparse fra 
breve in Affrica, in Egitto, in Etiopia, in Libia e 
sino in Spagna. ‘ 

Nè d'altronde che dalla tradizione orale, come 
Guiberto apertamente confessa, o da una forma 
assai simile a quella onde attingeva cotesto monaco 
di Nogent, e che sembra aver qualche relazione 
col libro di Yesu‘yab, doveva trarre materia al 
poema su Maometto l’arcivescovo di Tours Ilde- 
berto (1055-1133), se realmente è suo quel curioso 


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IN OCCIDENTE 185 


componimento che va sotto il suo nome. Del quale 
tale è il sunto. Un ipocrita 


... male devotus... baptismate lotus, 
Plenus perfidia vixerat in Ecclesia, 

Per magicas fraudes quaerens hominum sibi laudes, 
Ut sua per studia corruat Ecclesia : 

Quod dum celabat et caute dissimulabat, 
Ceu lupus Ecclesiis sedit in insidiis. @ 


Questo monaco ipocrita ‘* vorrebbe diventare 
patriarca di Gerusalemme: ma vi si oppone l’ impe- 
ratore Teodosio, sì che fugge in Libia, dove, fin- 
gendosi buono e credente, entra nelle grazie del 
console. Si determina così in Ildeberto il teatro 
delle gesta di Maometto, che rimane ignoto nella 
narrazione di Guiberto. Servo del console di Libia 
è Mamuzio, ‘** sul quale il monaco, o mago, che 
così è indistintamente chiamato, pone gli occhi pei 
suoi fini perversi, promettendogli di farlo console, 
se seguirà i suoi ordini. Il perfido fa per sua arte 
venire un morbo al console, ma poichè la malattia 
non riesce a spegnerlo, segretamente lo uccide. 
Tutti piangono la morte del buon signore: servi, 
monaci, clero. Poi induce la vedova a sposare 
Mamuzio, che per tal modo divien console. l due 
complici intanto, meditando altre imprese, nascon- 
dono in una caverna un torello, che solo dalle loro 
mani riceve il cibo, e solo essi vede e conosce. 
Muore nel frattempo il re di Libia 


»..Quo regnante pia floruit Ecclesia... 
Africa meerebat, quasi pro se quisque dolebat, 
Omnis christicola, miles et agricola. 


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186 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


I maggiorenti si adunano per eleggere un re; 
interviene anche Mamuzio e dice: 


Nosco virum quemdam, non personam reverendam, 
Sed contemptibilem, sed misero similem, 

Et tamen est plenus hic religionis egenus, 
Simplex et sapiens, queque futura sciens, 

Et puto sermone sapientior esse Salomone, 
Namque prophetia sunt sua consilia. 

Iste requiratur ut judicet atque loquatur 
Quid recti fiat, quid male conveniat. 


Il consiglio è accettato, e si va a cercare il mago, 
che si fa molto pregare; poi si induce a venire, 
ma su un asino: more Domini. Prima però libera 
il toro e gli circonda la fronte di auree bende. Nel 
concilio dei maggiorenti così si esprime: 


«.. de colo vobis modo nota revelo. 

Sensus et ista meus non dabit, immo Deus. 
Digne regnabit taurum quicumque jugabit 

Qui juga non tulerit, ferreque nescierit. 


Il toro sciolto scorre il paese infuriando e ucci- 
dendo: ma arrivato presso a Mamuzio 


Ore manus lambit, dominumque frequentius ambit, 
Quem sicut voluit Mahometus tenuit. 


Esso gli pone il giogo, e fra le corna del toro si 
legge: 


Hunc Deus elegit cui me servire coegit. 


E così Mamuzio o Maometto, benchè fingasi 
reluttante, è fatto re. Ma il mago gli promette di 
levarlo ancor più alto, se vorrà mutar le leggi del 
Vangelo, in specie quelle contro la carne: 

Ut modo sit licitum quicquid erat vetitum... 


Ergo fac liceant omnia que libeant... 
Ut quicquid libeat, hoc etiam liceat. 


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IN OCCIDENTE 187 


Maometto acconsente; e il popolo, lieto di libertà 
siffatta, accetta la nuova legge: 


O gens confusa, magico male dogmate lusa! 
O socianda feris, o miseranda, peris! 

Libera sum, dicis: libertas haec inimicis 
Nostris eveniat, nosque, precor, fugiat! 


Venere diventa il Dio dell’ Affrica: ogni peccato 
di carne, adulterio, stupro, concubinato, incesto, 
divien lecito. Solo pochi rifiutano la nuova fede, 
e vengono uccisi se non fuggano presto nei deserti 
e nelle selve. Ma Dio manda a Maometto l’ epi- 
lessia ; e il mago inventa che ciò è segno di celeste 
protezione, e che durante gli assalti del male, 
quegli è rapito in cielo. Maometto conferma questa 
credenza: 


Cum velut amentem me cernitis atque dolentem, 
In coelum rapior et minime patior: 


e al popolo annunzia l’ avvenire glorioso della 
nuova religione. Ma una mattina, essendo uscito 
solo per preparar nuovi dogmi, è colto dal male: 


Et cadit exanguis, torpens quasi perfidus anguis. 
Sic absente mago, tenet hunc dum mortis imago, 
Accurruere sues digna repente lues; 
Qui rapidus sic grex quasi spernens quod foret hic rex, 
Totus in hunc properat, et miserum lacerat. 
Ac vite reliquum quod adhuc sustentat iniquum 
Exhaurit leviter, ille gemit graviter; 
Et tandem moritur, morienti Styx aperitur 
Et stygius latro vertitur in barathro. 
Et quia damnavit animas et corpora stravit, 
Nil parcens anime, corporibus minime, 
Nune ipsum porcus, animam depascit et Orcus 
Et sordis proprie vertitur in sanie. 


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188 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


Il mago vede la strage, ed al venir suo i porci 
fuggono. Egli si fa cuore, coll’esempio di Priamo: 


... quando pater Hectora flebat 
Numquid ei lacrymae profuerunt? minime! 


Ne ricompone le membra su un letto ed empie la 
stanza di balsami: poi convocato il popolo, gli 
racconta ciò che avvenne, asseverando Dio aver 
ciò permesso per mostrare la viltà della nostra 
carne, e solo l’anima poter esser salvata seguendo 
i precetti di Maometto. Aggiunge il precetto di 
astenersi dalla carne porcina: 


Ex hoc gens illa, contempta carne suilla, 
Pollutum credit de sue quisquis edit. 

Et quia porcorum grex regem rosit eorum, 
Ficta superstitio venit ab hoc odio. 


Il mago fa preparare un magnifico sepolcro, scri- 
vendoci sopra: 


Hic bene quod petitur, per Mahumet dabitur. 


La calamita tiene sospeso il tumulo in aria, con 
gran meraviglia del popolo: 


Ergo rudes populi prodigium tumuli 
Postquam viderunt, rem pro signo tenuerunt, 
Credentes miseri per Mahumet fieri, 
Pondere res plena quod pendeat absque catena, 
Nec sit pendiculum quod teneat tumulum. 
Haec ubi viderunt stulti Mahomet coluerunt, 
Gente quod in Lybica fecerat ars magica. 
Hactenus errorum quia causas diximus horum, 
Musa manum teneat, et Mahumet pereat. @ 


Passiamo ad altro poema. Di quel maomettano 
convertito, dalla cui voce Waltherius o Gualterius, 


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IN OCCIDENTE 189 


per mezzo dell’ abate Varnerio professa di sapere 
ciò ch’ egli riferisce su Maometto, non so se debba 
tenersi quel conto in che si tiene l’ arcivescovo 
Turpino, invocato dagli autori di romanzi caval- 
lereschi come testimone o narratore delle stranezze 
da essi raccontate. Tuttavia Waltherius potrebbe 
ben essere un Galterius di Compiègne, monaco di 
Marmoutiers, che si sa esser vissuto nel secolo XII; 
e Warnerius, che dal maomettano convertito, per 
mezzo di un «clericus Senonum magnus in Eccle- 
sia », avrebbe avuto i ragguagli poi trasmessi al 
poeta claustrale, potrebbe anch’ esso. identificarsi 
con un abate di Marmoutiers morto nel 1155. Rag- 
guagliato con quello di Ildeberto, il poema di Wal- 
therius ha con esso talune rassomiglianze come 
anche talune dissomiglianze, che ora vedremo; 
ma si ricongiunge in complesso colla tradizione, 
che il poema di Ildeberto doveva avere in certi 
punti capitali più stabilmente determinata e fatta 
comune. Ed anche qui ritroviamo Varaka, sebbene 
la parte sua non si restringa, come nella leg- 
genda orientale, ai conforti largiti a Cadiga, ma 
si allarghi così da farne il maligno ispiratore di 
Maometto. 

Il sunto che diamo anche di questo poema 
varrà meglio a determinare le modificazioni della 
leggenda orientale fra i volghi cristiani di occi- 
dente. 


Illis temporibus et in illis partibus unus 
Vir fuit, egregii nominis et meriti, 
Conversans solus inter montana, rogansque 
Pro se, pro populo, nocte dieque Deum. 
More prophetarum gnarus prenosse futura, 
Totus mente polo, carne retentus humo. ® 


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190 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


A lui come ad uomo « Christi doctum legibus 
ac fide », venivano da ogni parte per consigli; e 
a lui si presentò anche Maometto, servo di un ricco 
e nobil signore. Il sant’ uomo appena lo scorse, 
conobbe ch’ era posseduto dal demonio, e si fece il 
segno della croce. Maometto gli si gettò ai piedi, 
ma l’ eremita gli rispose: 


.«.«. Vere possessio demonis es tu; 
Lex sacra, sacra fides, te tribulante, ruet. 


Maometto giura piuttosto voler essere arso, che 
produrre tale jattura; ma il santo uomo lo scaccia, 
ed egli si allontana rivolgendo in mente le cose 
predettegli; senonchè il demonio 


Ducebat eum quocumque volebat. 


Intanto muore il suo signore; e la vedova, 
dopo qualche tempo, si volge a lui per consiglio 
sul nuovo marito da prendere: egli piglia tempo 
a rispondere, e dopo otto giorni le si presenta: 


Rhetoricosque suis verbis miscendo colores, 
Cum domina tamquam Tullius alter agit, 


e la trae a presceglier lui; e colla sua astuzia fa 
in modo che anche i « proceres » eccitino la vedova 
a sposare il fedel servo: 


Presentant proceres Machometum, suscipit illa. 
De servo liber protinus efficitur. 


Ma in mezzo alla festa delle nozze, Maometto 
è colto dal mal caduco. La sposa fugge nel talamo 


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IN OCCIDENTE 191 


e vi si chiude: egli cerca invano di blandirla; 
finalmente le dice: 
Quod me sperasti nuper tormenta tulisse, 
Nulla fuit morbi passio, crede mihi: 


De colo virtus in me descendit, et illam 
Immensam fragilis ferre nequivit homo. 


E aggiunge che nel cadere gli apparve l’ angelo 
Gabriele, che gli spiegò come fu istituita la legge 
di Cristo, la quale ora, essendo il mondo corrotto, 
è voler di Dio si corregga, rendendone più facile 
l’ osservanza: 
Legis onus minuet, tollet baptisma, decemque 
Uxores unus ducere vir poterit. 
Scribere mandavit Deus haec mihi per Gabrielem, 
Catera jussurus tempore queque suo. 


His mihi de causis, Gabrielo superveniente, 
Sicut vidisti, concido, spumo, tremo. 


Ma la moglie irritata non vuol prestargli fede, 
ed egli così le replica: 
«.. Ut credas profero testem, 
De cujus dictis sit dubitare nefas. 


Nos omnes scimus quod in isto monte propinquo 
Est quidam magni nominis et meriti. 


Vada a consultarlo, e saprà il vero. Essa accoglie 
tal proposta, e dice che vi andrà domani; ma 
Maometto ci va subito, e dapprima ricorda all’ ere- 
mita ciò ch'egli tre o quattro anni innanzi gli 
aveva profetato sui danni che apporterebbe alla 
fede cristiana ed ai credenti. Se vorrà fare ciò 
ch’ei proporrà, si salveranno lui e il suo tempio 
e i discepoli che lo circondano: 


Et miserante Deo, modico de semine posset 
Christi cultorum surgere magna seges. 


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192 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


Il sant’ uomo acconsente, purchè non gli chieda 
nulla di contrario alla fede; e Maometto: 


... Christi contraria multa videntur 
Que dispensanter sempe licet fieri. 


Del resto, ciò ch’ ei chiede, è che confermi quello 
che ha asserito alla moglie: 


Tunc sanctus, Christi plusquam sua commoda pensans, 
Dicere promittit que Machomes monuit. 81 


La sposa ingannata crede ciò che il solitario 
le assevera e lo rivela ad altre donne, e queste 
ai mariti. Allora Maometto scava dei ripostigli 
ove pone latte e miele, e nasconde in una caverna 
un bianco vitello, che ivi cresce prendendo da lui 
solo il cibo. Le genti sono da lui convocate, perchè 
si riveli ad esse la volontà di Dio: tutti del resto 
desiderando che qualche segno celeste dimostri 
voler Dio stesso ammorbidire il rigor della legge. 
Maometto astutamente dà la via alle due fosse, e 
ne sgorgano fiumi di latte e miele, presagio della 
dolcezza che governerà il mondo. Il vitello, che 
sente la voce di Maometto, rompe i vincoli e corre 
ai suoi piedi: esso ha fra le corna un breve, dove 
è scritta la nuova legge: che cioè al battesimo 
sia sostituita la circoncisione, e che ogni uomo 
possa aver dieci mogli. Tutti credono in Maometto, 
e la sua potenza si amplia per nuovi seguaci. 
Quando poi muore, il suo corpo è posto in un’ arca 
sospesa: e la Mecca è il luogo ove, non senza 
ragione, è sepolto: 


Nam Machomes immunditis totius amator 
Mechiam docuit, mechus et ipse fuit. 5 


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IN OCCIDENTE 193 


Dopo esserci così a lungo intrattenuti su questo 
poema, sarebbe superflua ogni parola intorno alla 
traduzione che in francese ne fu fatta nel 1258 da 
Alessandro Du Pont ®. Egli stesso cita per sua 
fonte (« mon exemplaire »: vv. 1159, 1161), il 
poema di Gautier (— Walther), che ne aveva rice- 
vuto notizia dall’ abate Gravier (= @Guarnier 
=. Warnerius), il quale si riferiva a ciò che Diu- 
donnés, maomettano battezzato, aveva già raccon- 
tato al canonico Adans, suo signore, di Sens in 
Borgogna. La rispondenza fra il Roman de Mahomet 
e il suo originale è strettissima: salvo che, come 
osserva l’ultimo editore di quello, °% ben si avverte 
che il poema latino è opera di un ecclesiastico, e 
il francese di un laico, che ha famigliare la materia 
cavalleresca. 


V. 


Mentre in molta parte d’ Europa correvano su 
Maometto queste fiabe, e si diramavano ampia- 
mente col mezzo delle scritture, da altri cercavasi 
di schiuder più pure fonti, tornando direttamente 
alla tradizione musulmana. 5 Questo tentò fare 
Pietro il Venerabile, abate di Cluny (— m. 1156), 
che nel 1143, 5° coll’ aiuto di un saraceno di nome 
Mahumet, e di alcuni dotti cristiani. che studia- 
vano in Spagna presso un astrologo: cioè Roberto 
Recensis (al. Recenensis e Retenensis), Ermanno 
dalmata, Pietro di Toledo, cui si aggiunse Pietro 
notaio, tradusse in latino il Corano, più una bio- 
grafia del profeta e un dialogo fra un cristiano ed 


D’ ANCONA - II 13 


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194 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


un maomettano (Disputatio Christiani eruditissimi 
et Saraceni sodalis ipsius), di tali materiali gio- 
vandosi a comporre quattro libri Contra sectam 
sive haeresim Saracenorum, nonchè una Summula 
brevis contra haereses et sectam diabolicae fraudis 
Saracenorum, inviando ogni cosa con una sua 
Epistola a Bernardo abate di Chiaravalle. *” 

Prima di esporre ciò che narra Pier di Cluny, 
giova notare che il nome che ricorre nella sua 
narrazione accanto a quello di Maometto, e dopo 
di lui più costantemente in molte altre, è quello 
di Sergio. Ma Sergio non corrisponde, come il 
monaco delle fiabe sinora esaminate, a Varaka, 
sibbene a Bahîrà: non però, lo ripetiamo, al Bahîrà 
veggente, che scoprì i destini di Maometto fanciullo, 
ma al Bahîrà eretico nestoriano, in che Maometto 
si sarebbe, come vedemmo, imbattuto in un secondo 
viaggio in Siria. Già nel libro di Yesu‘yab ed in 
Masîidi abbiam potuto notare l’ idenlità di Bahîrà 
con Sergio : vedremo, andando innanzi, che Sergio 
è identico con altri personaggi di diverso nome, 
ma che tutti rappresentano nelle leggende su Mao- 
metto la parte qui a Sergio attribuita. 

Intanto in queste narrazioni sempre più appa- 
risce la ferma credenza diffusa fra le genti dell’ età 
media, che l’islamismo fosse una eresia cristiana, 
e Maometto un perverso strumento di scisma in 
mano di un malvagio apostata inviperito, e ope- 
rante per diabolica insufflazione. °° Or qui è oppor- 
tuno soffermarci più specialmente su siffatto modo 
di considerare cotesto grand’avvenimento storico, 
necessariamente proprio a quelle genti e a quella 
età. Che molta parte delle due anteriori religioni 


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IN OCCIDENTE 195 


monoteistiche trapassasse nel maomettismo, è cosa 
ben naturale; nè gli scrittori musulmani tacciono 
o dissimulano le relazioni che il profeta ebbe con 
cristiani °° e con giudei. °° Ma laddove per i cre- 
denti nel Corano ciò che in questo si conserva 
delle leggi di Mosè e di Cristo è prova della verità 
della legge nuova, venuta a compiere, correggere, 
rettificare, perfezionare le antecedenti: ai cristiani 
invece, le rassomiglianze del Corano coll’ Evan- 
gelio dovevano sembrare furti e plagj sacrileghi, 
e chi aveva a Maometto comunicato le dottrine di 
Cristo, apparire un malvagio eretico, un perfido 
apostata, che, mescolando il vero al falso, per orgo- 
glio o per vendetta, strappava dal grembo della 
Chiesa nazioni che già vi posavano, o che un 
giorno immancabilmente vi sarebbero accolte. 

Ed è pur da notare che la gran parte attri- 
buita da Pier di Cluny e da altri ai Giudei nelle 
fallacie maomettane, corrisponde non tanto forse 
a una reale ma confusa notizia storica, * attinta 
a fonti arabe, quanto ad un nuovo impeto d’odio 
e furore di persecuzione, che a que’ tempi appunto 
arse in Occidente contro i Giudei. °° 

Pietro di Cluny narra adunque * che Satana 
stesso congiunse insieme Maometto e Sergio mo- 
naco, seguace dell’eretico Nestorio, espulso dalla 
Chiesa e venuto nelle parti di Arabia. Sergio porse 
a Maometto ciò che appunto gli mancava, comu- 
nicandogli notizia del vecchio e del nuovo Testa- 
mento, giusta però la interpretazione di Nestorio, 
che negava Cristo esser Dio; e aggiungendo poi 
alcune favole tolte dai libri apocrifi, fece del suo 
discepolo un vero cristiano nestoriano. Ma perchè 


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196 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


nulla mancasse alla iniquità di Maometto e alla 
perdizione di lui e de’ seguaci suoi, all’ eretico si 
aggiunsero alcuni Giudei, anch’essi adoperandosi 
con le favole che gl’insinuarono, a far sì che 
Maometto non fosse un vero cristiano. Così, istruito 
da ottimi maestri giudei ed eretici, Maometto com- 
pose il suo Alcorano, intessuto di favole giudaiche 
e di eretiche nenie. * 

Questa biografia di Maometto, della quale il 
primo nucleo parrebbe appartenere ai mutazeliti, 
seguaci eterodossi del Profeta, cui poi i Cristiani 
avrebbero aggiunta la satanica insufflazione, e gli 
uni e gli altri data tanta parte alla comune avver- 
sione contro i Giudei, doveva ormai nel duodecimo 
secolo essere assai diffusa in Oriente, e su per giù 
la ritroviamo anche in una scrittura mandata da 
frati laggiù peregrinanti. Narra invero Matleo Paris 
(1195-1259) che circa il 1236 °° dalle parti d’Oriente 
pervenne a Papa Gregorio 1X una lettera di Pre- 
dicatori colà inviati, la quale giunse a notizia di 
molti, desiderosi di conoscere i fatti di Maometto 
falso profeta, in essa descritti. Ciò che il cronista 
qui riferisce e che meglio andrebbe, ei dice, all’anno 
622, è o il documento stesso, o un estratto fedele 
del medesimo. °° In questo scritto, Maometto, figlio 
di Abdimenef, nipote di Hebenabecalip e marito 
di Adige, figlia di Hulait, è rappresentato come 
un insigne predone di strada, rifugiatosi a Macta, 
dove le genti erano parte giudee, parte idolatre. 
Già innanzi aveva cominciato a predicare una 
nuova religione, rifiutandosi però a far miracoli. 
À poco a poco ebbe molti seguaci, principalmente 
allorchè fu nota la libertà di costume ch’egli per- 


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IN OCCIDENTE 197 


metteva, perchè le genti stimavano troppo aspra 
la castità imposta dal cristianesimo. Ma la causa 
principale per la quale prevalse la legge di Maometto, 
dicesi esser stato un monaco già cristianissimo, di 
nome Solio (o Sergio), che, scomunicato per eresia, 
era stato espulso da ogni chiesa di Dio. Questi, 
desideroso di vendicarsi contro i cristiani, si con- 
dusse al luogo che dicesi Thenme, e di là al de- 
serto di Malsa, ove trovò uomini di due religioni: 
la parte maggiore era ebrea, la minore adorava 
gli idoli. Ivi insieme si congiunsero quel monaco 
apostata e il suocero di Maometto, e divennero 
amici. Il monaco mutò il suo nome e si fece chia- 
mare Nestorio. Insegnò a Maometto molti oracoli 
e testimonianze del vecchio e del nuovo Testa- 
mento e dei profeti, e collegò il tutto astutamente 
a confermare co’ suoi errori la nuova legge: e 
così con l’aiuto e le suggestioni di costoro, quel 
seduttore cominciò ad essere esaltato su tutte le 
tribù. Erano invero uomini rozzi, incolti e sem- 
plici, facili ad esser sedotti, e carnali. ® 

Con Jacopo di Vitry (— m. 1244) siamo sempre 
a Sergio: modificatone però il nome non più in 
Solio, ma in Sosio, forse solo per colpa di menanti. 
Secondo questo storico, il diavolo provvide di 
maestri e di cooperatori Maometto, di per sè rude 
e illetterato. Primo dunque, fu un monaco apo- 
stata ed eretico, di nome Sosio, il quale pubbli- 
camente convinto a Roma d’eresia e condannato, 
espulso com’era da ogni consorzio con fedeli, fuggì 
in Arabia cupido di vendetta. Messosi poi d’ac- 
cordo con un giudeo, istigò Maometto a farsi 
profeta, e d’altra parte persuase il popolo a credere 


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a Itrariee 


198 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


in lui, che con siffatti aiuti accozzò insieme dal 
vecchio e dal nuovo Testamento la nuova legge, 
introducendovi di proprio ciò che il diavolo stesso 
gli suggeriva. °* 

Grande autorità e diffusione ebbe a quei tempi 
la cronaca di Martin Polono (— m. 1274), che non 
differisce guari dai sopracitati nel narrare, agli 
anni 616-618, la vita e i fatti di Maometto. Ei fu 
mago, dice il cronista, pseudo-profeta e capo di 
ladroni. Ad ingannare il popolo era istruito da un 
certo monaco apoustata, di nome Sergio. La legge 
di Maometto, che, dettante il diavolo col mezzo 
dell’apostata monaco Sergio, i saraceni possiedono 
scritta in arabo, fu fondata e si mantiene colla 
spada. °° 

Ma molto più sull’argomento si diffonde Vin- 
cenzo Bellovacense (1210 9-12709), il famoso scrittore 
enciclopedico del decimo terzo secolo. Egli segue 
pel suo racconto tre fonti diverse: la prima delle 
quali è da lui stesso additata (1. XXIII, cap. 39) 
nella Cronaca di Ugo Floriacense: autore che espli- 
citamente professa attenersi in questa materia ad 
Anastasio bibliotecario ; 7° ma detto dell’arte negro- 
mantica di Mabmetto e del suo matrimonio con 
Cadiga (più sotto mutata in Adige) e della succes- 
siva epilessia, niuna menzione fa egli di Sergio. Poi 
(cap. 40) passa a giovarsi del Libellus in partibus 
transmarinis de Machometi fallaciis, ricavandone 
la nota storiella della vacca, dei ricettacoli di latte e 
miele, oltre quella della colomba ammaestrata a 
beccare nell’orecchio di Maometto e da lui fatta 
credere lo Spirito Santo: e se non erriamo, essa 
comparisce qui per la prima volta nelle leggende 


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IN OCCIDENTE 199 


occidentali. ”* Ma subito dopo, Vincenzo abbandona 
questa scorta, per seguire invece, senza più stac- 
carsene fino alla fine (cap. 41-67), la Disputatio 
cujusdam Saraceni et cujusdam Cristiani de Arabia, 
super lege Saracinorum et fide christianorum inter 
se, nella traduzione di Pier Cluniacense, ?* dalla 
quale toglie che Sergio monaco, avendo grave- 
mente peccato nel suo monastero, e perciò essendo 
stato scomunicato od espulso, capitò nella regione 
di Cubenne, °° e indi discendendo fino alla Mecca, 
dove erano due popoli, uno cultore degli idoli, 
l’altro giudeo, ivi trovò Maometto che adorava 
gli idoli; e volendo far qualche cosa per pia- 
cere ai monaci che l’avevano cacciato, e meri- 
tare di riconciliarsi con loro, che erano eretici 
nestoriani, i quali dicono Maria non aver partorito 
un Dio ma soltanto un uomo, con ogni studio e 
sforzo persuadeva Maometto di abbandonare gli 
idoli e farsi cristiano nestoriano. La qual cosa 
avendo conseguito, Maometto si fece discepolo suo, 
ed egli perciò si chiamò Nestorio. ** E così avvenne 
che istruito da quel monaco di alcune cose del 
vecchio e del nuovo Testamento, Maometto le 
introdusse nel suo Alcorano fra altre favolose e 
mendaci. Quando però i giudei conobbero che 
molti, e Maometto con loro, erano addotti a una 
qualche immagine di cristianesimo per opera del 
monaco nestoriano, temendo che per avventura 
Maometto non venisse alla vera cristianità, anda- 
rono a lui, e protestandosi .suoi socj e discepoli, 
lo persuasero a introdurre nella sua legge tutte 
quelle altre cose che sono nell’Alcorano, turpi ed 
inique, e stettero con lui fino alla morte. E poi, 


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200) LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


per sempre più richiamare la nuova dottrina ai 
riti giudaici, ’° ricevuto da Alì il libro che Mao- 
metto gli aveva lasciato, qualunque cosa parve ad 
essi aggiunsero, tolsero o mutarono. ’° Così, per 
mezzo del cluniacense, Vincenzo di Beauvais risale 
alla fonte araba di Al Kindî. 

Importante assai è il trattato di Guglielmo da 
Tripoli dell'ordine dei Predicatori, composto evi- 
dentemente coll’aiuto di materiali arabi. Questo 
Guglielmo peregrinò fra gli infedeli nel 1271, 
stette nel convento di Accone, donde prese il nome 
di Tripolitano, e probabilmente scrisse la sua 
relazione dello stato dei Saraceni, dedicandola a 
Tedaldo arcidiacono leodiense, nel 1273.” Egli 
racconta adunque come nell’ anno 601 viveva un 
religioso cristiano, semplice e di austera vita, di 
nome Bahayra, recluso in un monastero posto 
sulla via che conduce gli Arabi dalla Mecca verso 
il monte Sinai.” A questo monastero, come a 
stazione, si raccoglievano frequentemente i mer- 
canti Siri, Arabi, Cristiani e Saraceni, che viaggia- 
vano per loro affari. A Babayra era stato rivelato 
che un giorno vi passerebbe tale, da cui la Chiesa 
avrebbe grande afflizione. Giunse quel giorno, e 
il solitario riconobbe per divina rivelazione colui, 
che gli era stato prenunziato, în un fanciullo, 
orfano, malaticcio, povero e vile, e custode di cam- 
melli. I Saraceni narrano che la piccola porta del 
monastero per la quale enirò, si alzò nel momento 
ch’egli vi passava sotto, e parve un arco di curia 
imperiale. Il fanciullo venne da Bahayra accolto 
amorevolmente ; fu da lui nudrito e vestito, e da 
tutti tenuto suo figlio adottivo. Egli lo istruì inse- 


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IN OCCIDENTE 201 


gnandogli a spregiare il culto degli idoli e ad 
invocare con tutto il cuore Gesù figlio di Maria. 
Ma dopo qualche tempo il fanciullo si allontanò 
dal monastero, perchè era al servizio di un ricco 
mercante, che lo aveva raccolto derelitto e povero. 
Promise tuttavia di ritornare. Crebbe intanto in 
età, in prudenza ed in prestanza del corpo. Eser- 
citava fedelmente e con protitto la mercatura in 
pro del suo signore, e spesso tornava al suo 
maestro, il solitario. Morì intanto il signore, ed 
egli ne sposò la vedova divenendo potente per 
possessi e clientele. Spesso veniva a trovare il 
suo maestro Bahayra; ma dell’andare e dello stare 
presso di quello erano scontenti dieci compagni 
che si era prescelti; e ciò perchè egli volentieri 
ascoltava il maestro e molte cose faceva per lui. 
Laonde i compagni pensarono di uccidere Bahayra; 
ma temevano la collera di Maometto. Accadde 
però che una notte, noiati di una conferenza tenuta 
fra il solitario e il loro signore, vedendo uscirne 
quest’ultimo avvinazzato, uccisero il sant'uomo 
colla spada stessa di Maometto, al quale poi die- 
dero ad intendere che egli, fuori di senno dal 
troppo bere, lo avesse trafitto. Egli vi prestò fede, 
ma inveì contro il soverchio bere; e perciò i buoni 
maomettani si astengono dal vino. Intanto morto 
il cristiano Bahayra, i seguaci di Maometto sciol- 
sero ogni freno, e predando paesi e uccidendo 
uomini durarono in tal modo fino alla morte di 
lui. Seguono molte altre cose, che non fanno all’ in- 
tento nostro, sulla storia dei Saraceni, e quindi 
un’ampia esposizione della dottrina di Maometto, 
per concludere che i Saraceni sono poco lontani 


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II LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


dalla verità della fede cristiana, ma che la religione 
maomettana in breve cadrà. ”° 

Conoscenza diretta dell’ Alcorano e di altri 
libri arabi, ebbe, come spagnuolo e in contatto 
coi musulmani, S. Pier Pascasio (1228-1300), ve- 
scovo di Granata e poi di Jaen, che per la sua 
fede colse la palma del martirio. Scrivendo egli 
un diffuso trattato în sectam Mahometarum, narra 
come Maometto fanciullo fosse dallo zio Avitalip 
condotto in carovana, e in una solitudine s°’ im- 
battesse in un eremita cristiano, « cujus nomen 
» erat Bahirsa : et, ut Mauri dicunt, christianus 
» iste literatus erat, et quidem valde: et insuper 
» communis vox erat, quod Deo erat valde gratus 
» et amicus, et admodum religiosus ». Salvo dunque 
un lieve storpio nel nome, e l’aggiunta della 
molta dottrina alla già nota devozione, ritroviamo 
qui il Bahîrà profeta della ventura grandezza di 
Maometto. Poi l’autore prosegue a narrare sulla 
scorta degli autori arabi (ut Mauri dicunt) ciò 
che l’eremita confidò allo zio dell’ adolescente ; 
ma a questo punto gli viene un dubbio : se costui, 
cioè, non sia una persona stessa col perverso 
monaco, del quale dirà più oltre. « Et potest esse 
» quod iste eremita sit ille perversus pravusque 
» monachus, de quo infra dicemus: cum tamen 
» verum sit, quod in nominibus non conveniunt, 
» sed hoc nihil refert.... Et potuit esse quod Mo- 
» nachus ipse nomen suum mutavit, ut se melius 
» occultaret ». °° E la storia del malvagio monaco 
poi così raccontata: Un monaco molto dotto e 
sapiente, perito nelle arti liberali, ambizioso di 
onori e cupido di vana gloria, giunge a Roma; 


(e°L) 


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IN OCCIDENTE 203 


ma vedendo di non potervi conseguire ciò che 
desiderava, confuso e vergognoso propone in cuor 
suo di macchinare qualche cosa di iniquo contro 
la Curia Romana, e così semina fra i cristiani 
divisione e scisma. Aveva letto in Baruch profeta, 
che i discendenti di Agar sarebbero stati vani e 
mobili e avidi di potenza materiale. Passò dunque 
oltre mare e arrivò fra popoli discendenti da 
quello stipite. Qui però Pier Pascasio è colto da 
un altro dubbio. Potrebb’ essere, ei dice, che 
questo monaco fosse nato in Etiopia, perchè egli 
era di sua natura falso e fallace. * Ad ogni modo, 
avendo costui trovato fra gli Arabi un popolo di 
recente convertito al cristianesimo, vi si fermò, 
vivendovi rigidamente come un eremita e abitando 
un luogo solitario. Dopo un po’ si abbattè in 
Maometto adolescente, che custodiva e conduceva 
cammelli, e avendolo trovato bello di forme e sot- 
tile d’ingegno, gli insegnò molte cose; e quando 
poi fu certo di esserselo avvinto, gli promise di 
farlo signore della città e di più ampio dominio, 
se lo volesse ascoltare in tutto, e seguire. Avendo 
Maometto annuito, lo fece esperto in negromanzia, 
astronomia e linguaggi. Morì intanto il re di quella 
regione, senza lasciare discendenti, e sorse di- 
scordia fra il popolo, dolendosi i giovani della 
soverchia rigidezza della legge. I vecchi allora ricor- 
sero all’eremita, perchè componesse tanto dissidio, 
ed egli rispose che tornassero tutti fra otto giorni. 
In questo tempo egli si mise d’accordo con Mao- 
metto, e ordì l’ inganno del torello bianco e della 
colomba. Quando le turbe tornarono a lui, egli pro- 
pose che scegliessero a loro re, chi sapesse fermare 


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204 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


un {orello che scorreva libero su pei monti. Il 
solo Maometto, che l’aveva ammaestrato, riuscì 
a domarlo; ed alle turbe stanche ed assetate 
dalla caccia dischiuse poi il rivo d’acqua pura, 
ch’egli aveva messo negli otri, e sotterrato. Così 
divenuto re, Maometto promulgò la sua legge, che 
serviva insieme a Dio e alla voluttà, e col Monaco 
compose l’Alcorano, che fu posto sulle corna del 
torello, mentre la colomba ammaestrata, fatta da 
lui credere un angelo, sembrava parlargli all’orec- 
chio. Tale il racconto del vescovo spagnuolo, 
dove prevalgono le favole attinte non già a fonti 
musulmane, ma a quel composto di tradizioni, 
che già abbiamo rinvenuto nel poema d’ Ildeberto. 
In questa narrazione di S. Pietro Pascasio il 
monaco è innominato: ma più oltre egli assevera 
che in « Maurorum libris » ha trovato menzione 
di Sergio, cristiano e compagno di Maometto, 
e ne dà qualche cenno: nè di lui loda, come 
altri, l’ acutezza dell’ intelletto e la dottrina reli- 
giosa, ma la grande attitudine « ad grassandum 
et latrocinandum ». Costui conosceva tutte le vie 
e i sentieri del deserto, e quando la masnada 
partiva per le sue imprese, egli, ricorrendo alle sue 
imposture, sotterrava nella rena ova di struzzo 
piene d’ acqua, che poi dava a bere ai compagni 
reduci e ai loro cammelli. Le genti predate non 
perseguitavano i rapitori, pensando che morreb- 
bero ad ogni modo di sete nel deserto : ma quando 
poi vedevano ciò non essere avvenuto, se ne accre- 
sceva la reputazione di Maometto, attribuendo 
il fatto a miracolo. Da questo Sergio, conclude 
l’autore, si può comprendere che razza di gente 


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IN OCCIDENTE 205 


fossero i primi discepoli di Maometto, e quale la 
dottrina ch’egli introdusse a salvezza dei corpi e 
delle anime. * Per Pier Pascasio adunque, Bahîrà 
può forse essere una persona stessa col monaco 
perverso: ma Sergio, quantunque cristiano, non 
è nè eremita nè monaco, bensi astuto guidatore di 
predoni. 

La sorgente alla quale Tommaso Tusco, scri- 
vendo nel 1278, attinse le sue informazioni fu, 
per quel ch’egli ci dice, un libro che si conservava 
nella sagrestia di una chiesa di Bologna: « Hec de 
» Maumet in quadam extraordinaria legi Historia, 
» quam in sacristia Bononiensi Ecclesie repperi, 
» in antiquissimo quodam libro ». Anche laddove 
è concorde cogli scrittori già riferiti, ha qualche 
varietà od aggiunta. Per esempio, il matrimonio 
con Cadiga è un fatto necessario : « Cum ad annos 
» puberes advenisset, domine in stupro commixtus 
» est, et illi vehementi amore conjunctus est, 
» cumque amor jam ultra celari non posset, ejus 
» maritus effectus est ». Dopo il matrimonio, dive- 
nuto ricco e potente, Maometto volge l’animo a 
conoscere i costumi e le leggi degli uomini e le 
loro credenze religiose. S’imbatte allora in un 
Monaco cristiano, ma di setta nestoriano, o come 
altri raccontano, in un certo chierico che si era 
separato con sdegno dalla Chiesa, perchè in quella 
non aveva conseguito l’onore del quale si repu- 
tava merilevole. Questi che per la sua facondia 
attraeva parecchi a sè, divenne a lui familiare, e 
in breve fu da lui istruito sul vecchio e sul nuovo 
Testamento. * Allora cominciarono insieme a pen- 
sare in qual modo potessero soprastare a una 


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4 


MEO 


9. a i 


206 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


qualche gente e averne la signoria. Vano era pro- 
vare in proposito i Romani, più sapienti di loro, 
o i Persiani più forti: si volsero dunque agli Arabi, 
uomini semplici, e cominciarono a seminare fra 
loro le nuove dottrine, dicendo prossima la venuta 
di un profeta. Si giovarono dell’inganno della 
colomba e della vacca, da essi ammaestrate, e un 
certo giorno congregarono il popolo in un luogo 
deserto. Ivi era un pozzo profondo e secco, dove 
si nascose il chierico. Maometto in mezzo alle 
genti orò a Dio che manifestasse i suoi voleri; e 
una voce uscì dal pozzo ammonendole che cre- 
dessero in Maometto e nella legge ch'egli promul- 
gherebbe. Intanto la vacca uscì dal suo ripostiglio, 
portando fra le corna il testo della nuova legge. 
Dopo averla letta, Maometto si avvicinò al pozzo, 
e disse doversi questo dedicare a Dio e non più 
farlo servire ad uso degli uomini, ordinando che 
ciascuno vi gettasse una pietra finchè fosse col- 
mato. Così morì il chierico, che solo era conscio 
di tanta fallacia, e Maometto divenne signore degli 
Arabi e dei Persiani e loro legislatore religioso. 84 


VI. 


Accanto al Monaco nestoriano, cacciato per 
eresia dal suo convento, ecco apparire nei rac- 
conti di Pier Pascasio e di Tommaso Tosco, il 
chierico allontanatosi iroso dalla Chiesa, per 
non aver conseguito gli onori di che credevasi 
degno: accanto alla leggenda che più spesso prende 
nome da Sergio, ecco mostrarsi quella nella quale 


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IN OCCIDENTE 207 


prevale il nome di Niccolò. Ma più antica del 
secolo XIII è l’appropriazione di cotesto nome al 
fondatore dell’Islamismo e I’ identificazione di lui 
col Niccolò diacono dei tempi apostolici; poichè 
già nel secolo antecedente, ne parla, pur negan- 
dovi fede, Pier di Cluny. 85 

Non era pertanto questo di Niccolò un nome 
posto a caso, poichè sebbene nulla provi che i 
nicolaiti dell’ Apocalisse discendano dal Niccolò 
degli Atti, ei fu nella tradizione ecclesiastica, come 
osserva il Renan ®° l’eretico per eccellenza, il padre 
d’ogni eresia, sicchè non v’era nome più appro- 
priato per designare il fondatore della novissima 
secessione delle genti umane. Ed è degno di osser- 
vazione come in un dipinto di Buffalmacco in San 
Petronio di Bologna, rappresentante l’ Inferno, for- 
mano un gruppo tre personaggi, come nella pittura 
dell’Orgagna nel Camposanto pisano; ma invece 
dell’ Anticristo e di Averroè, si danno per com- 
pagni a Maometto, l’Apostata e Nichola. *’ 

Non sempre però in quest’altra serie di leggende, 
dove un dignitario della Chiesa è istigatore di 
Maometto, ovvero diventa egli Maometto, si trova 
il nome di Niccolò. In un codice laurenziano 
(XLVII, 27) della prima metà del secolo XIII si 
contiene una Ars lectoria, che sembra appar- 
tenere ad un Siguino, grammatico francese del 
secolo XII *°. A pag. 34 r° volendo l’autore definire 
che sia la Cronaca, egli riferisce un esempio di cro- 
nologia a questo modo: « A Jesu passo anni sunt 
» mille quinquaginta quinque ». F più oltre: « A 
» Christo nato usque ad transitum Ocin, quem 
» Saraceni Maumitum dicunt, quem Osius papa ad 


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X)8 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


» Hispanias direxit corrigendi gratia, anni sescenti 
» decem et octo. Unde ad nos anni quadrigenti 
» septuaginta octo »: Son questi esempj presi dai 
varj autori, sui quali Siguino compilava il suo 
libro: ma il secondo di essi, mostrerebbe che nel 
1096 già era comune un’altra forma della leggenda 
di Maometto, qui denominato Ocin, e da Papa 
Osio mandato in Spagna a correzione della fede. 

In altro codice laurenziano (XVI, 5), pure del 
XIII secolo, vi è un’altra opera grammaticale, 
che forse è la fonte a cui Siguino attinse, e che 
vien attribuita ad un Aymerico.* A pag. 55 r° 
si trova un esempio di calcolo cronologico, ma 
in forma alquanto diversa: « Anno Xp. DCVII 
» obiit Adocin diaconus, quem Sarraceni Mau- 
» mitum vocant, qui ab Osio p. p. ad Hispanias 
» missus legatione officii fungens, sed deceptus 
» decepit, anni quadrigenti septuaginta octo: fal- 
» luntur enim qui Nicholaum unum de VII primis 
» putant. Inde usque ad nos anno X! M° LXXX° VI, 
» anni CCG! LXXXt [Xen », °° Questo calcolo ci 
darebbe l’anno 1086: con differenza di pochi anni 
dal calcolo anteriore. Ad ogni modo, resta che già 
da molto tempo esisteva la leggenda di un diacono 
della chiesa romana, che sarebbe stato o ispiratore 
di Maometto o una persona stessa con lui, varia- 
mente chiamato Ocin, Adocin, o Niccolò. In cotesti 
esempj di calcolo cronologico, si ha appena un 
cenno della leggenda, quale la conosciamo in scritti 
ulteriori: ma non vi è dubbio che si tratta di quella 
strana fiaba, secondo la quale Maometto sarebbe 
stato un prelato, anzi un cardinale di santa Chiesa. 

Più oltre, dove parleremo della plausibil ragione 


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IN OCCIDENTE 209 


de’ varj nomi dati dai cristiani a Maometto, ritor- 
neremo su questo nome di Niccolò. Qui diremo 
che, probabilmente, da principio dovettero star 
fra loro separate e distinte due forme di questa 
leggenda : nell’una delle quali, Maometto era con- 
fuso con Niccolò, diacono dei primi tempi aposto- 
lici: e nell’altra, Maometto era un prelato della 
Chiesa occidentale: chierico, diacono, legato, car- 
dinale, per dignità : per nascita, romano, bolognese, 
spagnuolo ; e questa era forse ulterior trasforma- 
zione della fiaba, menzionata da Guiberto e da 
Ildeberto, dell’eremita cupido di diventar patriarca 
di Gerusalemme o di Alessandria, e che per ven- 
dicarsi del rifiuto, aizzò contro i credenti in Cristo 
un fiero avversario. Se non che, se presto ed auto- 
revolmente fu mostrata erronea l’ immedesimazione 
dell’antico diacono con Maometto, qualche cosa 
ne sopravvisse: si corresse cioè l’anacronismo, ma 
il nome di Niccolò, se non in tutte, in alcune 
versioni, restò all'oscuro eremita, divenuto via 
via, per naturale svolgimento della leggenda, 
dignitario della Chiesa. 

Ad ogni modo, con questa forma della leggenda 
risaliamo ben addietro, non solo per la confusione di 
Maometto con Niccolò, ma per ciò che spetta ai mo- 
tivi che indussero il malvagio uomo alla vendetta. 

L’egregio nostro Michele Amari nella versione 
di questa fiaba, in che Niccolò sarebbe stato ingan- 
nato dai suoi colleghi, scorgerebbe un segno 
di « malizia ghibellina », che « volle apporre alla 
» Corte di Roma la maggior calamità avvenuta 
» alcristianesimo dopo le persecuzioni degli antichi 
» imperatori romani »; e versione guelfa sarebbe 


D’ ANCONA - ll 14 


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210 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


invece quella in che tutto il male sarebbe nato 
da orgoglio e delusa ambizione del monaco. ®? La 
supposizione è ingegnosa; ma l'origine della no- 
vella sembra più antica del tempo in che mag- 
giormente arsero le contese delle fazioni ghibellina 
e guelfa: ben può ammettersi però, che più tardi 
l’una o l’altra versione fosse, a seconda dei proprj 
umori ed interessi, accolta e propagata dall’una 
o dall’altra delle due parti nemiche. Tuttavia non 
potrebbe dirsi ghibellino l’autore del secondo rifa- 
cimento poetico del Tesoro, che accolse la lezione 
del papato promesso e poi non conferito. 

Fu anche scritto che la leggenda di Maometto 
prelato e cardinale fosse di origine italiana, anzi 
nascesse addirittura nell’ Italia superiore. °*? Certo 
la menzione che se ne fa nei rifacimenti metrici 
italiani e non nel Tesoro francese, e poi, come 
vedremo, in alcuni commentatori di Dante e nel 
poema del Casola, parrebbe dar forte rincalzo a 
questa opinione, specialmente dacchè il più antico 
testo francese ove sinora si era rinvenuta, è un 
brano del romanzo di Renart le contrefait, ®* com- 
posto fra il 1310 e il 1330. ®** Ma con Seguin e con 
Aymerico, e prima con Pietro il Venerabile, siamo 
tra francesi, anzichè tra italiani. 

Vedremo d’ora innanzi frequenti allusioni a 
questa strana e maggior trasformazione della leg- 
genda popolare su Maometto: ora raccogliamone 
il succo analizzando il Liber Nicolay, secondo un 
codice della Biblioteca Nazionale di Parigi, scritto 
nel secolo XIV, ma certamente di più antica 
composizione, comechè faccia una confusione già 
invano rettificata da Aymerico e dal venerabile 


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IN OCCIDENTE DIL 


cluniacense. Leggesi nella storia romana, così 
asserisce il Liber, che Niccolò, il quale è detto 
Maometto, fu uno dei sette diaconi cardinali della 
Chiesa romana. Essendo egli versato in ogni scienza 
ed esperto nei fatti umani e parlatore d’ogni lin- 
guaggio, il Sommo Pontefice, che allora teneva il 
papato e che era in età decrepita, col consenso di 
tutti i cardinali, lo elesse a suo successore, essendo 
necessario che si dilatasse la fede di Cristo. In 
quei tempi si seguiva l’esempio di Cristo, che 
elesse a suo successore Pietro, come Pietro de- 
signò poi Clemente. Intanto Niccolò fu mandato 
in Spagna e Barberia, legato generale della Chiesa 
apostolica: ed egli ridusse alla fede cattolica tutte 
quelle regioni; sì che quasi tutto il mondo ormai 
era battezzato. Ora, mentre Niccolò era in lega- 
zione, il papa morì: ma essendo uso che il pon- 
tefice defunto non si abbia a porre sotterra se il 
suo successore non gli dia l’assoluzione, Giovanni 
dal titolo di S. Lorenzo in Damaso, cardinale dei 
preti, fu eletto papa; e ciò avvenne perchè era 
molto vecchio, e pareva dovesse morire da un 
momento all’altro. I cardinali mandarono a dire 
a Niccolò che tornasse a Roma, e ci voleva più 
di un anno fra andare e tornare: essi però pen- 
savano che in questo tempo il vecchio papa mor- 
rebbe. Ma questi che nel cardinalato era stato 
debole e macilento, divenne da papa vigoroso e 
sano. All’approssimarsi di Niccolò, i cardinali gli 
andarono incontro, e benchè egli restasse molto 
indignato di ciò che era occorso, l’ira sua si mitigò 
quando ebbe le scuse e la promessa che nulla 
sarebbe fatto senza il suo consenso. Presentatosi 


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9192 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


al papa, non gli fece niuna reverenza: sicchè il 
papa gli diede ordine che non venisse in Curia se 
non chiamato: ond’egli pieno d’ira se ne partì. 
Da questo momento cominciò a pensare come 
potesse sovvertire la religione cristiana, e fare una 
nuova setta. Qui segue l’enumerazione delle dot- 
trine nuove escogitate da Niccolò pei Saraceni, la 
maggior parte delle quali sono quelle sulle molte 
mogli, sulle abluzioni ecc., che gli scrittori gene- 
ralmente riferiscono a proposito della legge di 
Maometto, terminando colla consueta descrizione 
dell’arca tenuta sospesa dalla calamita. ° Fu poi 
morto da Marzuco, della moglie del quale, di nome 
Carufa, si era invaghito : e quando insieme l’ebbero 
ucciso, per non non essere straziati dal popolo, 
inventarono che gli angeli avevano portato Mao- 
metto in cielo, e che in mano a Carufa, che voleva . 
trattenerlo, era rimasto il piede di lui. ?” 

Certo è intanto che questa fiaba del papato 
promesso e poi non conferito, con qualche varia- 
zione di particolari, ora col nome ora senza il 
nome di Niccolò, talvolta facendo del cardinale 
apostata un semplice ispiratore di Maometto, 
tal’altra facendone una persona stessa con lui, 
ebbe gran diffusione nei volghi. Una prova della 
sua popolarità può offrircela un brano dell’ Attila, 
che Niccolò da Casola compose verso la metà del 
secolo XIV, ove si descrivono le storie ond’era 
dipinto il padiglione di Foresto. °* La prima rap- 
presentava appunto Maometto: 

Coment il prehichoit au poples à desmesure. 
Por li faus incins que il fist, coment dist la scripiure, 


De la columbe blance, que le fist sa pasture 
Dens in sa oreilles. 


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IN OCCIDENTE 913 


Ora, dice il poeta, rivolgendosi al suo mecenate: 


Cil mauves Mahon, seignor, que ie vos di, 
Fu ia gardenel et mout dagne de fi, 

Sace in scripture et in la sainte li, 

Mout ingigneus et parlant et forment signori. 
Et li saint apostoille dont celui obehi 

Le avoit tramis in sauvac pai 

Per prehicher la loy de Jesu et de Hely 

Et der insegnament a la gent mendi 

De sauver sa arme que ne soit in peri. 


Aveva convertito tutta Pagania ed Arabia, in 
premio di che gli era stato promesso il papato 
quando la sedia si rendesse vacante: 


Quant in celle temps li apostoille mori 

El concistoire s’ asembloit tot li 

Et firent consoil in pales et in secri. 

Quant furent bien consiles non trovent nul parti, 
De Mahomet alire distrent serot il pi, 

Il croist la crestentez, se il fust reverti 

Il seroit le piz, nul plus fust converti; 

Mielz est que il exauce prehichant le pai 

Et abat l’ ignorance et li mauves deli ®. 


Per questo bel ragionamento, per siffatto pru- 
dente consiglio, !°° i cardinali mancarono alla data 
fede ed elessero un altro « mout franc et ianti ». 
Quando la notizia, volando di qua e di là per 
tutte le contrade, giunse oltre mare agli orecchi 
di Maometto 


li cors li est inflee 
D’ ire ed de coruc, et d’invie amassee. 
Dont venger se pense desor la crestentee. 
Oiez que fist le faus renoiee! 
Tot par le pais qu’ el avoit prehichee 
Tornoit mantinant, nou fist plus destinee, 
Avec ses desiples, Apolin l’ adotrinee 
Et Jupiter et Trivigant qu’el avoit amaestree. 


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914 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


Tot ce qu’ el avoient dit avoient revochee, 
Contre la loy firent, con ie vos ai parlee 

De la columbe blanche com avoient incignee; 
Tost in petit termen li avoient retornee 

A la loy mescreant la pais de tot lee. 

Ancor tot la Perse que estoit acrestianee 
Mahomet li proffete, le faus renoie, 

Aveit a sa ley conduite et amenee etc. 101 


E circa la metà del secolo successivo l’autore 
del poema popolare sul Danese così scriveva nel 
canto quarto : 


Or vi dirò del falso Machometto. 
Quel Machom fu pagan principalmente, 
Poi rinnegò la fede saracina: 
Fugli promesso da cristiana gente 
Ched e’ sarebbe papa a tal destina: 
Ond’ egli andò a predicar presente 
Fra quella giente pagana meschina; 
Molti ne convertì sensa soggiorno : 
Per esser papa tosto fe’ ritorno 1%. 
Vera cosa è che costui fu ingannato 
Dalla cristiana giente, al mio parere, 
Però ch’ un altro Papa ebbor chiamato, 
Benchè tal cosa già non fu dovere. 
Quel Machometto si fu ritornato 
In pagania senza più sofferere : 
Tutta le giente ch’ avea convertita 
Fecie tornare alla prima sentita. 
Dunqne ben fu quel Machon traditore, 
E per ragion ben debb’esser perduto: 
Dunque ben sono i pagani in errore 
Per loro Iddio tengon quel discreduto. 
Tu, re Luchan, ben èi preso il migliore 
Poi che adorare lui sì se’ pentuto . 
Sempre in mia corte con méco starai, 
Più ch’ altro re onorato sarai 10, 


La leggenda del Cardinale s’ introduce di sbieco 
anche in una popolare narrazione cavalleresca : in 
quella di Guerrin Meschino, dove nel capitolo 18 
del libro IV, 1’ eroe racconta come giungesse 


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IN OCCIDENTE 215 


sulla riva del mar Libico, e chiedesse alle sue guide 
un cenno delle terre che gli son presso; dopo di 
che « sentendo tante province quante m’avèno 
raccontate, volli provare di fargli convertire e 
cominciai a parlare loro della fe’ Cristiana, e poi 
domandai loro che cosa è Maometto, et eglino 
come ingnoranti, rispuosono ch’ è grande Iddio a 
presso a Dio grande. Io contai loro come Mao- 
metto fu cristiano e Cardinale, e come egli tradì 
tutta la loro legge, e come ipocrito fa (fe’ ?) per- 
dere tutta la generazione sarraina, e solo per un 
beneficio ch’ egli perdè a Roma, di non essere 
fatto Papa; e come Apolino fue il primo medico, e 
però fu chiamato Dio della Sapienza, e come Bel- 
zabù fue Bello Re di Nove (altri mss. India) e che 
Belzabù veniva a dire Iddio delle mosche ecc. ». 1% 
Veramente non si potrebbe ammettere che quella 
gente libica fosse tanto « ignorante », se non cre- 
deva a sì grosse fandonie. E meno ancora, più tardi, 
nel bel mezzo del secolo decimosesto, vi prestò 
fede una cortigiana celebre, poetessa, ed autrice, 
coll’aiuto molto probabile e proficuo dei suoi amici 
letterati : la Tullia d’ Aragona, che riducendo in 
ottave, nè buone nè cattive, l’ antico romanzo, 
mise in versi anche l’episodio sopra ricordato. 1° 
Non spiacerà forse che riferiamo qualche brano 
del canto XXI del suo Guerrino, ov’è riprodotto : 

Guerrino, poi che tanta roba intese, 

Tante città nomar e tanti regni, 

E dovendo ei cercare ogni paese 

Già nominato, con nuovi disegni 

A. predicare or le sue guide prese, 
E mostrò lor per evidenti segni 


Ch’ è male a creder che Macon sia tale 
Ch’ ei sia appresso a Dio fatto immortale. 


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216 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


E narrò lor com’ egli fu cristiano 
E cardinale, e per isdegno preso 
D’ un beneficio, si fece Pagano, 
E per meglio sfogar l’ animo acceso 
Si pose a predicare il rito strano 
Che poi dai Turchi è sempre stato atteso : 
Ma s’ egli disse questo di Macone, 
Lettore, io n’ ho contraria opinione. 
Penso che l’ autor che questo scrisse 
Male informato fosse di tal fatto. 
E potrebbe esser anco ch’ io fallisse, 
Per ch’io non fo già di giurarlo patto; 
Dico ben ch’ altri in altro modo disse; 
E quel che m’ha per farlo noto tratto 
È, ch’a chi sono l’altrui storie amiche 
Non tenga perse qui le mie fatiche. 


E qui segue la storia di Maometto desunta da 
fonti meno impure, secondo se ne sapeva, o si 
presumeva di saperne a quei tempi: e prima, se- 
condo le narrazioni dei suoi, la nascita di vil 
gente in Arabia, il suo esercizio di traffici, il 
giunger suo presso un romitorio, l’ alzarsi della 
porta al suo passaggio, sebbene « per confermare 
queste ragioni Possono addurne magri testimoni ». 
Poi lo sposalizio colla vedova del re di Corondaria, 
le ansie di lei pel suo mal caduco e la spie- 
gazione del fatto datale da Maometto coll’ asserire 
che allora veniva a lui l’ angelo Gabriele. Ma da 
queste tradizioni musulmane diverge a un tratto 
la poetessa, e scrive: 

Dirò quel che da veri testimoni 


Traggo, senza più ch’ altri indarno sudi 
A cercar di Macon l’ origin vera. 


Per ciò segue narrando la nascita di Maometto 
alla Mecca, la sua orfanezza, la nutrice, i fratelli, 
gli zii ed altri, pur protestando che « l’opinione 


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IN OCCIDENTE 217 


d’altri racconto »; lo sposalizio con una cugina, 
la fondazione della nuova fede diffusa colle armi. 


Molte altre cose fatte similmente 
Ne la sua vita lor narrò: si come 
Con grande astuzia gabbava la gente 
Per acquistarsi di Profeta il nome; 
Disse degli idolatri d° Oriente, 
Che credono in nel Sol, che per cognome 
Chiamasi Apol; gli dieron quel vantaggio 
Ch’ un tal fra gli uomin grossi fu ’l più saggio. 
L’ altro fu Belzebù: questo fu quello 
Che in Ninive adorar si fece Nino, 
Che fu suo padre, chiamato Re Bello, 
Sopra ’1 qual venne, per ordin divino, 
Por tante mosche, che non sol vedello 
Ma non poteva starsi in quel confino. 


Tullia non ci parla anche di Trevigante; ma pos- 
siamo contentarci di sapere perchè Belzebù fosse da 
alcuno, come vedemmo, designato Re delle Mosche. 

Che più ? questa favola penetrò fin nella glossa 
del giure canonico, non però forse col nome di 
Niccolò, 1° ma, ad ogni modo, da cardinale dimi- 
nuendone l’eroe a chierico. Annotando invero. la 
clementina de Judaeis et Saracen., Giovanni Andrea 
(1275-1347) parla di Maometto riferendosi gene- 
ricamente all’ Istoria ecclesiastica, e facendone 
l’allievo di un nobil chierico romano, che, ai 
tempi di Bonifacio IV papa, per non aver potuto 
conseguire certe cose da lui chieste, apostatò dalla 
fede. °° Forse al glossatore parve enorme parlare di 
una promessa e di un mancamento di fede, egual- 
mente peccaminosi : e 0 mutò e corresse di suo, o 
si attenne ad una più benigna versione orale. Ma 
i posteriori interpetri volendo a lor volta correg- 
gere ciò che il vecchio maestro aveva scritto, al 


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318 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


chierico romano sostituirono Sergio, e a lui, ariano, 
aggiunsero il nestoriano Giovanni e un talmudista 
giudeo : *°* poi invece di un romano posero un 
bolognese !°° ed a ragione: perchè Bologna era 
tenuta madre di sapere: e dottrina non piccola, 
aggiunta a molta malvagità d’animo occorreva 
a far prevaricare tanta gente, già ben avviata sul 
vero sentiero. 

Alla tradizione su Niccolò anzichè a quella su 
Sergio si riaccostano i rifacitori e accrescitori del 
Tesoro. Brunetto aveva scritto: « Puis i fu li 
mauvais preeschierres qui fu moines, qui ot non 
Sergius (altri cod. Mahomès), li quels les restraist 
(é Persiani) de la foi et les mist en mauvaise 
error ». "!° Ma le giunte italiane del Tesoro 
abbandonano Sergio per Niccolò, che è bensì mo- 
naco, non però di Siria o d’Antiochia, ma «delle 
» Smirne ». Esso «usava in corte di Romaet era 
» molto savio e bene letterato ». Andato nelle 
parti di Arabia, si accostò a Maometto, che « era 
» grande uomo e grande capo di Cabilia », e 
trasse lui e gli arabi alla fede cristiana. Qui ab- 
biamo un nuovo motivo dato all’ulteriore diser- 
zione di Niccolò dal drappello di Cristo. « Quando 
l’apostolico seppe ch’elli erano tornati alla fede 
cristiana, sì mandòe uno patriarca, perch’ elli 
fosse loro procuratore. Quando questo Nicolao 
intese che omo venîìa per la corte di Roma, che 
dovea essere sopra lui, sì ne li pesde molto, 
come quelli che si credea essere signore per 
l’apostolico, et misesi a grande iniquitate contro 
sua coscienza medesima; e fu a questo Mao- 
metto che molto li credea... e fe’ li accredere 


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IN OCCIDENTE 219 


come Dio l’aveva fatto suo messo per predicare 
sua novella legge, e simigliantemente lo fece 
accompagnare con altri X grandi uomini, e sì 
com’elli fece in prima loro accredere la legge 
» dei cristiani, così la rimutòe, quasi non isfor- 
» mando la legge cristiana in alcuna cosa ». 1! 
Quanto ai due nostri versificatori, abbiamo visto 
che, mutando soltanto il nome di Niccolò in Pelagio, 
si attengono alla versione della leggenda, che 
pone motivo all’apostasia la fallita promessa del 
papato. 


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VII. 


Questa matassa della vita di Maometto era 
pertanto al finire del secolo XIII talmente imbro- 
gliata, che Jacopo da Varagine (1230 ?-1298 ?), 
quand’ebbe a trattarne nella sua Legenda aurea 
era impacciato a qual versione attenersi, e ne 
proponeva tre. In qualche storia di Maometto, 
mago e pseudo-profeta, e in qualche cronaca, così 
ei dice per primo, si trova che un chierico molto 
famoso, non avendo potuto ottenere nella Curia 
romana l’onore a cuì aspirava, fuggendo indignato 
nelle regioni d’oltremare, molte genti a sè attrasse 
colla sua simulazione, e imbattutosi in Maometto 
gli disse che lo voleva far capo di quelle. Ricorse 
dunque all’ inganno della colomba, che il popolo 
adunato prese per lo Spirito Santo; sicchè il 
popolo obbedì a Maometto, e sotto la sua condotta 
occupò il regno di Persia e parte dell’ impero 
orientale fino ad Alessandria. Ma questo è ciò 


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390 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


che si racconta fra il volgo; ed è, come ognun 
vede, la versione di S. Pier Pascasio e di Tom- 
maso Tusco; la versione, su per giù, che s'’ inti- 
tola da Niccolò; ma più vero è invece secondo 
il Varagine, quello che ora si dirà. "* Maometto 
veramente si valse di quest’ inganno della colomba, 
e così dettò le sue leggi, inserendovi alcune cose 
dell'uno e dell’altro Testamento. Ma in gioventù, 
esercitando la mercatura e andando coi cammelli in 
Egitto e in Palestina, spesso avea conversato con 
Cristiani e Giudei, dai quali avea appreso molte 
cose della loro religione. Perciò egli conviene coi 
Giudei nella circoncisione e nel divieto della carne 
porcina; e coi Cristiani nel credere ad un solo 
Dio, e nell’ammettere che Cristo, sommo profeta, 
nascesse da madre vergine. La vedova Cadiga, 
signora della provincia di Corocanica, vedendolo 
frequentare Giudei e Saraceni, credè scorgere in 
lui un che di divino, e lo prese a marito, sicchè 
egli ottenne il principato di cotesta provincia. Colle 
sue fallacie fece poi in modo che Giudei e Sara- 
ceni lo tennero, come si predicava, il promesso 
Messia. Intanto cominciò a soffrire di morbo epi- 
lettico, e Cadiga molto se ne attristò, ma egli 
confortolla coll’asserire che in tali momenti l’an- 
gelo Gabriele gli appariva e gli parlava; e la 
moglie e gli altri vi credettero. ‘* Questa è “la 
seconda versione: altrove però si legge, che colui 
il quale istruì Maometto fu un certo monaco, di 
nome Sergio, che essendo caduto negli errori di 
Nestorio, espulso dai suoi confratelli venne in 
Arabia, e si accostò a Maometto: sebbene poi 
presso altri "4 si legga che fu arcidiacono dimo- 


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IN OCCIDENTE 991 


rante nelle parti di Antiochia, e, come si asse- 
risce, giacobita; di quelli cioè che predicano la 
circoncisione e affermano Cristo non esser Dio, 
ma uomo giusto e santo, concepito dallo Spirito 
Santo e nato da una vergine: le quali cose credono 
anche i Saraceni. Adunque il predetto Sergio, molte 
cose, comeraccontano, insegnò a Maometto del vec- 
chio e del nuovo Testamento.!! Maometto intanto 
divenuto più ricco e potente pel matrimonio, volse 
in mente di usurpare il regno degli Arabi: ma 
vedendo di non poterlo fare colla violenza, adoprò 
la simulazione, giovandosi dei consigli del pru- 
dentissimo Sergio. Ed è per lui che i Saraceni 
adoperano un abito monastico, cioè la cocolla 
senza cappuccio, e, come i frati, fanno tante genu- 
flessioni. Molte leggi pertanto, ispirate da Sergio, 
promulgò Maometto, le quali il da Varagine enu- 
mera largamente, ma che qui non è necessario 
riassumere. Dopo di che, racconta come il profeta 
morisse di veleno, già molti anni innanzi comuni- 
catogli nella carne di un agnello. 119 

Ricoldo da Montecroce (— m. 1320), che viaggiò 
in Palestina e studiò nell’Alcorano, pone anch'egli 
come vero ispiratore di Maometto il diavolo invi- 
dioso delle vittorie di Eraclio: ma non esclude 
che avesse cooperatori umani. Invero, dice il frate, 
poichè Maometto era idiota ed illetterato, il dia- 
volo gli diede alcuni compagni, cioè alcuni giudei 
e cristiani eretici. Aderì a lui un giacobita di 
nome Baira, che durò con lui sino alla morte, e 
del quale si narra anche che Maometto lo ucci- 
desse. Vi furono pure alcuni giudei, cioè Phinees 
e Audia, detto Salon, e poi Andala, detto anche 


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DID LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


Salem, !” che si fecero Saraceni. E vi furono alcuni 
nestoriani, che convengono coi Saraceni nel cre- 
dere Gesù Cristo uomo, non Dio, ma nato da 
Maria Vergine. Per tal modo, Maometto compose 
la sua legge, prendendo qualche cosa dal vecchio 
e qualche cosa dal nuovo Testamento : ma quando 
morì non c’era l’Alcorano. Nelle storie degli Arabi 
si trova che Maometto dicesse: Descendit ad me 
Alcoranum in septem viris: e dicono che questi 
fossero Napte, Eon, Omar, Owmra, Eleesar, Asir 
figlio di Cethir, e il figlio di Amer. !!* 
Chiuderemo quest’enumerazione di scrittori del 
secolo XIII con Jacopo da Aqui (— m. 1337 ?), 
autore della Imago mundi. Si dice, ei scrive, che 
tutto il processo di Maometto vien dai Cristiani. 
Fuvvi un certo monaco cristiano di nome Nicolao, 
che disse aver ricevuta grande ingiuria dalla chiesa 
di Roma, e di ciò disperato, abbandonò la fede 
cristiana, e andato oltre mare, come uomo sottile 
e malizioso pensò come potesse vivere e pervenire 
ad alto stato. Era invero uomo letterato ed elo- 
quente, affabile e di graziosi costumi. È perve- 
nuto in Persia, simulò gran santimonia e in ogni 
cosa astinenza e castità. In quelle parti vi erano 
allora Cristiani e Pagani: e i primi erano in basso 
per mancanza di predicatori, e perchè fra essi 
sorgevano molti eretici. Questo Nicolao rinvenne 
al fatto suo un socio somministratogli dal diavolo, 
cioè un mercante e un conduttore di cammelli, 
chiamato Maometto, che conversava con tutti, 
Cristiani, Giudei o Pagani, per la sua professione, 
ed era di sottile ingegno, e abbastanza letterato 
e conoscitore dei costumi e degli uomini di quella 


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IN OCCIDENTE 223 


regione. Nicolao chierico e Maometto si unirono, 
e poi si aggiunsero un altro, detto Sergio, già mo- 
naco cristiano, e convennero di formare nuova 
setta contro il cristianesimo, nella quale si con- 
ducesse vita gioconda. !° E prima convocarono gli 
Agareni, e dissero a quei grossi montanari: non 
vogliamo che vi chiamate più così, da una schiava, 
ma Saraceni, da Sara. E perchè Maometto aveva 
più apparenza degli altri due, questi lo predicarono 
profeta di Dio, e quei montanari lo tennero per 
tale, tanto più dopo ch’ebbe messo in opera l’astuzia 
della colomba. Maometto cercò di piacere a Cri- 
stiani ed a Giudei, lodandone le leggi e con esse 
mettendo insieme la sua propria. L’autore, rias- 
sunta questa legge assai largamente, finisce col 
dire come Maometto morì avvelenato, e come fu 
deposto nell’arca sospesa in aria. ?°*° 


VIII 


Può dirsi davvero tot capita tot sententiae : nè 
maggiore potrebb’essere la confusione. !*! Invero, 
il maestro o consigliere di Maometto talora ritiene 
le fattezze del Bahîrà, talora quelle del Varaka 
delle leggende musulmane: talora è credente e di- 
fensore del cristianesimo, tal altra è eretico, 
ariano, !* nestoriano, giacobita: secondo una ver- 
sione, opera per tornar in grazia ai confratelli 
che l’hanno espulso, secondo un’altra per vendi- 
carsene: è via via monaco ??, patriarca, cardinale ; 
ha nome Babîrà, Felice, Sergio, Sosio, Solio o 
Grosio, Nestorio, !** Niccolò. Maometto anch’esso 


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Py! LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


qualche volta ci è dato per pagano, qualche altra 
per cristiano: si chiama Ocin, Pelagio, Niccolò: è 
mago, è illetterato, è scolaro di Bologna: viene da 
Costantinopoli, da Antiochia, dalle Smirne e d’altre 
parti della pagania o della cristianità : è arabo, 
è spagnolo, *** è romano, è di casa Colonna; '* 
qualche volta si confonde col maestro, ed è lui 
il diacono, il cardinale prossimo al papato ; presso 
l’ultimo autore che citammo, e che sembra voler 
procedere eccleticamente, abbiamo una triade : 
Niccolò, Sergio e Maometto ; e altrove diverranno 
quattro. Vedremo ancora altre varianti, altri me- 
scolamenti, altre contaminazioni di varie leggende 
fra loro. Dall’una leggenda all’altra, i personaggi 
si scambiano i nomi e le parti: la voce pubblica, 
la tradizione orale, fissandosi nella scrittura, rispec- 
| chia la confusione delle menti. In tanta incostanza, 
quel che riman fermo si è pur questo : che Mao- 
metto o fu cristiano o da un cristiano fu ammae- 
strato, e che l’Islamismo è propaggine eretica del 
Cristianesimo. 

Non altrimenti, in fin dei conti, la pensò anche 
Dante mettendo Maometto nella bolgia dei semt- 
natori di scandali e di scisma. Così facendo, egli 
non giudicava di testa sua, ma seguiva un giudizio 
a lui trasmesso dalle età precedenti, e che doveva 
ancora per qualche tempo perpetuarsi nelle suc- 
cessive. Senonchè, per quel felice accorgimento, 
per quella lucida intuizione che appartiene al genio, 
ei vide che l’andar più oltre in quel viluppo di 
leggende per sbrogliarne il vero, era mettere il 
piede in una selva selvaggia, e si contentò di 
riordare Maometto con Alì, e farlo interessare 


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IN OCCIDENTE 225 


alle sorti di Fra Doleino. !*” Bisogna ricorrere ai 
suoi commentatori, che da fonti diverse attingono, 
per avere di che abbellirsi, e vedere quanta scelta 
avrebbe avuto il poeta ove avesse voluto distesa - 
mente narrare i fatti di Maomettlo. 

Invero l’ Anonimo Laurenziano '*8 identifica 
Maometto con Niccolò cardinale, che i colleghi 
defraudarono del promesso papato: le Chiose !?° 
attribuite a Jacopo Alighieri fanno di Maometto 
un prelato di Spagna, mandato a convertire gli 
infedeli, e del quale il papa non avrebbe voluto 
riconoscere le fatiche e i merili. Questo premio 
sarebbe stato negato, secondo le Chiose del falso 
Boccaccio !* e secondo Jacopo della Lana, !* non 
a Maometto, ma a Niccolo monaco delle Smirne, 
che poi avrebbe sedotto Maometto stesso : sebbene 
vi sia altra lezione di quest’ ultimo commento, 
che ritorna a Maometto cardinale. Ma questa fiaba 
è risolutamente negata dall’ Ottimo, ?* che a Mao- 
metto dà per maestro e consigliere il monaco ere- 
tico Sergio: nè altrimenti scrivono Benvenuto da 
Imola !3° e Pietro di Dante, ?*' il quale però non 
ignora ciò che favoleggiavasi e di Niccolò chierico 
romano e dell’esser Sergio diacono di Antiochia. 
L’Anonimo riccardiano, !*8 citando in sul prin- 
cipio la Cronaca Martiniana, sembrerebbe che ad 
essa volesse riferirsi, ma il testo ch’ei segue, nella 
parte almeno che fa menzione di Bahîrà, o, com’ei 
dice, Bacayra, e dell’aver questi scoperto in Mao- 
metto fanciullo i segni della profezia, si direbbe il 
libro di Guglielmo di Tripoli od altro simile ; pol 
evidentemente prende altra guida ricordando Sergio, 
già gran chierico in corte di Roma e di lì scac- 


D’ ANCONA - Il 15 


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296 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


ciato per eretico, che rifugiatosi in Arabia, si unisce 
ad un giudeo e a Maometto, e fra loro tre formano 
la nuova legge. E a questo commentatore s’ ac- 
costa assai nel racconto su tal materia Giovanni 
Villani: rimanendo tuttavia dubbio per noi, se 
l’uno abbia attinto dall’altro, o ambedue si rife- 
riscano a una fonte comune. Il Buti! dice voler 
scegliere fra le versioni del Varagine quella che 
sembri più vera, e comincia da Sergio monaco 
nestoriano espulso dal monastero, ma non tace 
di Sergio arcidiacono e dell’altro defraudato del 
cappello. E questi tre ricorda il Bargigi:!* e il 
primo e il terzo il Landino. ***° Ma quasi ci scor- 
davamo che se Pietro di Dante fa di Maometto un 
giudeo, le Chiose falsamente attribuite al Boccaccio 
lo dicono figlio, nientemeno! di Abramo e di Agar. 
. Tutti questi antichi illustratori di Dante potreb- 
bero in coscienza dire ciò che confessa il Buti, 
dopo esposto il dubbio che Alì punito insieme 
con Maometto sia non il discepolo, ma il maestro: 
« Di queste istorie m’abbi scusato tu, lettore, chè 
» non se ne può trovare verità certa ». E più 
tardi Guiniforto: « Di questo Macometto non si 
» può sapere la certa verità; in tanti modi si 
» conta la storia »: confessioni che riproducono e 
comprovano le dubbiezze dei contemporanei, per 
non dire la loro ignoranza sulla verità dei fatti 
risguardanti Maometto e l’ Islamismo. 14° 

Ai commentatori di Dante può non inopportu- 
namente aggiungersi un imitatore del gran poeta: 
Fazio degli Uberti; il quale nel Dittamondo ragio- 
nando assai a lungo di Maometto e della sua 
legge, pone il trattato in bocca a Fra Ricoldo, 


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IN OCCIDENTE DI7 


al modo che altre parti del poema sono in quella 
di Solino o di Tolomeo, volendo così significare 
che si serve delle costoro scritture. Se non che, 
in materia così ampiamente diffusa nel parlar 
delle genti e nei libri degli storici, dei viaggiatori, 
dei teologi, e così diversamente riferita, Fra Ri- 
coldo non è la sola guida del poeta. Anzi può 
risolutamente dirsi che se nel riferire le dottrine 
di Maometto (lib. V, cap. 11-13) Fazio segue in 
tutto il peregrinatore francescano, nel raccontarne 
invece la vita (cap. 10), attinge a fonte men pura, 
anzi a più d’una fonte di diversa bontà. Ma poichè 
ciò che a noi più particolarmente preme è quello 
che dicevasi del maestro o de’ maestri cristiani 
di Maometto, a questo ci restringeremo, notando 
che dapprima si legge; 
Monaco Sergio, dalla fede sciolto, 


Si trasse a lui (Maometto), e col suo operare, 
Fe’ che fu re di quel popolo stolto. 141 


E qui segue il noto inganno della colomba, che, 
dal Bellovacense in poi, trovasi in tanti scrittori, 
non però in Fra Ricoldo : indi fra altre cose, si 
parla dei compagni del profeta: 
Tra gli altri suoi compagni furon diece 
Che ordinfr l’ Alcoran ; de’ quai t’ incronico 
Gli tre cristiani con lor viste biece: 
Sergio fu l’un, del qual t'ho detto, monico, 


L'altro Nicola chierico, ed appresso 
Lo disperato del Papa canonico. 14 


Jacopo da Aqui, come abbiam visto, accoglie 


nel suo racconto, come due personaggi distinti, 
Sergio e Niccolò, ambidue, viridbus unitis, istitu- 


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DRY LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


tori ed istigatorìi di Maometto. Qui Fazio parrebbe 
andar più oltre, registrandone tre: Sergio, dalla 
fede sciolto, cioè il monaco eretico ; Nicola chierico, 
e il canonico disperato dal Papa. Di questi due 
ultimi l’uno parrebbe Nicola, non più cardinale 
ma chierico, cui fu negata la promessa tiara: 
l’altro, qui detto canonico, quegli al quale fu fatta 
ingiuria dal Papa, non riconoscendogli i servigj 
resi in paganìa, sicchè egli de hoc desperatus, 
come scrive Iacopo da Aqui, a fide christiana 
recessit. 14 Se non che, il chierico e il canonico 
sono uno sdoppiamento dello stesso personaggio 
leggendario, che talora ci è presentato come Car- 
dinale, cuîì il saero Collegio non mantenne la data 
parola, e tal altra come Prelato, al quale il Papa 
mancò di riguardi mandandogli un sopracciò nei 
paesi da lui conquistati al cristianesimo. Abbiamo 
qui una duplice versione della stessa leggenda: 
il protagonista, con nome diverso e diverso atteg- 
giamento, è sempre lo stesso, al modo che Sergio 
è sempre Sergio, sia che cì apparisca in figura di 
monaco, sia in figura di patriarca. Nella relazione 
del frate da Aqui ben possono comparire insieme 
Sergio e Nicola: ma se in Fazio lo stesso perso- 
naggio comparisce duplicato nel chierico e nel 
canonico, ciò non può avere origine se non da un 
equivoco : e il non trovar altrove tal fatto, con- 
ferma questo nostro giudizio. 

Con Fazio degli Uberti (1304?-1368?), siamo 
ben oltre nel secolo XIV, e con lui terminiamo 
le nostre ricerche. ‘4* Ma sarebbe utile insieme 
e curioso il proseguirle ancora, per vedere fino a 
qual tempo negli scrittori, e specialmente in quelli 


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IN OCCIDENTE DI9 


che più riflettono le opinioni e dottrine del volgo,?4 
sì rinvengano le discorse favole su Maometto e sul- 
l’Islamismo,! e quando su l’uno e su l’altro comin- 
cino ad apparire notizie più conformi al vero.! 


IX. 


Come in più piena luce di storia, prima nel 
secolo XVIII, e poi, e ben meglio, nel XIX, a poco 
a poco si sapesse il vero, e, in qualche parte rimasta 
men chiara, il probabile sulla vita e le gesta di 
Maometto, è noto a tutti gli studiosi, e via via ci 
è occorso di citare le opere più notevoli su tale 
argomento. Nè ci è permesso passare del tutto in 
silenzio due opere poetiche, l’una delle quali notis- 
sima, il Mahomet di Voltaire, e l’altra di un 
ingegno grandissimo, il Goethe. Della tragedia del 
primo fu non senza ragione sospettato che più che 
contro il Maomettismo mirasse a colpire il Cri- 
stianesimo, e più che il fanatismo musulmano ogni 
religione positiva: per l’autore tedesco dovevasi 
dimostrare una tesi filosofica sui limiti che l’uomo 
di genio trova, volendo attuare le idee più sublimi, 
nella realtà delle cose; e fu durevole rimpianto di 
lui il non aver posto ad effetto quel divisamento 
della sua giovinezza, del quale resta soltanto un 
Canto di Maometto.!* 

Nè forse si dorrà il lettore se accenniamo a un 
quasi ignoto poema italiano del secolo XVIII: al 
Maometto legislatore degli arabi e fondatore del- 
l'impero musulmano, poema esegetico, in XII Canti 
epici, del canonico kav. Baccanti di Casalmaggiore, 


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230 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


Vice- Custode della Colonia Eridania già uno dei 
XII Colleghi d’Arcadia, stampato in due volumi a 
Casalmaggiore dai fratelli Bizzani nel 1791 con 
figure ad ogni Canto. Perchè sia detto « poema 
esegetico » l’autore spiega nella breve prefazione : 
« cioè narrativo di ciò che fece Maometto per la 
» sua religione e per fondare l’ impero dei Musul- 
» mani ». Che i canti siano « epici » è ben naturale, e 
certo sono elaborati, essi e tutto il poema, secondo 
le ricette retoriche del tempo, derivate dall’esempio 
del Tasso, e suoi successori. Nivildo Amarinzio (chi 
diavol era ?) Custode generale d’Arcadia, sentito 
il parere di sei a ciò deputati: Narcete Cirurense, 
Demoleo Aristodemio, Mirtino Nassio, Simario 
Cronizio, Libario Egirèo e Ragilio Trezeniaco (chi 
diavol saranno costoro ?) dà licenza a Penteo Alci- 
medonziaco, che è poi l’autore del poema, di 
potersi servire pubblicandolo, del nome pastorale 
e dell’ insegna d’ Arcadia: e la censura ecclesia- 
stica vi aggiunge il suo Potest îimprimi. 

Chi è questo Canonico e anche Kav.? È, come ci 
narra il concittadino Giovanni Romani,'‘ Alberto 
Baccanti, nato in Casalmaggiore il 85 novembre 1718, 
che si laureò a Parma nel ’41, e poi si recò a Roma, 
dove fu del Collegio dei XII Colleghi Arcadi, indi 
a Napoli e in Sicilia, segretario del principe di 
Raffadali, e poi di quello di Castelnuovo. Visitò 
tutta Italia, e poi passò le Alpi e andò in Ger- 
mania, ove fu segretario di Eleonora Carlotta di 
Holstein, duchessa di Guastalla, dalla quale ebbe 
incarichi alle Corti di Sassonia, di Baviera e di 
Prussia. Conobbe allora Federigo II, Maria Teresa, 
Voltaire, l’Algarotti ed altri illustri del tempo. Tor- 


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IN OCCIDENTE 231 


nato in patria, vi ebbe un canonicato, e si recò 
in varie città come predicatore. Morì, essendo Vice- 
custode della Colonia Eridania, il 30 aprile 1805. 
Oltre il Maometto scrisse Lettere sopra letterati che 
vi sono stati al mondo (Casalmaggiore, 1779): Poe- 
metto lirico sopra il giuoco del pallone (ivi, 1790); 
Canzoniere (Mantova, 1794); Ultime Poesie (Casal- 
maggiore, 1804). 

Il Baccanti è un credente, non un fanatico. 
Già lo direbbe il suo ritratto, posto in fronte 
all’opera, con occhio vivo, faccia pienotta, proprio 
da canonico, con un ben ostentato crocione sul 
petto ; e meglio lo dicono alcune parole premesse al 
poema, dopo aver accennato alle contradittorie 
opinioni sul suo eroe: «Io però da quanto ho po- 
tuto rilevare da var) autori che hanno scritto la 
sua vita, dico: esser lui stato fornito di talenti 
rari, con una mistura di buone e ree qualità ». 


E udiamo ora la protasi obbligatoria : 
Canto l’ arabe imprese e il fondatore 

Del formidabil musulmano Impero: 
L’arte che usò, l’ ingegno ed il valore 
Per farsi al trono d’Asia ampio sentiero, 
Indarno accesi d’ un ostil furore 
Gentili Ebrei Cristiani ostacol fero. 
Appena fuori l’ {slamismo sorse, 
Arabia mise ogn’altra fede in forse. 


Ma il lettore certamente non chiederà ch’io 
gli dia una analisi del poema, che per dodici 
canti, con verseggiatura facilona e prolissa, si tra- 
scina sulle orme degli autori che nel secolo deci- 
mottavo scrissero su Maometto e sulla sua legge. 
Basterà dar un saggio di esso, nella parte che 
concerne l’opera di Sergio-Bohaîrà. 


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039 LA LEGGENDA Di MAOMETTO 


Il Mubadano, o capo dei Magi, spaventato da 
strani fenomeni tellurici che sconvolgono fin anche 
la Persia, spedisce nella Siria per saperne la causa 


Mazem famoso al par dei Zoroastri, 


il quale sapeva dai suoi libri magici che doveva 
esser nato un uomo di gran valore: 


Asèm in paradiso ei verrà detto 
Acmet in cielo, e in terra Maometto. 


E poichè sa anche che costui spesso capitava 
a Bosra, ivi si reca: 


Qui Fra Sergio trovò, quel che la schiena 

Ad Ario volse, e andò fra’ Nestoriani, 

Che d’albergarlo amò nel suo convento, 

Sebben fusse dei frati malcontento. 
Mazèm nel chiostro appena giunto fue, 

Che ritrovossi Maometto allato, 

Pria di lui giunto colle merci sue 

Su la piazza di Bosra a far mercato. 


Operò egli i suoi incantamenti e scongiuri, e 
poi, tratto l’oroscopo di Maometto, lo comunicò ad 
esso e al frate; il futuro profeta è colto dal suo 
male e cade a terra, mentre gli altri due gli scuopron 
sull’omero destro il sacro suggello. Sergio, detto 
anche « Fra Bochera », volendo vendicarsi dei suoi 
frati, insegna a Maometto come debba condursì per 
fondare religion nuova, ammaestrando una colomba 
che prenda alimento nel cavo del suo orecchio, e 
unendo ai precetti religiosi gli avvedimenti ed eser- 
cizj bellici. Intanto tutti tre si raccolgono in una 
caverna, e Mazèm salito in vetta al monte fa una 
scala di seta per salirvi; obbliga a comparire due 


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IN OCCIDENTE D33 


diavoli in forma di cavalli: Boracchio e Sandrino, 
che in un istanle portano in cielo Maometto 


Fra Sergio sol rimasto entro lo speco 
Esulta e ride; 


ma volendo uscire dalla spelonca non ne rinviene 
più il modo: grida: Mazèm, Mazèm; ma questi è 
in via per la Mecca. La morte sua è imminente, 
inevitabile, e insieme terribile e schifosa. Invano 


grida, invano piange: 


Premer sì sente nella parte onusta 
D’ inutil peso che vuol presto uscire, 
E di fetente intestinal midolla 

La tonaca riempie e la cocolla. 


Il fetore lo ammorba, gli toglie il fiato. Intanto 
è tornato Maometto cogli infernali alipedi: 


A la caverna s’incammina tosto 
L’ aereo pellegrin, dove rammenta 
D’ aver lasciato il monaco nascosto 
Il ritorno a aspettar de la giumenta; 
Ivi, geloso del secreto imposto, 
La volubil di lui indol paventa, 
E cerca or or di perderlo un pretesto, 
Giacchè senza di lui può fare il resto; 


e gli rimprovera di aver cangiato il luogo ove si 
dissetò Ismaele, in un « fratesco cesso » : 


Se... quest’ era un Santuario 

Perchè dunque cambiarlo in necessario? 
Nulla risponde il Frate a tal rampogna, 

Cui nulla cal de le correnti fole. 

Desio il pugne di uscir da quella fogna 

E di veder risorto il nuovo sole. 

A me, dice, la scala or sol bisogna 

E non rimbrotti e inutili parole. 

Ride il Profeta, e gli risponde: Aspetta, 

“h’ appenderò la solita scaletta. 


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DI4 LA LEGGENDA DI MAOMKTTO 


Corre, e di franti massi ond’è coperta 
L’alpestre rocca, fa raccolta e ammasso, 
E per la bocca de lo speco aperta 
Fa rotolar pesante acuto sasso, 
Che su la ghianda pineal scoperta 
Cadendo a piombo, il manda a Satanasso 
Non col colpo primier, ma col secondo, 
Di simil feccia liberando il mondo. 

E non desiste da la sassea colta 
Finchè turato non ne vegga il pozzo. 
Copia di pietre, selci e lastra molta 
Gitta, e glie n’empie lo scruposo gozzo, 
A ciò di là sia la memoria tolta 
D’ avvenimento così laido e sozzo, 
Nè saper possa la futura etate 
Dove la tomba sia di questo frate. 

Del guiderdone per l’ iniqua scola 
A lui dovuto, così fe’ l’ acquisto; 
Era ben questa la mercede sola 
D’ uno che i dogmi adulterò di Cristo ; 
Fama, che cresce più quanto più vola, 
Su’ vanni suoi non ebbe uomo più tristo, 
Che, per desio di fare a’ suoi dispetto, 
Il primo fu a morir per Maometto. 


In quest’episodio, oltre il quale non progre- 
diremo, sembrerebbe originale e propria al poeta- 
canonico solo la parte più sconcia, se non ricordasse 
il racconto del chierico lapidato nel pozzo con 
nera ingratitudine, che già riferimmo secondo la 
narrazione di Tommaso Tusco. 


X. 


Non possiamo ormai chiudere queste nostre 
indagini, senza aggiungere qualche osservazione 
sui nomi coi quali la tradizione del medio evo ha 
designato Maometto stesso o il suo cristiano isti- 
tutore. I nomi sono, come vedemmo, quelli di 


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IN OCCIDENTE 235 


Sergio, Niccolò e Pelagio. Sono nomi come ognuno 
si accorge, appartenuti a veri e proprj eresiarchi, 
talchè si direbbero predestinati a chiunque, com’essi, 
facesse opera di ribellione e di scisma. Cotesti 
nomi erano veramente fra i primi che ricorrevano 
alla fantasia e alla memoria, quando si dovesse 
designare un perfido eretico. 

Quanto a Sergio in particolare, deve notarsi 
che l’eresiarca di tal nome, capo dei monoteliti e 
compilatore dell’ ectesîi (a. 632), visse appunto ai 
tempi di Maometto : cosicchè nelle opere degli 
storici, come nella memoria delle genti, stavano 
l’uno accosto all’altro colui che fece prevaricare 
l’imperatore bizantino, e l’altro che avrebbe dato 
i mai consigli al predestinato coreiscita. Monote- 
lismo e maomettismo furono i due flagelli della 
Chiesa nel secolo settimo: furono le due macchie 
del regno, d’altra parte glorioso, di Eraclio, ritro- 
vatore della croce. Nei più antichi documenti il 
consigliere di Maometto non è altro se non un 
oscuro monaco, un eremita senza nome: ma quando 
più tardi si volle più precisamente designarlo, già 
dovevasi esser fatta una certa confusione fra lui 
ed il patriarca di Costantinopoli. Vero è che di 
poi, come in Vincenzo Bellovacense, i due Sergi, 
quantunque ricordati l’uno appresso all’altro, sono 
talvolta l’un dall’altro distinti: ma ormai presso 
i più, cioè presso il volgo e presso i men colti 
scrittori, il monaco anonimo aveva usurpato il 
nome del suo coetaneo e compagno di colpe. Ad 
ogni modo poi, sarebbe difficile non riconoscere 
l’immagine del patriarca bizantino nella nuova 
dignità di patriarca antiocheno, alla quale in al- 


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936 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


cune scritture di età più tarda viene innalzato 
l'oscuro monaco !5° delle più antiche scritture. Si 
può giurare che questo patriarca d’Antiochia non 
esisterebbe nella tradizione, se Sergio, il vero 
Sergio, non fosse stato davvero patriarca di Bisanzio. 

Quanto al secondo nome, ricordiamoci che il 
Liber Nicolay principia col dire che Niccolò, detto 
anche Maometto « unus fuit de septem dyaconibus 
» cardinalibus ecclesie romane ». Da questo Nic- 
colò di Antiochia ricordato negli Atti degli Apo- 
stoli (VI, 5) ed eletto uno dei sette diaconi della 
chiesa primitiva, a torto 6 a ragione, chè qui non 
vogliamo investigarlo, vuolsi derivata l’eresia dei 
nicolaiti. Questa consisteva in una specie di quie- 
tismo, pel quale, a beneficio della tranquillità 
dell’animo, si concedeva libero sfogo alle passioni 
del senso : e ciò che più generalmente, ma non 
senza esagerazione, nel Medio Evo si seppe della 
nuova dottrina predicata da Maometto, fu appunto 
quello ch’egli statuiva o permetteva rispetto agli 
impulsi carnali. !*! Facile poteva dunque essere 
in tempi di grande ignoranza, confondere insieme 
l’una eresia e l’altra, e per identità di carattere 
fare autore di ambedue il medesimo personaggio. 
Certo è che la confusione si fece, e fu d’uopo che 
venisse contraddetta. E quanto all’anacronismo 
che si sarebbe commesso, ricordiamo di aver veduto 
che un commentatore di Dante, vale a dire un 
uomo non del tutto incolto, poteva nel secolo XIV, 
saltando a piè pari parecchie e parecchie gene- 
razioni, !* fare di Maometto un figlio di Abramo 
e di Agar. 

Resta adesso a dire del nome di Pelagio, che 


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IN OCCIDENTE 237 


troviamo solo nei rifacimenti metrici del Zesoro, 
e nel più antico di essi, fuori di rima. Come mai 
Maometto diventa Pelagio, secondo il testo anteriore 
progenie dei Colonna, e secondo il testo posteriore, 
monaco della badia di S. Damagio? Confessiamo di 
non sapere affalto scoprire l’ origine e il processo 
di questa tramutazione. Solo ci piace notare che 
il capitolo nel quale Jacopo da Varagine narra la 
leggenda di Maometto è quello de sancito Pelagio 
papa. Non ci dissimuliamo che questo fatto avrebbe 
massima importanza al proposito nostro, se i due 
testi stessero in relazione diretta col Varagine ; ad 
ogni modo, poichè i due versificatori espressa- 
mente si richiamano alla tradizione orale, ben 
potrebb’essere che in questa si fosse già prodotta 
una certa confusione di nomi, per la collocazione 
dei fatti del fondatore dell’ Islanismo solto cotesta 
rubrica della nota e diffusa Legenda aurea. Circa 
poi al fare di Pelagio un Colonnese, non so se 
dovremmo vedere qui, come in generale vorrebbe 
l’Amari, segno di ire guelfe contro gli avversarj 
ghibellini; o se vi ha qualche tradizione, invano 
del resto da me cercata, la quale faccia rampolli 
dell’ illustre famiglia l’ uno (555-559) o l'altro 
(597-590) dei due Pelagi, pontefici del sesto secolo, 
e ambedue romani di nazione. 


XI. 
Passando ora ad altro, abbiam visto che in 


varj modi è nei diversi testi raccontata la morte 
di Maometto. Taluno lo fa perire ucciso dali suoi 


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338 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 

seguaci, segnatamente giudei: ‘5 i più, d’accordo 
coi narratori arabi !"* lo dicono morto di veleno, 
antecedentemente propinatogli in un agnello. 15 
Il nostro secondo verseggiatore lo fa uccidere e 
mangiare da una torma di porci: e sebbene il 
luogo sia corrotto, parrebbe ch’egli fosse assalito 
° dagli immondi animali mentre soddisfaceva a un 
bisogno del ventre. 15° Con qualche lieve diversità 
di particolari, questo ignominioso genere di morte 
è riferito anche da altri autori. Abbiamo visto 
che nel poema di Ildeberto, Maometto caduto in 
eccesso di epilessia, è in tale stato miseramente 
divorato da un gregge suino. Per Matteo Paris, 
Maometto ubriaco e pieno di cibo, cade in epi- 
lessia, ed è soffocato da una scrofa; !* ma la 
cagione vera della morte è il veleno sommini- 
stratogli dai nemici. Mal potrebbersi allegare in 
proposito due versi della Chanson de Roland, che 
dicono : 


Et Mahumet enz en un fosset butent 
Et porc et chien le mordent et defulent, 168 


perchè ivi si tratta di una statua,‘ di un idolo 
del profeta : ma non errerebbe chi qui vedesse una 
reminiscenza del genere di morte, che la tradizione 
più generalmente attribuiva a Maometto. !** Ben 
però se ne trova esplicita allusione in parecchi 
romanzi francesi. Così, nel Coronemens Looys : 


Mes il but trop par son enivrement, 
Puis le mengierent porcel vilainement (v. 846); 


e nel Floovant: 


Car toi ne Mahonmot ne pris pas I. denier; 
Bien a pase C. anz que truies l’ ont maingie (v. 373); 


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IN OCCIDENTE 239 


e nel Gaufrey : 


Et Robastre respont: Bien estes assotes 
Qui cuidies que Mahom resoit resuscites, 
Que pourchiaus estranglerent l’ autrier en I. fosses (v. 3580); 


e nella Conquete de Jerusalem : 


A I. josdi s’ala d’un fort vin enivrer: 

De la taverne issi: quant il s’en volt aler, 

En une place vit I. fumier reserver; 

Mahomes si colcha, ne s’ en volt trestorner; 

La l’ estranglerent porc, si com j’ oY conter: 

Per ce ne velt Juis de char de porc goster (v. 5546); 


e finalmente nell’ Ajol: 


Tant but que tous fu ivres, si ne se pot aidier, 

Ains ala en I. bos sous un arbre concier, 

Porc savage le prisent, que tout li ont mangie 

Le nes et le visage et les iex de son chief: 

Puis n’ oten lui vertu, car dieus ne l’ ot tant chier (v. 10090). 161 


Per cogliere l’ intimo senso di questa fiaba 


giova, paragonando questo passo con altro di 
Ildeberto, considerare quanto, forse a tutti ante- 
riore, scrive Guiberto di Nougent: « Sed hunc 


Ms  % % % % % % *% % è 


tantum tamque mirificum legislatorem quis exitus 
de medio tulerit, dicendum est. Quum subitaneo 
ictu epyleuseos saepe corrueret... accidit semel, 
dum solus obambulat, ut morbo elisus eodem 
caderet; et inventus, dum ipsa passione tor- 
quetur, a porcis in tantum discerpitur, ut nullae 
eius, praeter talos, reliquiae invenirentur. Ecce 
legifer optimus, dum epicureum, quem veri stoici, 
Christi scilicet cultores, occiderant, porcum resu- 
scitare molitur, immo prorsus resuscitat, porcus 
ipse porcis devorandus exponitur: ut obscoeni- 


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. 


9240 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


» tatis magisterium obscoenissimo, uti conveniunt, 
» fine concludat ». E soggiunge questi versi: 


Manditur ore suum, qui porcum vixerat, huius 
Membra beata cluunt, podice fusa suum. 

Quum talos ori, tum quod sus fudit odori 
Digno qui celebrat cultor honore ferat. 162 


Questa favola pertanto, che, come già addietro 
dicemmo, non ha nessun riscontro o appoggio in 
tradizioni musulmane, e che dovè nascere in occi- 
dente come prodotto misto dell’ ignoranza e del- 
l'odio, fu però foggiata secondo la legge del 
contrappasso morale. Poichè Maometto, nella cre- 
denza dei cristiani era promulgatore d’ ogni carnale 
sporcizia, bene stava che dovesse esser ucciso da 
quegli animali, che simboleggiano la sensualità 
sciolta da ogni freno !*. Come persecutore del 
cristianesimo egli, al pari dei suoi predecessori, 
doveva nell’ opinione dei fedeli perire di mala 
morte: e la sepoltura nel ventre di un porco era 
confacente alla sregolatezza del costume da lui 
promulgata. L’ ultima pena che poi gli infliggeva 
la coscienza popolare cristiana era, secondo accenna 
anche il nostro secondo versificatore, di confessare 
morendo, se non la superiorità della fede cristiana, 
almeno il beneficio finale del battesimo !*. La 
leggenda musulmana, forse ripetendo il vero, rac- 
contava che negli ultimi anni suoi, e durante la 
malattia che lo trasse a morte, il profeta si faceva 
versare sulla testa e sulle spalle fino a sette otri di 
acqua, e teneva le mani dentro un vaso di acqua 
fresca che ogni tanto si riversava sul capo!*”. Non 
ci voleva altro perchè questo autosistema idro- 
terapico, fra la gente occidentale, diventasse un 


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IN OCCIDENTE 241 


autobattesimo cristiano! Altra ben nota fiaba 
occidentale è quella della cassa mortuaria di Mao- 
metto sospesa in aria per virtù di calamita 1°. 
Se non che di altri era stato detto già ‘9, e da 
un musulmano, Ibn H’avvqgal, della salma di Ari- 
stotile nella gran moschea di Palermo 83. 


XII. 


E se ora, giunti al termine di queste faticose, 
ma forse non inutili, indagini, volessimo in breve 
riassumere e riordinare tutta l’ intricata matassa, 
ci parrebbe poter concludere che la prima e rudi- 
mental forma della leggenda occidentale e cristiana 
su Maometto, dovesse cercarsi nel racconto degli 
agiografi arabi sull’ incontro del profeta giovinetto 
con Bahîrà, col quale si confuse poi ed immede- 
simò quanto altre tradizioni arabe riferivano di 
Varaka e della parte da lui avuta nella riforma 
religiosa di Maometto. La leggenda, in che già 
primeggiava il solitario cristiano, seguace del- 
l’ eresia di Nestorio, si diffuse a poco a poco in 
Siria, nell’ Asia minore, nell’ impero bizantino; 
e passando nelle regioni occidentali, ove fu poi 
confermata dalla Disputatio, anch’ essa origina- 
riamente musulmana, ampiamente si ramificò e si 
colorò variamente. Le genti cristiane, che si cre- 
devano in possesso dell’ unica fede verace, e cui 
sì narrava al sorgere dell’ Islamismo aver assi- 
stito codesto monaco eretico, dovettero considerare 
l’Islamismo stesso, non come religione nuova, ma 
come nuovo scisma, e assegnargli impulsi diabolici 


D’ AncoNA - II 16 


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DAI LA LEGGENDA DI MAOMETTO IN OCCIDENTE 


e cagioni tutte umane di cupidigie carnali e di 
offeso orgoglio. Ma la mutazione più rilevante e 
di tulte la più strana è quella, per la quale da 
un cenobio orientale, dove i monaci contendono 
di teologiche sottigliezze e donde è espulso colui 
che si farà consigliere di Maometto, si passa a 
Roma, al centro della cristianità, là dove si tro- 
vano in conflitto tutte le grandezze e insieme tutte 
le miserie umane. Il monaco, che già in alcune 
versioni apparisce pretendente al patriarcato di 
Gerusalemme o di Alessandria, ora si muta in 
un presule ecclesiastico, che mira più in alto, al 
sommo pontificato, e sta già per salirvi. Così 
I’ Islamismo non nasce più per una guerricciuola 
di monaci nelle solitudini della Siria, ma ha suo 
primo germe in Roma, per opera di tale che ivi 
avrebbe potuto diventare guida e padre dei cre- 
denti in Cristo. Forse in questa origine romana 
e papale dell’ Islamismo vi è qualche sentore di 
« malizia » politica o religiosa; forse, più proba- 
bilmente, siffatta forma di leggenda appartiene ai 
tempi, nei quali, lramontata la gloria e la supre- 
mazia dell’ Oriente e delle Chiese di Gerusalemme, 
di Antiochia ed Alessandria, così nell’ ordine spi- 
rituale come nel temporale « Laterano alle cose 
» mortali andò di sopra » *°, e niun fatto impor- 
tante per la storia del cristianesimo e del mondo 
poleva immaginarsi senza che Roma più o meno 
vi partecipasse. E perciò Roma diventa, in questa 
capital forma della leggenda, patria effettiva od 
adottiva di Maometto, e in qualche modo la Curia 
romana è fatta culla della nuova eresia. 


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NOTE 


! Dei due rifacimenti italiani del Tesoro in versi volgari 
e della loro varia contenenza parlo in una ampia 
Memoria, che vide la luce negli Atti della R. Acca- 
demia dei Lincei, Serie IV, Vol, 4, p. 111-267, (1888), 
e della quale è parte questa illustrazione della leg- 
genda di Maometto in Occidente che, da sola, fu 
inserita nel Giorn. Stor. d. Lett. Italiana, XIII, 199. 

? 1] cod. tmpuoseli, ma, come in molti altri casi, manca 
un n o un tilde. O forse si può supporre un 
impuosesti. Ovvero anche manca qualche verso, 
nel quale dovrebbe dirsi come Pelagio trovò un 
arabo, lo trasse alla sua fede e « impuoseli nome 
Maometto ». 

3 Ognun sa che Mohammed in arabo significa lodevole. 
Altra significazione del nome di Maometto ci dà 
Benvenuto DA IMOLA, Coment., ediz. Vernon, Fi- 
renze, Barbèra, 1887, vol. II, p. 355: Dicitur enim 
Machometus, quasi malus comitus, idest guber- 
nator navis, idest ecclesiae Dei, quam deduxit ad 
naufragium, quia nec antea nec postea fuit maior 
ruina in ecclesia Dei. Il nostro versificatore, riferito 
il significato del nome secondo una etimologia 
dotta, scrive però Malcometto, secondo l’etimologia 
popolare, con evidente richiamo a commetter male. 

t Evidentemente questo verso va espunto; ce ne do- 
vrebbe essere uno che dicesse presso a poco così: 


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244 


LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


Nella ritornata un branco di porci avea, cioè: vi 
era sul cammino donde dovea far ritorno a’ suoi, 
un branco di porci. 


5 Il cod. usciavano. 
6 Il cod. avea e. Correggendo Che in Chi si potrebbe 


anche leggere: Chi ’l battesimo avea è lucerna. 


1 Arabo: hinzir; ebraico : chasir. 
3 Étud. d' hist. religieuse, Paris, Levy, 1859, p. 222. 
® V. il poema latino sulle imprese dei Pisani in Tu- 


nisia, in Du MfRiIL, Poés. popul. latines du M. A., 
Paris, Didot, 1847, p. 248. 


10 PieR DI CLUNY così conclude il suo trattato sul mao- 


mettismo: « Quae quidem olim diaboli machina- 
» tione concepta, primo per Arrium seminata, 
» deinde per istud Satanam, scilicet Machumet, 
» provecta, per Antichristum, vero ex toto secun- 
» dum diabolicam inventionem complebitur (in 
» Bibl. Patr., ediz. di Lione, XXII, 1031) ». E, a lui 
conforme, l’ autore dell’ Epitome bellor. sacror., 
dopo aver confrontato la dottrina di Maometto 
con quella di Sabellio ed Ario ed altri eretici: 
« Claret quod, illud quod diabolus in mundo 
» incepit per Arrium, et consummare non potuit, 
» postea, tabescente in Ecclesia fervore, per Macho- 
» metum consummavit, denique ad plenum con- 
» firmabit in fine saeculi per Antichristum, qui 
» suadebit mundo quod Christus non fuerit verus 
» Deus, nec filius Dei, nec bonus homo (in CAnI- 
» sIUS, Antig. lectiones, Amsterdam, 1725, IV, 
» 442) ». E Otiviero lo Scolastico, parlando dei 
Maomettani: « Unde verius haeretici quam Sara- 
» cenì nominari debeant (in EccARD, Corp. histor. 
» M. Aevi, II, 1409) ».. 


11 Del resto, in un programma del 1833 di un candidato 


dottorale presso la Facoltà di Lettere a Parigi, 
V. DeGoURGAS, intitolato De christiana origine 


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IN OCCIDENTE 245 


Maumeticae fidei (Parisiis, Lachevardiere) le due 
prime tesi ch’ egli si propone discutere sono: 
« Evangelio diffuso, omnis nova religio, quantula- 
cumque ex parte, christiana futura fuit — Mahu- 
metismus e christiano fonte delabitur ». 
12? « Presso di noi la parola monaco ha un senso ristretto, 
» e tal denominazione non sarebbe propria a un 
asceta giudeo-cristiano. Frattanto, etimologica- 
mente, designa un solitario, e non un cenobita, 
un claustrale; ed è possibile che questo termine 
presso i Bizantini sia stato adoperato in un 
senso più largo e insieme più conforme all’ eti- 
» mologia, che presso noi »: SPRENGER, Das Leben 
und die Lehre des Mohammad, Berlin, Partey, 
1862, II, 385, nota. Il vocabolo corrispondente 
arabo è ràhib, e lo stesso Sprenger, I, 178, 
osserva che qualche volta è adoperato in senso 
largo: per es.: Abù ’Amir è detto ràhib, « seb- 
» bene non fosse nè monaco nè cristiano, ma 
>» hanyf ». Réghib adunque « significa celibe, 
» asceta, sia esso monaco od eremita, cristiano 
» o no ». L’ Amari da me interrogato in propo- 
sito, mi afferma che ràhib vuol dire « temente » e 
si usa sempre nel significato di romito o monaco, o 
d’uomo che fugge le donne. Ad ogni modo, ciò che 
dicono gli autori che citeremo, vale a far ricono- 
scere nel ràhib in cui s’ imbattè il Profeta giovi- 
netto, un solitario cristiano, più o meno ortodosso. 
13 « Bahyr è nome personale non raro in arabo. L’au- 
tore del KAmus dice che fu portato da quattro 
seguaci del profeta e da quattro tàbi’; oltre 
a ciò ci sono tradizionisti così chiamati. 
Bahyrà è la forma nabatea (enfatica) di esso 
nome. Noi troviamo questa stessa forma anche 
in Zalychà e in Ibn Kamyta: tà è il nome 
dell'amante di Giuseppe d'Egitto, e qua il 


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LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


» nome di un astronomo sàbio, maestro del Tabit 
» b. Korra. Bahyrà significa in arabo una giu- 
» menta di cammello, esente da lavoro. Forse si 
» disse Bahyrà, come in persiano Azàd, un uomo 
» che allontana da sè le cure della vita, un ascela 
» libero »: SPRENGER, op. cit., II, 384, n. — La 
bibliografia su Bahyrà è da vedere in V. CHAUVIN, 
Bibliogr. d. ouvr. arab. ou relatifs aux Arabes, XI: 
Maomet, Leipzig, Harrassowitz, 1909, p. 201. 


14 Fra i vecchi biografi occidentali vedi PribEAUX, La 


vie de M., Amsterdam, 1609, p. 13: Dr BouLLAN- 
VILLIERS, Vie de M., Amsterdam, 17831, p. 220 
(traduz. italiana, Venezia, 1745); TuRpPin, Hist. 
de la vie de M., Paris, Costard, 1773, I, 295, 309; 
GAGNIER, Vie de M., Amsterdam, 1748, I, 121, ecc. ; 
e fra i moderni: Caussin DE PERCEVAL, Zssaîi 
sur l hist. des Arabes, Paris, Didot, 1849, I, 319; 
BARTHÉLEMY SAINT-HiLAiRE, Mauhomet et le Coran, 
Paris, Didier, 1865, 3, 89, ecc. Il CARLYLE, Les 
héros, le culte des héros et l’héroiq. dans l’ hist., 
trad. frane., Paris, Colin, 1888, p. 83, dice così: 
« Je ne sais pas ce qu'il faut penser de ce 
» Sergius, le moine nestorien, chez qui Abou 
» Taleb et lui, dit-on, logèrent, ou dans quelle 
» mesure un moine aurait pu donner son ensei- 
gnement è quelqu’ un d’ encore si jeune. Il est 
assez probable qu’ elle a été grandement exa- 
gérée cette histoire du moine nestorien. Maho- 
met n’avait que quatorze aus, il ne parlait 
absolument d’ autre langue que la sienne; 
beaucoup de choses en Syrie doivent nécessai- 
rement avoir été un étrange et inintelligible 
tourbillon pour lui. Mais les yeux de l’ado- 
lescent étaient ouverts: des lueurs de bien des 
choses devaient sans dovute y étre récueillies, et 
couver, bien énigmatiques encore, mais pour 


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IN OCCIDENTE 947 


» mrir d’ étrange facon en vues, en croyances 
» et en intuitions, un jour. Ces voyages en Syrie 
» furent probablement le commencement de bien 
» de choses pour Mahomet ». L. CAETANI, Annali 
dell’ Islam., Milano, Hoepli, I, 160, fa breve cenno 
della leggenda di Bahyrà, notando che il MuiR 
non le dà valore, e che lo SPRENGER non crede 
che i viaggi di Maometto possano riferirsi all’ età 
giovanile, ma alla virile. 

5 Edizione del Wiistenfeld, Gottinga, 1858, I, 115. E vedi 
anche il sunto di varie leggende in proposito, 
presso E. LeMmAIRESSE e G. DusarRrIc, Vie de M. 
d’ après la tradition, Paris, Maisonneuve, 1897, 
I, 124. 

16 Principali idoli della Mecca. 

‘7 Lo SPRENGER, I, 178, consacra parecchie pagine alla 
« Bahyrà-Legende », recando oltre il passo di Ibn 
Ishég, anche altri otto. Il nome di Bahyrà si trova 
solo in Ibn Ishàq; Ibn Sa‘d lo chiama Nestor 
(p. 184): gli altri parlano genericamente di un 
ràhib (monaco): salvo uno che porta Cahîb 
Dayrin (claustrale). Lo SPRENGER, idid., 188, 
sembra prestar poca fede alla leggenda, special- 
mente perchè collegata ad un viaggio di Maometto 
in Siria in età giovanissima, ch’ egli non ammette. 
Ma però ammette la realtà storica di Bahyrà, come 
di Zurair, Tammam e Darîs. — È ora da vedere 
CARRA DE VAUXx, La legende de Bahîra, in Revue 
de l’ Orient Chrétien, 1lI, (1897) pp. 439-554. Egli 
dopo aver ammesso due viaggi di M. in Siria, e 
due diversi monaci, Bahîrà e Nestor, nei quali 
8’ imbattè, rende conto di un manoscritto arabo, 
una specie di autobiografia di Bahîrà scrilta sulla 
relazione di un monaco cristiano d’ Egitto, Modrab, 
che si trova nella Bibliot. Naz. di Parigi, e che 
dovè esser composta nel primo secolo del califfato 


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248 


LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


abbassida. Secondo questa leggenda, il monaco 
Bahîrà, avendo avuto per certe sue visioni la 
conoscenza dell’avvenire e l’ annunzio della venuta 
di Maometto, quando questo a lui si presenta, 
non solo l’ammaestra nella fede cristiana, ma 
per lui compone il Corano e i doveri della nuova 
fede, intinti di arianesimo, consigliando di dar 
ad essi autorità fra gli arabi increduli e dubbiosi, 
mediante il noto artificio della vacca. Di tutto 
ciò, dell’ aver cioè aiutato la formazione e la dif- 
fusione del maomettismo, il vecchio monaco ora, 
nei suoi colloquj si mostra pentito, facendo per- 
sino una confutazione dell’ opera, della quale fu 
autore: del Corano. 


18 Debbo la traduzione anche di questo passo, che in 


parte ripete quello anteriormente riferito, all’ami- 
cizia dell’Amari, dall’ediz. di Leyda, 1882-85, serie I, 
vol. III, p. 1123: « Da Abù Humayd, da Salimah, 
» da Muhammad ibn ‘’Ishàq, da ’Abdallah ibn abQ 
» Bakr.... Indi Ab Tàlib si mosse in viaggio per 
» la Siria con una carovana di coreisciti per cagion 
» di commercio. Mentre si apparecchiava la caro- 
vana ed i viaggiatori erano pronti [a partire], 
il Profeta, come suppongono [i raccontatori], si 
gittò al collo dello zio, il quale impietosito disse: 
Per Dio, egli verrà con me e non mi abbando- 
nerà mai. Tali a un dipresso furono le sue 
parole. Fermossi la carovana a Bugra in Siria, 
ad un monastero (Sauma‘ak), nel quale vivea 
un monaco (ré@hib) per nome Bahîrà, uom dotto 
nella scienza cristiana, chè ab immemorabili 
non era mai in quel monastero mancato un 
monaco che possedesse la loro scienza, cavata, 
a quanto dicono, da un libro che passava in 
eredità da superiore a superiore di quel mona- 
stero. Smontata lì la carovana quest'anno, Bahîrà 


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IN OCCIDENTE 949 


imbandì loro un gran desinare, perocchè guar- 
dando dal monastero [la carovana che veniva], 
avea veduta sul Profeta una nuvola, che faceva 
ombra a lui solo tra tutta la brigata. Arrivati 
che furono e smontati all’ ombra di un albero 
vicino al monastero, Bahîrà vide l’ ombra arre- 
starsi sull’ albero, ed in questo i rami piegarsi 
sul Profeta in guisa da coprirlo. A tal vista 
Babîrà scese dal monastero, e mandò a convitar 
tutta la gente della carovana. Visto ch’ egli 
ebbe il Profeta, si messe a squadrarlo fitto, e 
riconobbe nella sua persona alcuni segni di 
quelli ch’ egli avea trovati nella descrizione [del 
Profeta], com’ essa gli tornava [dal suo libro]. 
Donde, fornito il desinare e andati i commen- 
sali chi qua chi là, Bahîrà [preso in disparte] il 
Profeta, lo interrogò circa alcuni fenomeni che 
gli avvenissero nel sonno o in veglia: e quando 
il Profeta glie li ebbe svelati, Bahîrà vide che 
corrispondeano per lo appunto alla descrizione, 
ch’ egli n’avea [nel suo libro]. Indi guardatogli 
il dorso vi scoprì in mezzo alle spalle il segno 
della profezia. E disse allo zio di lui Ab Talib: 
Che ti è questo fanciullo? Questo rispose: È 
mio figlio. Ma Babîrà a lui: Non può essere tuo 
figlio, perocchè questo giovanetto non può avere 
padre vivente. E Ab Talib: Sì, egli è figliuolo 
di un mio fratello. E del padre che n’ è? domandò 
Bahîrà. Morì, rispondeva Ab Talib, e lasciò 
incinta di questo bambino la vedova. È il vero, 
disse allora Bahîrà&. Fa di ritornare con lui al 
tuo paese, e guardalo bene dai Giudei. Per Dio! 
se lo vedessero, e sapessero quel che so io, lo 
farebbero capitar male. Questo ragazzo avrà alto 
stato. Fa presto a ricondurlo al suo paese. E così 
lo zio avacciandosi, arrivò con esso lui alla Mecca, 


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250) 


LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


» Higàm ’ibn Mubammad dice: AbA Tàlib andò 


» col profeta a Busrà di Siria quando egli era 


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fanciullo di nove anni. 

» Tradizione di Al ‘Abbàs ’ibn Muhammad, da 
Abî Nub, da YAnis ibn Abî Ishàg, da ADÒ 
Ishéàq ‘ibn Abî Mfsa, da Ab MASs8A. Questi disse: 
AbA Talib partì per la Siria in compagnia del 
Profeta e di alcuni Sayh coreisciti. Giunti presso 
il luogo ove dimorava il monaco, fecero sosta 
e scaricarono i cammelli. Andò loro all’ incontro 
questo monaco, il quale altre volte quando eran 
passati di lì non era mai andato loro all’ in- 
contro, nè si era pur fatto vivo. Scaricati i 
cammelli, il monaco si messe a girare in mezzo 
a' viaggiatori, finchè trovato il profeta, lo prese 
per mano dicendo: Questi è il signore dell’uni- 
verso, questi è l’inviato del padrone dell’universo, 
questi sarà mandato da Dio per misericordia 
verso il mondo. Allora alcuni Sayb coreisciti 
gli domandarono: E che ne sai tu? E il monaco 
a loro: Quando voi passavate per quella col- 
lina, non v'era albero e non v'era rupe che 
non si prosternasse innanzi a lui. Or gli alberi 
e le rupi non si prosternano che dinanzi i pro- 
feti. Inoltre io lo riconosco bene al suggello 
della profezia ch’ egli ha abbasso la cartilagine 
delle spalle, in forma di una mela. E andò via: 
fece imbandire la mensa, e ritornato con le 
vivande, mentre il Profeta [lontano] badava a 
pascolare i cammelli, disse: Su, mandate a chia- 
marlo. Ei ritornò ombreggiato da una nuvola, 
e il monaco [a' convitati]: Guardatelo, che la 
nuvola gli sovrasta [sempre] per fargli ombra. 
Avvicinossi il Profeta, mentre la brigata era già 
andata a mettersi all’ ombra di un albero, ed 
appena egli andò ad adagiarvisi anch’ egli, ecco 


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IN OCCIDENTE 9591 


» l'ombra dell’ albero volgersi tutta a lui, e il 

monaco a dire: Guardate come va a trovarlo 

l’ ombra di quest’ albero! Or mentre il monaco 

parlava con loro, raccomandando di non menarlo 

mai presso i ftdm, perocchè se l’ avessero veduto 
l'avrebbero riconosciuto ai noti segni e l’avreb- 
bero ucciso, ecco subito comparire una brigata 

di sette Rfm. Bahîrà si volse a loro doman- 

dando: Che volete? Risposero: Siam venuti 

perchè questo Profeta [del quale avevan sentito 
parlare] si è messo in via nel mese che corre, 
onde è stata mandata gente [in cerca di luil 
per ogni via, e a noi è occorso di battere questa 
via. E il monaco a loro: E avete lasciato 
addietro qualcuno di grado superiore al vostro? 
No, risposero, l’ è che noi abbiam pensato di 
batter questa via. Il monaco riprese: Vi è mai 
avvenuto di vedere che, quando Iddio voglia 
una cosa, vi sia uomo al mondo che possa con- 
trastarlo? No, risposero : e lo seguirono e rima- 
sero presso di lui. Egli allora andò a trovarli 

[gli arabi della carovana] e lor disse: Per l’ amor 

di Dio, chi di voi è il tutore di questo ragazzo? 

Risposero: È Ab0 Talib. E il monaco a scon- 

giurarlo che menasse a casa il profeta. ADÒ 

Bakr [che era nella brigata] lo fece accompa- 

gnare da Belal, e il monaco lo fornì di biscotto 
» e d’olio pel viaggio ». 

'9 Nei Rendiconti dell’ American Oriental Society di 
Boston, maggio 1887. Vi si promette la pubblica- 
zione dei testi, che ignoriamo se poi sia stata 
fatta. Debbo la conoscenza dei Rendiconti al dotto 
collega prof. Ignazio Guidi. 

20 ASSEMANI, Ribl. Orient., Romae, 1721, II, 416, e III, 
P. 1, 108. Quest’ autore ne parla a proposito dei 
jacobiti, ma osserva che altri lo fa nestoriano. 


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252 


21 Se 


ILA LEGGENDA DI MAOMETTO 


Tomaso nell’ Hist. monast., I, 35, lo dice nativo 
ex Gadala, Arabiae pago. BAR-HEBRAEUS scrive 
di lui che « per idem tempus innotuit Mohammad 
» Arabum pseudopropheta. Hunc Saidus, Nagra- 
nensium christianus princeps, cum Jesujabo 
patriarcha adiit, oblatisque ingentibus donis, 
fedus Christianos inter et Arabos ulriumque 
sectae stabiliri postulavit. Annuit Mahometus, 
deditque diploma, quo christianos arabibus 
commendabat etc. ». AmRus nel!a vita di Jesujab 
afferma ch’ egli compose parecchi libri: uno « quo 
» haesitantes in fide reprehendit: alterum de 
» nominibus et rebus, quae scriptura quidem con- 
» veniunt: tertium de Sacramentis Ecclesiae ». 
Ma niuna menzione si fa di codesta vita di Sergio ; 
ed è più probabile che fosse composta più tardi 
da altri, attribuendola a Jesujab per esser rimasta 
fama delle sue relazioni con Maometto. Jesujab 
morì nel 647. 

il libro siriaco fosse veramente del tempo a cui 
si vorrebbe attribuire, questa sarebbe la più antica 
menzione dell’ inganno della vacca, del quale altri 
molti parlano. Forse l'origine di questa fiaba non 
dovrebbe esser senza qualche legame col fatto, 
che la 2 sura del Corano, la quale del resto può 
passar per prima, perchè preceduta solo da una 
breve introduzione, è intitolata appunto la Vacca, 
dal parlarvisi di quella che Dio ordinò a Mosè di 
sagrificare. 


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22 Non disapprovata dal RENAN, op. cit., p. 217, anzi 


corroborata da nuove considerazioni. 


23 Così il testo dei traduttori francesi: e così, o per dir 


meglio, Serdjis, lesse il GaGnIER: il Caussin 
pe PercEvaL reca Djirdjis (Giorgio), ma avverte 
espressamente, I, 320, n., che non aveva sott’oc- 
chio il Masfidi, ma un altro autore arabo, che 


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IN OCCIDENTE 933 


riferisce il passo. Forse, ei dice, al nome men 

comune e straniero di Serdjes (Sergio) fu sostituito 

quello più noto di Djirdjis. Lo SPRENGER, II, 

385, osserva in proposito del nome di Sergio: 

« Fra i contemporanei del profeta non troviamo 

» nessun Sargis (Sergio), bensì un ’Abd Allah 

» b. Sargis, che può esser stato suo figlio. Nel- 

l’Igàba è detto ch’era mazanita e congiunto 

colla famiglia Machzîm. Secondo BocHary, 

"Abd Allah si stabilì in Bacra e avrebbe cono- 

sciuto il profeta. Secondo ’AcIM-AL-AHWAL, 

avrebbe visto il profeta, ma sarebbe stato 
troppo giovane per esser fra i suoi seguaci. 

Altri a ciò contraddicono, e lo annoverano fra 

i discepoli. Egli ha trasmesso delle tradizioni, 

delle quali alcune sono state comprese da Moslim 
» nella sua raccolta ». Nella Vita di Macometto, 
che precede L’ Alcorano tradotto nuovamente dal- 
l’arabo in lingua italiuna, Venezia, Arrivabene, 
1547, è detto: « Siro chiamato Surgio »; ma poi 
è detto « Sergio »: ed è singolar cosa in questo 
scritto l’ orazione cinquecentesca, che tien tre 
pagine, colla quale questo monaco nestoriano 
persuade Maometto a fondare nuova religione. 

24 Varie e fra loro disformi sono le genealogie di Bahyrà. 
Secondo Abul’Hasan Al-Besri « vocabatur Felix 
» filius Jonae, fili Abdo’l-Salibi: cognomen autem 
» ejus erat Bohaîra »; v. ABU’L-FEDA, traduzione 
Gagnier, (Oxoniae, 1723, p. 11). 

25 MacouDI, Les prairies d’ or, trad. par Barbier de 
Meynard et Pavet de Courteille, Paris, Imprim. 
Impériale, 1861, I, 146. 

26 Cfr. anche ABOULFEDA, Vie de M., trad. Noél des 
Vergers, Paris, Impr. royale, 1837, p. 9. 

2? Secondo lo SPRENGER, II, 387, un solo autore arabo, 
Zohry (—743) farebbe di Bahyrà un giudeo di Taymà. 


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do LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


28 Cfr. Ibn-Isbàg, in SPRENGER, I, 183 sgg.; e ABuL- 
FEDA, trad. cît., p. 10. 

2 Vedi SPRENGER, I, 178 sgg. 

30 Nel Commento del GAGNIER al De Vita et reb. Mohamm. 
di Abu’l-feda, Oxoniae, 1723, p. 11, si reca questo 
passo di Giorio Monaco: « Cumque cognovisset 
» Bohaîra illum (Mohammedb) esse ex ista tribu 
» (degli Arabi idolalri), misericordia motus et cha- 
» ritate, illum juvit, imbuitque cognitione Dei, 
» eique aliquot capita ex Evangelio, ex lege, ex 

Psalmis praelegit. Deinde ille in palriam et ad 

gentem suam reversus, dixit illis: Vae vobis! 

utique vos in errore manifesto versamini! ». 

3" Vedi SPRENGER, II, 379. 

32 SPRENGER, I, 484. 

33 Secondo il GAGNIER, Vie de M., I, 121, questa iden- 
tificazione si troverebbe anche in Abu’l-Hasan Alî. 

3 Vedi fra gli altri, G. SALE, Observat. hist. et critig. sur 
le Mahometisme, Genève, Barillot, 1751, p. 120: 
CAUSSIN DE PERCEVAL, op. cit., I, 323; BARTHÉL. 
S. HILAI1RE, 0p. cit., p. 71. 

3 Secondo alcuni scrittori musulmani citati dallo SPREN- 
GER, l, 344, Cadiga non andò da Varaka, ma vi 
mandò Maometto stesso ed Ab-bekr, Ma i più 
fanno andare lei. 

3 Vedi Caussin DE PeRrcEvaL, I, 359; BARTHÉL. SAINT- 
HILAIRE, p. 99, ecc. E tal è la più comune narra- 
zione degli scrittori arabi (vedi SPRENGER, I, 331 
e sgg.), ma presso qualcuno di essi, ad es. lhn 
Manda (vedi SPRENGER, II, 286), la visita di Cadiga 
a Varaka è preceduta da altre consimili consulte 
con altri personaggi, fra i quali il ràhib Bahîré 
(vedi SPRENGER, I, 304 e Segg.). 

3 Non voglio tacere che al dottissimo RENAN nella 
recensione ch’egli fece di questo mio scritto 
(Journ. d. Savants, luglio, 1889, e poi in Mélanges 


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IN OCCIDENTE 955 


religieux et histor., Paris, Calmann-Levy, 1904, 
p. 209) pare dubbioso che gli scrittori medievali 
cristiani abbiano avuto conoscenza dell’ episodio 
di Varaka; ma il particolare narrato da Teofane 
del « Monachum quemdam » ricercato dalla moglie 
del profeta, fa credere che qualcosa, anche confu- 
samente, ne sapevano. 
38 Chronographia, Bonn, Weber, 1839, p. bll. 
3° « Ipsa vero cum haberet adulterum (var. cum abîiret 
» ad alterum) quemdam, propter infidelitatem 
ibidem exulem habitantem, amicum suum, indi- 
cavit ei omnia, et nomen Angeli. At ille volens 
eam reddere certam, dixit ei: Veritatem locutus 
est: etenim iste Angelus mittitur ad cunctos 
prophetas. Ipsa ergo prima, suscepto pseudo- 
monachi verbo, credidit ei, et praedicavit id 
aliis mulieribus contribulibus suis, prophetam 
>» eum esse etc. »: Hist. Ecclesiast., Parisiis, 1649, 
p. 103-4. 
40 COSTANTINO, De udministr., imperi., c. XIV, dà di più 
la notizia che colui che ingannò Cadiga era ariano 
« Falsum testimonium addente ariano quodam 
» monachi nomen ementiente, turpis lucri gratia ». 
Il Banpurio qui annota che l’ « Anonymus in 
» Saracenicis, hunc monachum arianum Constan- 
» tinopoli e monasterio Callistrati, ob pravos in 
» fide sensus ejectum fuisse, scribit »; e aggiunge 
che le varie lezioni di Teofane lo chiamano Sergio, 
e la cronaca del Monaco altissiodorense, Selgio. 
Secondo il BaroNIO, ann. 630, la notizia del mona- 
stero donde sarebbe stato espulso il monaco, 
deriva « ex fragmento historico Anastasii biblio- 
» thecarii ». Nella Hfst. Eccl. di lui non v'è nulla 
di ciò; bensì in una nota alla Panoplia di EuTIMIO 
ZicABENE (in Galland, Riblioth. veter. patr., Vene- 
zia, XIV, 277) è detto che tal notizia è data nel 


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956 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


trattato de Suracenorum principe nel vol. XII 
dell’ ediz. parigina della Biblioth. Patr., che non 
mi ritrovo a mano. 

4! « Erat amicus ei mulieri monachus quidam, qui ob 
» falsam fidem relegatus ibi vivebat. Huic mulier 
» totam rem aperit, Angeli etiam nomine probato. 
» Is autem monachus, ut opinionem eam prorsus 
» in animo mulieris confirmaret, vero Moamedum 
» haec dicere ait, eum enim angelum ad quemvis 
» vatem mitti. Mulier fidem verbis impostoris 
» illius monachi habens, aliis suis gentilibus 
» mulieribus fabulam narravit etc. »: Compend. 
Hist., ediz. Bekker, Bonn, Weber, 1838, I, 738. 

4? « Ceterum homo improbus monachum se nequio- 

rem nactus, ob perversam religionem Byzantio 

exactum, illius instinctu uxori ait Archangelum 

Gabrielem de coelo ad se descendentem, divina 

quaedam arcana sibi revelare etc. Ea verba 
» testimonio dolosi monachi confirmabantur, qui 
» mulieri dicebat, omnino Gabrielem ad omnes 
» prophetas mitti solere »: Annal., in Heracl. 

4 Con piccole variazioni, dice il PRUTZ, Aulturgesch. 
d. Kreuezùge, Berlin, Rittler, 1883, p. 516, che 
da Teofane derivano le relazioni medievali su 
Maometto, le quali non appartengono alla let- 
teratura delle crociate propriamente detta: per 
es. SIGEBERTO GEMBLACENSE (1030?-1112), DitMARO 
(976 -1009), ecc. Aggiungi anche PaAuLo Diacono 
(7309-7979) Mist. Miscell., XVIII (Rer. Italic., I, 
132), ed EuriMmio (ed. cit., p. 277). Sugli autori 
bizantini in genere che trattano di Maometto, 
vedi V. CrRAUVIN, Bibliogr., d. ouvr. arabes ou 
relatifs aux Arabes, XI: Mahomet, Leipzig, Harras- 
sowitz, 1909, p. 152. 

4 Questo così detto miracolo del profeta arabo, si 
rinnovò in circostanze speciali dopo molti secoli, e 


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IN OCCIDENTE 2957 


vien così piacevolmente narrato da Vincenzo MONTI 
in una lettera alla moglie del 12 gennaio 1822 : « Per 
aver cagione di prolungare la presente voglio 
raccontarti cosa che ti farà ridere. In Fano, distante 
dieci miglia da Pesaro, dura tuttavia un antico 
costume, di celebrare, appunto di questi tempi, 
una giostra di tori, alla quale è molto il concorso 
dei paesi circonvicini; e giorni sono ebbe luogo 
il primo spettacolo. Fu mandato in arena un toro 
veramente feroce. Egli è legge che a ognuno, che 
ami di acciuffarsi con questa bestia, sia libero di 
entrare nello steccato. Niuno osò presentarsi 
contro questa fiera; e quanti cani si arrischia- 
rono di assalirlo, tanti ne furono lanciati in aria 
e sventrati. Finalmente si fece innanzi un villano, 
che, con istupore di tutti, si mise a fronte del 
tremendo animale. Gli si accostò francamente; e 
il toro, fatto mansuetissimo, lasciò avvicinarsi e 
carezzarsi e palparsi; e lambiva la mano che lo 
blandiva. A quel portento tutti restarono attenti 
e muti; indi un battere di mani che andava alle 
stelle. Quand’ ecco improvvisamente un uomo che 
s'alza e grida: Costui è un mago. È un mago, 
ripetono con voce furibonda alcuni altri dello 
stesso colore; e Fuoco al mago! fuoco al mago! 
s’intuona da tutte le parti. Il presidente della 
giostra, persuaso ancor esso che quel prodigio 
non poteva essere che mera opera del diavolo, 
fa spiccare quattro gendarmi che intimano al 
mago di uscire dallo steccato, e te lo menano 
prigione. Dimandato il perchè di questa soper- 
chieria, gli vien risposto: Perchè tu sei un mago, 
e n’andrai impiccato e bruciato. E che mago 
m’ andate voi contando? ripetè il villano. E non 
capisce sua Eccellenza o sua Reverenza, che, se 
il toro mi ha fatto carezze, egli è perchè ha rico- 


D’AnCcONA - II 17 


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258 


LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


nosciuto in me il suo padrone? Pareva che tale 
risposta, conforme alle testimonianze di molti, 
che per vero padrone del toro lo riconobbero e 
ne fecero giuramento, avesse dovuto far rinsa- 
vire il nobile Presidente, ma il povero mago è 
ancora nelle carceri, e si disputa quid agendum ». 


45 Gesta Dei per Francos, nel Recueil des Histor. d. 


Croisades, publ. par l’Acad. des Inscript. et Bell. 
lettr., Paris, Imprim. National, 1879, vol. IV, 
p. 128 e segg. 


4 Qui l'editore BrAuGENDRE pone in nota: « Haec 


» hypocrita et vaferrimi hominis descriptio non 
improbabiliter cedere possit in Sergium; non 
quidem illum Patriarcham Constantinopolita- 
num, hujus nominis I], qui ipse monothelita, 
Heraclium imperatorem monothelitam et mono- 
thelitarum protectorem effecerat, ut quidam 
erronee sunt opinati: sed alium Sergium, arme- 
num, pseudomonachum et suis ordinis aposta- 
tam, qui Arianorum et Nestorianorum erroribus 
infectus, impio Mahometo suam tunc sectam 
instituere meditanti, tam tenaciter adhaeserat, 
ut illo nequissimus ille pseudopropheta ad Alco- 
» ranum suum concinnandum usus fuerit ». 


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‘1 Il sig. Ziolecki nella prefazione alla nuova stampa 


del Roman de Mahomet di Alixandre dou Ponts, 
Oppeln, Maske, 1887, analizzando questo poema, 
p. XVI e seg., ha confuso insieme il mago, ch’ ei 
chiama Maometto, e Mamuzio. Invece nel poema 
francese il mago è innominato; e l’altro perso- 
naggio è Mamuzio = Maometto. 


48 È curioso come questo nome sopravviva nel parlare 


Salentino, quando volendosi imprecare contro 
qualche persona, gli si grida « Bruttu Mamuzio », 
alludendo con ciò a Maometto: vedi G. GABRIELI, 


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IN OCCIDENTE 259 


Gesù Cristo nel Qorano, in Bessarione, Riv. di studi 
orient., IX, n. 55-56. 


4 HiLDEBERTI, Opera, ediz. Beaugendre, Paris, 1708, 


50 Il 


p. 1277 e segg. Riprodotto anche nel vol. CLXXI 
della Patrologia latina del Migne, 1854. 

luogo a questo corrispondente nel Roman de 
Mahomet, che da questo poema di Walther deriva, 
come diremo più oltre, suona così: 


En cel tans, en cele partie 
Estoit uns hom de sainte vie 
Demourans en uns hermitage 
En une montaigne sauvage ecc. 


A questo luogo nella prima edizione del Roman 
(Paris, Silvestre, 1831) vi ha una nota, che forse 
più che al MicHEL editore del testo latino, appar- 
tiene all’ orientalista ReinAUD, autore della pre- 
fazione, e che così dice: « Il s’agit ici d’ un 
» moine chrétien qui demeuroit à Bosra, à quelque 
» distance de Damas, et que Mahomet eut occa- 
» sion de voir dans ses voyages. La pluspart des 
» auteurs arabes le nomment Bohayra, et Guil- 
» laume de Tripoli Bahayra ». È più oltre: « Des 
» auteurs musulmans parlent de l’ entrevue de 
» Mahomet avec l’ermite; mais, bien loin de 
» préter à celui-ci un langage aussi sévère, ils 
» disent que ce religieux fut frappé à la première 
» vue de l’éclat divin qui brilloit de la personne 
» du Prophéte, et qu'il crut aussitòt en lui ». 
E più oltre ancora: « Nous avons dit que l’ermite 
» qui prédit è Mahomet sa mission, demeuroit 
» près de Bosra en Syrie, c’ est-à-dire à plus de 
» deux cents lieues de la Mecque; ainsi le récit 
» du poéète est inadmissible. L’auteur a sans 
» doute été trompé par l’ existence d’ une grotte 


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260 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


située dans le voisinage de la Mecque, où 

Mahomet, quelque temps avant sa mission, 

avoit coutume de se retirer pour y méditer, 

disoit-il, sur les choses célestes, et où l’ ange 

Gabriel lui apparut pour la première fois ». 
Chi scrisse queste giuste osservazioni, evidente- 
mente non sospettò il legame che noi abbiam 
cercato di mettere in chiara luce fra Varaka, 
dimorante appunto presso la Mecca, e il solitario 
dei testi occidentali. 

5 Il poeta francese che, come vedremo, ridusse in versi 
questo racconto, biasima il modo di procedere 
dell’ eremita : 


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” 


Loenges m’ en convenra faire 

De lui, selonc mon examplaire; 
Nequedent je croi vraiement 

Que li examplaires me ment, 

Pour chou q’ aida a tesmoigner 

A Mahommet, le losengier 

Que li angeles a lui venoit 

Quant li vilains maus le prennoit 

Et que loy nouviele feroit 

Ki de par Diu faite seroit (vv. 1157-67). 


5 Il poema di Walther fu pubblicato dal Du MéERIL, 
| Poés. popul. latin. du moyen Gge, Paris, Franck, 
1847, p. 368-405. 

53 La prima edizione del Roman fu fatta, come dicemmo, 
nel 1831, Paris, Silvestre, da FrancIisquE MICHEL, 
con una notevole prefazione del REINAUD, e di essa 
trattò il RAyNOUARD, nel Journal des Savants (1831): 
la seconda, come pur dicemmo, fu fatta più tardi 
dal sig. BoLesLAw ZioLEcKi, Oppeln, Maske, 1887. 
Precede al testo un « Beitràge zur Mahomet- 
Legende im Mittelalter », dove molte notizie sono 
raccolte, ma esposte, a parer nostro, confusa- 
mente. 


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IN OCCIDENTE 261 


La data del poema si raccoglie dagli ultimi 
versi: « Chi faut li romans de Mahon. Qui fu fais 
» el mont de Loon, En l’an de l’incarnation 
» De nostre signor Jesucrist Mil et cc. cinkante 
» et wit ». 

9 ZIOLECKI, p. XXIII. A p. VII lo Z. ricorda altri scritti 
proprj (Greifswald, Abel, 1886) e del PerER (Gan- 
dersheim, Hertel, 1885) sulle relazioni fra il poema 
latino e il francese. 

5 Circa gli stessi tempi troviamo che alle fonti auten- 
tiche ricorreva anche EuTIMIO ZiGABENE (m. dopo 
1118) nella Panoplia, ove scrive aver Maometto 
composto « centum et tredecim fabellas », che sono 
i 113 capitoli dell’ Alcorano, e ne cita e confuta 
una ventina (vedi traduz. Zini, Venetia, Scoto, 
1550, fol. 60 e segg., e GALLAND, Bibl. Veter. Patr., 
Venetiis, 1781, XIV, 227 e segg., trad. BEUMER). 
Eutimio fa derivare la dottrina di Maometto da 
varie fonti: « in Palestinam iter faciens, incidit 
» in Haebraeos, deinde et in Arianos, tandem 
» etiam in Nestorianos.... Celeriter e Judaeorum 
» doctrina, Unius imperium, ex Arianorum vero, 
» Verbum et Spiritum res esse conditas, e Nestoria- 
» norum tandem, Hominis cultum hausit. E quibus 
» omnibus inter se junctis, mixtam quandam reli- 
» gionem commentus est ». 

56 L’anno è attestato dall’ Epistola di Pietro a Ber- 
nardo (v. Bibl. Patr., ediz. di Lione, XXII, 1030), 

confermata da ALBERICUS TRIUM FONTIUM: « quo 

anno per industriam abbatis Petri Cluniacensis, 
liber qui dicitur Alchoranus cum tota secta 
impii et pseudoprophetae Mahumet, de arabico 
in latinum translatus est, hoc ratione ut sciat 
catholica Ecclesia quam vilis et quam frivola 
et quam apertis mendaciis plena sit ista seducto- 
ris illius doctrina, quae a tempore b. Gregorii 


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262 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


» paulo post, id est a tempore imperatoris Heraclii, 
» Saracenorum populos infecit, et hic erat annus 
» alhigere 537 : alhigera autem dicitur sublimatio in 
» prophetam etc. »: in Mon. Germ. Hist., XXIII, 837. 

5 Vedi l’ Epistola, la Summula, la Disputatio e la Vita 
di Maometto in BiBLIANDER, Machumetis.... vita ac 
doctrina ipseque Alcoran etc., Basilea, 1547. Vedi 
anche l’Epistola e brani della Summula riferiti da 
R. Otto, Mohamed in der Anschauung des Mit- 
telalt., in Modern Language Notes del 1889, p. 90. 
La Epistola e la Summula, non che la prefazione 
di Roberto all’ Alcorano tradotto, sono anche 
nella Bibl. Patr. di Lione, vol. XXII. Del Trattato 
contro i Saraceni restano solo i due primi libri, 
di quattro che erano, stampati dal MARTÈNE, 
Ampliss. collect., IX, 1119. 

58 Il diavolo in persona è quello che ispirò Maometto, 
come attesta HuGo MONACO, ABATE FLAVINIACENSE 
(1065-11409): « Die igitur quadam cum reverteretur 
» ab auditorio, obviam habuit diabolum habentem 
» 08 aureum, et dicentem se esse Gabrielem 
» Archangelum, missum a Deo ad ipsum ut prae- 
» dicaret gentis suae quae audierat et sciebat. 
» Tune coepit praedicare Mahamet, ut derelin- 
» querent idola manu facta et adorarent creato- 
» rem, qui fecit quae sunt.... et regnavit in 
» Damasco, et caput regni ejus Babylonia civitas 
» fecit »: in Monum. Germ. Hist., VIII, 323. — 
Bono GiaMBoNI nella Introduzione alle Virtù narra 
(8 XLIV) come la perversa missione di dividere 
e pervertire i fedeli, fosse, dopo un conciliabolo 
di tutti i demoni e per consiglio di Mammone, 
affidata a Maometto, e da essi fosse composto e 
a lui affidato |’ Alcorano. 

59 Un intero capitolo è dallo SPRENGER (II, 3/9 e segg.) 
dedicato a ricercare colla scorta degli scrittori 


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IN OCCIDENTE 263 


musulmani e in specie dei commentatori ad alcuni 
passi del Corano (V, 55; XXVIII, 44-53) chi fu 
l’ istruttore di Maometto, cioè quale cristiano o 
quali cristiani gli insegnassero la dottrina del- 
l’ Evangelo. I più invero menzionano Bahîrà, o 
Abraha l’abissino. BocHaRy ricorda un cristiano 
che si convertì all’ islamismo e molte cose scrisse 
pel Profeta, poi si rifece cristiano. IBN ’ABBAS 
afferma che alla Mecca viveva un giovane cri- 
stiano di nome Bileàm, che spesso fu visitato da 
Maometto; ’IkrRiMmA narra che Maometto si faceva 
spesso leggere i libri santi da ’Asch schiavo 
cristiano; IBN IsHAQ menziona Gabr, e ABD ALLAH 
BEN Mostim a Gabr aggiunge Yasar, presso i quali 
spesso il profeta si fermava ad ascoltar la lettura 
della Bibbia, sicchè gli avversarj lo rimprovera- 
vano che si facesse istruire da costoro, ai quali 
altri aggiungono Addas. Invece per MogaHID 
quelli che ajutarono Maometto a comporre il 
Corano furono giudei; e per Zory, Bahîrà stesso 
era un giudeo di Taymà: vedi SPRENGER, Il, 387. 
60 Sulle relazioni fra il giudaismo e il maomettismo, 
vedi ABR. GrIGER, Was hat Mohammed aus dem 
Judenth. aufgenommen? Bonn, 1833: sul qual libro 
vedi un art. di SiLv. pe Sacy nel Journ. des 
Savants, 1835, p. 162. Vedi anche HirscHFELD, 
Judische Elemente în Koran, Berlin, 1878. 
6! RENAN, op. cit., p. 213: « Mahomet doit au moins 
» autant aux juifs, qu’ aux chrétiens ». 
6° « Eo tamen scimus tempore, et anno praecipue mil- 
lesimo centesimo quadragesimo uno, Judaeos 
valde commotos et tumultuosos fuisse: quare 
plurimi scriptores hac aetate contra Judaeos 
extiterunt, Gislebertus scilicet Wintoniensis, 
Rupertus Tuyensis abbas, Gislebertus Novigen- 
tinus, Petrusque Blesensis »: DuPARAY, De Petri 


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264 


LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


venerabilis vita et operib., Cabilloni, Montalan, 


1857, p. 60. 
63 Vedi BIBLIANDER, op. cit., I, 3: « Dedit Satan suc- 


» 
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» 
» 
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» 
» 


» 


cessum errori, et Sergium monachum bhaeretici 
Nestorii sectatorem, ab ecclesia expulsum, ad 
partes illas Arabiae transmisit, et monachum 
haereticum pseudoprophetae coniunxit. Itaque 
Sergius conjunctus Machumet, quod ei deerat 
supplevit, et scripturas sacras tam veteris 
Testamenti quam novi, secundum magistri sui 
Nestorii intellectum, qui Salvatorem nostrum 
Deum esse negabat, partim, prout sibi visum 
est, ei exponens, simulque apocryphorum fabulis 
eum plenissime imbuens, christianum nestoria- 
num effecit. Et ut tota iniquitatis plenitudo in 
Machumet conflueret, et nihil ei ad perditionem 
sui vel aliorum deesset, adjuncti sunt Judaei 
heretico. Et ne verus christianus fieret, dolose 
praecaventes homini novis rebus inhianti, non 
scripturarum veritatem, sed fabulas suas, quibus 
nunc usquam abundat Machumet, Judaei insi- 
bilant. Sic ab optimis doctoribus Judaeia et 
haereticis Machumet instructus, Alcoranum 
suum condidil, et tam ex fabulis judaicis quam 
ex haereticorum naeniis confectam nefariam 
scripturam barbaro illo suo modo contexuit »: 


Epist. ad Domin. Bernard. Clarevall. abatem. 
Cfr. ciò che scrive frate AnceLo PIENTINI da Cor- 
signa nel suo libro Delle demostrationi degli errori 
della setta macometana, dedicato al granduca Fer- 
dinando (Firenze, Marescotti, 1688, pagina 12: 


« 


.... A questo 8’ aggiunse che trovandosi a punto 


in quel tempo Sergio, monaco nestoriano, scac- 
ciato dal monastero per non so che suo gran 
misfatto, se n° andò in Mecca, là dove trovò molti 
pagani e giudei, e desiderando di fare qualche 


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IN OCCIDENTE 265 


cosa per la quale potesse acquistarsi gran ripu- 
tatione e gloria.... cercò d’indurce alla setta sua 
e al cristianesimo quanti potea. Et parendo a 
Macometto che fosse persona di gran valore e di 
cui potesse meglio d’ ogni altro servirsi per l’in- 
tento suo, mostrò di voler essere cristiano e 
seguitare (come poi seguitò in molte cose) la 
dottrina sua egli ancora. E... temendo certi giudei, 
i quali erano parimente persone di molto valore, 
che essendo diventato nestoriano, potesse pregiu- 
dicare alla setta loro, se gli accostarono essi 
ancora, e lo istruirono secondo la propria intel- 
ligenza loro nelle scritture sante, come fatto avea 
e facea continuamente Sergio secondo la sua. Di 
modo che insieme egli veniva a partecipare con 
gli idolatri, coi cristiani, ma eretici, e coi giudei. 
Et di qui è, che nelle leggi sue, cioè nel suo 
Alcorano, egli mette molte cose che mirano al 
paganesimo, molte al christianesimo e molte al 
giudaismo ». 

6 La Disputatio, della quale tanto Si servì Pier di Cluny 
e dopo lui, come vedremo, Vincenzo Bellovacense, 
non dev’ esser cosa molto differente da un testo 
arabo, pubblicato nel 1880 a Londra, dalla Turkisch 
Mission and Society, e contenente una disputa 
tenuta innanzi al califo Al Mamfn figlio di Harùàn 
ar Ràsîd (786-834), che, come ognun sa, fu muta- 
zelita, e perciò poco ortodosso. La parte del cri- 
stianesimo vi è sostenuta da ’Abd al Massîh (il 
servo del Messia) ibn Ishàq al Kindî. Egli narra 
che Sergio monaco, scacciato e scomunicato, pro- 
ponendosi di cancellar la sua colpa con qualche 
generosa azione, si recò alla Mecca, dove trovò 
Giudei e adoratori degli idoli. Cultore di questi 
ultimi era Maometto, che in breve egli ridusse 
cristiano nestoriano, suggerendogli di far passare 


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266 


LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


le dottrine che gli insegnava per rivelazioni del- 
I’ angelo Gabriele, e persuadendolo a mutare il 
suo nome, com’ egli aveva mutato il proprio in 
quello di Nestorio. Con ciò ei destò le ire dei 
Giudei, contro i quali si volse Maometto, che 
pendeva al cristianesimo, insozzato però del- 
l’ eresia nestoriana. Ad ogni modo, la propaganda 
cristiana progrediva, quando Maometto morì, e 
sorsero i due giudei ’Abd Allah ibn Sall&àm e 
Ka‘b, chiamato il dottore; i quali fingendosi 
seguaci di lui, ne alterarono la legge, e favorendo 
Alì contro Ab Bekr, n’ebbero il libro del Corano, 
a cui fecero interpolazioni in senso giudaico. 
Questo scritto arabo è stato tradotto e stampato 
a Londra nel 1882 da sir William Muir col titolo 
The Apology of Al Kindy written at the Court of 
Al Maman (a. h. 215 = 830) in defence of Cri- 
stianity. Il Muir nota nella prefazione che l’ opera 
di Al Kindî è citata anche da Al Biruni, cronologo 
arabo dei primi dell’ XI sec. Ambedue questi libri 
mi furono gentilmente comunicati dal prof. Guidi. 


6 « Instantibus itaque eisdem temporibus, missum fuit 


» quoddam scriptum domino Papae, scilicet Gre- 
» gorio nono, de partibus orientalibus per prae- 
» dicatores, partes illas peragrantes. Quod, cum 
» ad multorum audientiam pervenisset, error, 
» immo furor Machometi prophetae Saracinorum, 
» qui in eo descriptus est, cunctos commovit in 
» sibilum et derisum. Haec autem suo loco, sci- 
» licet anno DCXXII, quando pestis machometica 
» suborta est, praeteraguntur »: p. 289. 


6 Questa relazione, se non era la Disputatio, già nota 


in Occidente per la traduzione di PiER DI CLUNY, 
doveva esser qualche scrittura che molto le asso- 
migliava: come il Libellus în partibus transmarinis, 
del quale vedremo poi giovarsì il Bellovacense. 


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IN OCCIDENTE 967 


67 « Causa quidem praecipua, quare lex machometica 


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invaluit, dicitur fuisse quidam monachus prius 
christianissimus, Solius (var. in margine: Ser- 
gius) nomine, qui propter haeresim excommu- 
nicatus, extra omnem Dei ecclesiam fuit ejectus. 
Ille in christianos vendicare se cupiens, perrexit 
ad locum qui dicitur Thenme. Inde pervenit in 
desertum Malse, ubi homines duobus modis 
invenit credentes: maior enim pars erat hebraea, 
minor pars idola colebat. Ibi cum ille Monachus 
apostata et socer Machometh in unum conjun- 
gerentur et pariter colloquerentur, amici facti 
sunt. Mutavit autem monachum nomen suum, 
vocavitque se Nestoreum. Pliurima itaque ora- 
cula et testificationes ex Veteri Testamento et 
Novo et ex dictis Prophetarum docuit illum, et 
Machometh callide ad erroris sui firmamentum 
annexuit: et ita a talium auxilio et suggestio- 
nibus, coepit ille seductor super omnes tribus 
exaltari. Erant autem rudes homines et inculti 
ac simplices, et ad seducendum faciles, et car- 
nales »: Historia Major, Parisiis, Pelé, 1644, 
291. 

quoniam magnus laqueus diaboli et profunda 
fovea perditionis futurus erat homo ille, cum 
rudis esset et illitteratus, providit ei mille artifex 
Christianae religionis inimicus socios et coadiu- 
tores erroris sui, qui eidem tamquam impietatis 
instrumenta assisterent, et ipsum fallaciter 
instruerent et in nequitia foverent. Quidam 
enim monachus, homo apostata et kaereticus, 
vir Belial, nomine Sosius, cum de execrabili 
haeresi Romae fuisset publice convictus et con- 
demnatus, et a fidelium consortio fuisset penitus 
expulsus, fugit ad partes Arabiae, cupiens se 
de molestia sibi facta contra Christianos vin- 


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LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


dicare. Cum autem invenisset Machumetum, qui 
jam aliquam habebat in populo suo praeminen- 
liam, nec tamen a multis adhuc Propheta puta- 
balur, coepit eum cum quodam Judaeo, qui 
similiter ipsi Machometo adhaeserat, exbhortari 
et admonere, quatenus sicut Moyses et Christus 
legem dederunt populo suo et propter hoc ab 
universis reputati sunt magni, ita et ipse, ut 
magni nominis et summus Propheta haberetur, 
consiliis et documentis ipsius Monachi et Judaei, 
legem darent illi populo, cujus major pars idola 
colebat et facile ad ejus doctrinam flecti possent. 
Machometus autem, eorum perversis acquiescens 
suggestionibus, ut majoris auctoritatis lex ejus 
esse videretur, ex veteri et novo Testamento 
ad argumentum erroris sui, predictis haeretico 
et judaeo docentibus, quaedam adjunxit adin- 
ventionibus propriis, quae suggerente diabolo. 
de corde suo finxit etc. »: Hist. Hierosolimit., 


in BonaaRs, Gesta Dei per Francos, Hannov. 1611, 


p. 1056. 
6 « Eo tempore Mahumetus propheta Saracenorum 


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surrexit. Fuit autem magus. Et quia epilepticus 
ne perciperetur, dicebat se tunc loqui ‘cum 
angelo quotiescumque caderel. A quodam etiam 
monacho, nomine Sergio, apostata, ad deci- 
piendum populum informabatur. Hic Mahumet 
sive Mahometus traxit originem de Hysmaél, et 
cum mercator esset pauperrimus, quamdam 
divitem viduam, mentiens se Messiam, duxit 
uxorem. Et cum dicta mulier doluisset se epi- 
leptico nupsisse, dixit ipse, se cum Gabriele 
archangelo loqui, et quod tamquam carnalis 
homo non valens sustinere ejus splendorem, 
deficiebat et cadebat. Credidit hoc mulier, et 


» omnes Arabes et Ismahelitae, quibus coepit 


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IN OCCIDENTE RI 


novas leges fingere, ipsis legibus devotionis 

testamento fidem adhibentes, eumque suum 

legislatorem esse profitentur.... Jesum Christum 

Dominum nostrum credunt de Maria Virgine 

conceptum et natum: quem sine peccato vixisse 

et prophetam et plusquam prophetam prote- 
stantur.... et vivum ad coelos ascendisse non 
discredunt. Unde quando, tempore treguarum, 
sapientes eorum Jerosolymam ascendebant, 
codices evangeliorum sibi postulabant, eos 
exosculantes et venerantes.... Lex autem illo- 
rum, quam, diabolo dictante, ministerio Sergii 
monaci apostatae, ab haeretico Mahometo Sara- 
ceni habent arabice scriptam, a gladio coepit, 
per gladium tenere animabitur, etc. »: Chronica, 
Antverpiae, Plantin, 1574, p. 273. 

7 « De Mahumet pseudopropheta pauca locutus est 
» (Anastasio), sed quibus temporibus fuit, lucide 
» designavit »: in Mon. Germ. Hist., IX, 307. 

7# La colomba diventa un uccello meraviglioso « par 
les pieres et l’ or » in una redazione de La ven- 
geance de Jésus-Crist della Nazionale di Torino, 
riferita da A. GRAF (Giorn. St. Lett. It., XII, 204). 
L’ uccello, scongiurato da Nerone, porta Machon 
al cospetto di lui e di Tito suo figlio in Roma. 
Ivi, drizzato un « eschafaut », si fa a predicare, 
non si sa bene se la nuova o l’antica fede, finchè 
vien -dall’ uccello ricondotto alla Mecca, dove 
muore ed è sospeso, per la virtù dell’ amianto, 
fra cielo e terra. Il GRAF definisce tutto ciò per 
« guazzabuglio », e non merita altro nome. 

La leggenda della colomba viveva anche fin 
presso ai dì nostri fra la plebe romana, ma appro- 
priata a San Gregorio taumaturgo, confuso con 
San Gregorio Magno, la cui immagine si dipingeva 
con Jo Spirito Santo in forma di colomba all’orec- 


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LA L:GGENDA DI MAOMETTO 


chio, in atto di ispirargli e dettargli ciò che scri- 
veva: vedi il BeLLI (edizione Morandi, IV, 293): 


Va spargenno pe’ Rroma un framasone 
Ch’ er papa San Grigorio taumaturgo 
Era un furbo e un maestro di fiuzione, 
E pprotenne quell’ anima de turco 
Che in ne l’orecchia, pe’ cchiamà er piccione, 
Ce se metteva un vago de granturco, 


* Dei due disputanti, dice il Bellovacense, certamente 


togliendolo da Pier di Cluny, che ambedue erano 
familiari e noti a Emirhilmomini re dei Saraceni. 
Probabilmente si deve intendere Emir al Momini 
e scorgervi il califo AI Mamfn, davanti al quale 
AI Kindî disputò, come vedemmo, in difesa del 
cristianesimo. 


78 Così certo per errore: meglio Matteo Paris: Thenme 


(= Tehama). 


7 « Discipulus ei factus est Machomet, et ille se, propter 


» hoc, Nestorium nuncupavit »: Spec. RQistor., 
XXIII, c. 5I. 


© '['soFANE aveva parlato in genere di dieci giudei: 


qui il numero è indeterminato; e secondo l’ indole 
dei tempi, ai giudei avversa, è a questi imputato 
tutto ciò che l’ Alcorano contiene di perverso, e 
di contrario al cristianesimo. Più che al monaco, 
nestoriano ed eretico, la colpa spetterebbe dunque 
ai giudei. L’ asserzione è ripetuta anche dal Car- 
DINAL DE Cusa nella sua Cribratio Alcorani, che, 
citato il nobélis arabus christianus, autore della 
Disputatio, conclude: « Videtur igitur quod Machu- 
met ab initio fundatus fuit per Sergium ut esset 
christianus, et legem illam servaret. Ab illa via 
non potuerunt Judaei ipsum amovere, sed, ut 
quantum possent retraherent, addiderunt illa 
per quae videretur propriae sectae propheta, et 


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IN OCCIDENTE 271 


» veteri Testamento non minus quam Evangelio 
» fidem dare.... Fertur supranominatos Judaeos 
» se Machumet conjunxisse, ut impedirent ne per- 
» fectus fieret christianus »: in BIBLIANDER, II, 
33, 39. 

76 Spec. histor., lib. XXIII, cap. 39-61. 

© Il Tractatus di GuaLiELMO DI TRiIpPoLI fu per la prima 
volta pubblicato dal dott. Hans PruTZz, della cui 
già citata opera Kulturgeschichte d. Kreusziùge, e 
della ricca bibliografia che soggiunge al cap. Die 
Vorstellungen des christlichen Mittelalters von 
Mohammed und seiner Lehre (p. 72 e segg., 543 
e segg.) mi sono molto giovato; e qui mi piace 
attestarlo. | 

78 È curioso che di tal venuta di Maometto a questo 
monastero affermata dalla tradizione, e della rive- 
lazione ivi concessa a un monaco della missione 
del profeta, si giovassero posteriormente coloro 
che vi dimoravano, per ottenere privileg) ed esen- 
zioni dalla Porta, come il QuaRESMIUS attesta per 
averlo saputo sul luogo: « Addam hic quod in 
» partibus istis audivi, Sergium dicunt fuisse, mo- 
» nachum montis Sinai: idque monachi ejus loci 
» fatentur, et insuper addunt, cum aliquando Maho- 
» metes camelos ageret cum mercatorum sodalitio, 
» supra illum, licet ceteris inferior esset, magnam 
» apparuisse aquilam extensis alis, dictumque tune 
» fuisset ab uno ex monachis illis, magnum eum 
» futurum esse, ab eoque petiisse, et sublimatus 
» et ad principatum evectus, locum Sinai eximeret 
» a tributis. Risisse Mahomelum, sed annuisse 
» petitioni: cumque super hoc singrapha ejus depo- 
» sceretur, quod scribere ignoraret, manu in atra- 
» mento intineta, veluti chirographi effigie chartae 
» impressisse: quam accipientes Sinaitas mona- 
» chos, ejus beneficio a vectigalibus Turcarum 


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279 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


» imperatori solvendis liberos evasisse: atque ho- 
» dierno tempore chirographum illum Costantino- 
» poli penes Turcarum imperatori asservari »: 
Historica theolog. et moral. Terrae Sanctae Eluci- 
datio, Autverpiae, ex offic. Plantiniana, 1639, I, 129. 
? « Dum scilicet sancti patres christiani in civitatibus 
» et desertis, tamquam firmamenti sidera, Egypium 
» et mundum illuminantes splendorem Deo et homi- 
» nibus et odorem darent, extitit quidam religiosus 
» vir christianus, simplex sed vite austere, nomine 
» Bahayra, reclusus in quodam monasterio sito 
» in deserte Arabie via, que ducit Arabes ab Ara- 
» bia Mechana, relinquendo Mare rubrum ad Leu- 
» cam, ultra montem Synay. Ad prefatum quidem 
» monasterium, ubi clausus morabatur Bahayra, 
» tamquam ad stationem et terminum unius diete 
» coiebant frequenter mercatores itinerantes Syri, 
» Arabes et Egiptii, Christiani et Sarraceni, inter 
» quos venientes erat quidam ad dictum mona- 
» sterium, qui futurus erat in gentem magnam et 
» robustissimam, per quam Christi ecclesia esset 
» multum affligenda. Et hec revelata fuerant dicto 
» Bahbayra recluso, propter quod vehementer ipsum 
» desiderabat venturum et eius cotidie prestola- 
» batur adventum. Venit itaque dies, et ecce mer- 
» catorum caterva quam Arabes dicunt dafela, ad 
» dictum pervenit monasterium. Rogantur merca- 
» tores venire ad reclusum, sed vir requisitus 
» minime invenitur. Adveniunt postea mercatorum 
» famuli, et omnes qui custodiebant camelos, et 
» divina revelatione invenitur qui querebatur, puer 
» videlicet orphanus, egrotativus, pauper et vilis, 
» custos cameli, natione Arabs, de genere Ysmaelis, 
» de quo dictum est Genes., XVI: Hic erit ferus 
» homo, manus ejus contra omnes, et e regione 
» omnium fratrum suorum figet tabernacula sua»... 


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IN OCCIDENTE 973 


« Hic ponunt Sarraceni primum miraculum, quod 
» Deus operatus est, ut dicunt, pro famulo suo 
» adhuc parvulo, dicentes quod parva porta curie 
» monasterii, per quam transibat, ad presentiam 
» pueri, dum vellet intrare parvulus, ita divino 
» nutu crevit dilatata et arcualiter exaltata est, ut 
» curie imperialis videretur hostium aut introitus 
» domus regie magestalis. Recipitur tandem puer 
» a religioso Bahayra, tamquam filius dilectus 
» tractatus, pascitur, induitur, ab omnibus ample- 
» ctitur, et filius adoptivus nominatur reclusi, in- 
» struitur et docetur, ut fugiat ydolorum culturam, 
» et unum Deum colat, et Jesum Marie virginis 
» filium invocet toto corde. Verumptamen fratres 
» monasterii predicta facientes puerum retinere 
» non potuerunt, quem demiserunt abire, spon- 
» sione ad eo recepta, quod ad ipsos reddiret. 
» Adherebat quidem puer diviti mercatori, quem 
» suum reputabat et vocabat alumpnum. Crevit 
» itaque puer etate, prudentia et industria et cor- 
» poris pariter elegantia. Merces vero domini sui 
» factus adolescens tamquam mercator portabat 
» fideliter et augebat, et ad magistrum suum me- 
» moratum reclusum frequentius et deortus venie- 
» bat. Moritur tandem dominus adolescentis, dives 
» et peccuniosus valde industria et probitate ado- 
» lescentis. Quem videns, relicta ejus elegantis 
» forme et felicis fortune in maritum assumpgsit; 
» mutatur famulus in dominum, impinguatus, 
» incrassatus, dilatatus opibus, familia et parenti- 
» bus... Munera offerentur et promittentur obse- 
» quia, multiplicantur amici, et fiunt ei domestici 
» plurimi, quorum primus erat ejus avunculus 
» nomine Hely, qui dicti Machometi filiam, nomine 
» Fatimam, consanguineam postmodo accepit in 
» uxorem. Sic ab omni sua gente cepit honorari 


D’ ANCONA - II 18 


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LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


» et primus vocari et tamquam dominus et magi- 
» ster venerari. Decem elegit sodales, quorum pri- 
» mus erat Ebotherer, nomina vero aliorum latine 
» scribi non possunt. Congregantur ad eum familie 
» Arabum habitantium in desertis Arabiae meri- 
» dionalis... Crevit itaque Machometus, et crevit 
» globus, agmen et robur ejus, ceperunt eum timere 
» provincie et provinciarum reges, etomnes populi, 
» principes et omnes terre judices. Ad predictum 
» magistrum suum Bahayram frequentius venie- 
» bat, et in veniendo et moram faciendo apud 
» ipsum sodales gravabat, quem tamen ipse liben- 
» ter audiebat et multa pro eo faciebat. Ob quam 
» causam sodales cogitaverunt Bahayram interfi- 
» cere, sed timebant magistrum. Accidit igitur 
» quadam nocte, ut gravati longa collatione, qua 
» tenuit magistrum reclusus, cum cernerent magi- 
» strum temulentum, pugione ipsius Machometi 
» iugulavernnt virum sanctum nocte illa, impo- 
» nentes eidem magistro quod nimia ebrietate alie- 
» natus suum interfecerat magistrum et auctorem. 
» Mane autem facto, dum Machometus sanctum 
» virum quereret licentiam accepturus et dicturus 
» vale, inveniens ipsum mortuum vehementer con- 
» tristatus cepit querere homicidas, et cum argue- 
» retur a sodalibus tamquam auctor sceleris ebrio- 
» SUS, credens verum esse quod dicebant, conscius 
» quod ebrius extiterat nocte illa et videns pro- 
» prium gladium cruentatum, contra ebrietatem 
» et vinum ebrietatis causam maledixit omnes vini 
» potitores, venditores et emptores; ob quam cau- 
» sam Sarraceni devoti vinum non bibebant nec 
» bibunt, Racabitarum more. Mortuo itaque Ba- 
» hayra christiano, quasi freno soluto, Machometi 
» caterva laxat malicie frena: discurrunt ut pre- 
» dones, raptores rapiunt, mactant et perdunt pro- 


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IN OCCIDENTE 275 


» vincias perturbantes et regna, usque ad mortem 
» ipsius Machometi ». 

80 S. PETRI Pascasii MARTYRIS etc., Opera, Metriti, 
1674, p. 7. 

84 « Monachus quidam valde doctus et sapiens, peritus- 
» que artium liberalium, ambitiosus honoris ina- 
» nisque gloriae cupidus, pervenit in Romam; sed 
» cum videret quod illic consequi quod appetebat 
» non posset, confusus et verecundus, in corde 
» proposuit suo iniquum aliquid contra Romanam 
» Curiam moliri, sicque inter christianos divisio- 
» nem seminavit et schisma. Et quia in Baruch 
» prophetia legerat, quod populi ab Agar descen- 
» dentes futuri erant mobiles, vani, mutabiles, 
» fabulatores, vaniloqui, loquaces, et exquisitores 
» sapientiae rerum terrenarum, avidique rerum 
» temporalium, mare trajecit et perrexit ad Arabiae 
» terras et loca, ubi dictos populos ab Agar et Ismael 
» ejus filio descendentes, sciebat habitare... Et 
» praedictus Monachus potest esse quod natus sit 
» in illa Mauria majori, ubi sunt Athiopes, nam 
» falsus et fallax ille in omnibus suis factis et ver- 
» bis erat, sicque false et fallaciter se a principio 
» gessit in quibuscumque manum imposuit etc. », 
p. 52. — Vedi anche la Cronique de JEAN D’ OUTRE- 
MEUSE, cit. da V. CHAUVIN, op. cit. p. 181. 

82 « In Maurorum libris scriptum est, quemdam Chri- 
» stianum, nomine Sergium, in Mahometum'et in 
» cjus sectam cecidisse: hic autem Sergius agilis 
» valde, acutus et perspicax erat ad grassandum 
» et latrocinamdum, et melius quam alius sequen- 
» tium Mahometum, semitas et tramites, vias et 
» arenas cognoscebat, et quando ad furandum, 
» diripiendumque pergebat, praestigiis utebatur 
» et subtus arenam defodiebat ‘ abscondebatque 
» struthionum ova, aqua plena, et quando cum 


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2/6 


LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


» camelis, quos furatus grassatusque erat, redibat, 
» ille suique socii ex illa aqua quam defoderat et 
» absconderat, bibebant: et qui illos sequebantur, 
» redibant, non enim audebant pergere post illos, 
» quia bene cognoverant in illis arenis aquam, nisi 
» post multa dierum itinera, non inveniri. Et mira- 
» bantur, quomodo non siti peribant, et quomodo 
» vias et semitas in illis arenis cognoscere pote- 
» rant; ideoque multi redibant, et Mabometi sectam 
» sequebantur, et propter damna vitanda, quae a 
» Mahometi sectatoribus accipiebant, et propter 
» mira et numquam visa quae tum videbant et por- 
» tenta judicabant miraculoque attribuebant. Et in 
» hoc Sergio intelligere potestis et cognoscere, qui 
» et quales fuerint Christiani. Judaei et Gentiles 
» qui primum sunt Mahometum secuti: qualesque 
» etiam sibi accepit apostolos, et quomodo illos 
» in corporum animarumque salutem praedicare 
» docuerit etc. », p. 22. 


8 « Invento igitur quodam monacho christiano, sed 


» secta nestoriano, vel ut alii quidam ferunt, quo- 
» dam Clerico, qui ab Ecclesia turbatus abscesserat, 
» eo quod in ea non fuerat assecutus honorem, 
» quo dignum se esse credebat, qui dissertitudine 
» suae linguae ad se plurimos attrahebat, ei fami- 
» liaris effectus, in brevi ab ipso edoctus est de 
» novo et veteri Testamento ». 


84 Gesta Imperat. et Pontif., nei Monum. Germ. Hist., 


XXII, p. 4933. 


8 « Putant enim quidam, hunc Nicolaum, illum unum 


» de ex sepiem primis diaconibus fuisse, et Nico- 
» laitarum ab eo dictorum Secta, quae etiam in 
» Apocalypsi nominatur, hance modernorum Sara- 
» cenorum legem existere. Somniant et alii alios, 
» et sicut lectionis incuriosi et rerum gestarum 
» ignari, sic et in aliis casibus, falsa quaelibet 


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IN OCCIDENTE 977 


» opinanlur. Fuit autem iste, tempore Imperatoris 
» Heraclii etc. »: Epistol., lib. IV, in Max. Bibl. 
Patr., ediz. Lione, XXII, 919. Le stesse cose, 
quasi colle stesse parole, ripete PieR Di CLUNY 
nella Summula (ibid., 1031 e sgg.), aiutandosi col 
testimonio storico di Anastasio bibliotecario. 

8 Op. cit.. p. 216. 

87 RENAN, Averrois et Vl’ Averroisme, Paris, Lévy, 1861, 
p. 305. 

88 Secondo avverte il BAanpINI, Catal., II, 393, era scritto 
dapprima Saguino, corretto poi, d’antica mano, 
in Siguino. 

89 Su AyMERIco autore di una Ars lectoria sive de quan- 
titate syUabarum dedicata al vescovo Ademaro, 
vedi l’ Hist. littér. de la France, VIII, 472, che lo 
assegna al sec. XI. Vedi anche BANDINI, Catal., 
I, 168, II, 393. 

9 Debbo al carissimo discepolo ed amico prof. Fran- 
cesco Novati la comunicazione di queste impor- 
tanti notizie dei codici laurenziani. 

% Narrazioni del Vespro Siciliano, Milano, Hoepli, 1887, 
pp. XVIII, XXII, XXV, XXXIV. 

9? ZioLkicKI, p. XXXIII: « auf ober-Italien ». 

9 {1 brano relativo è riassunto dal RoBeRT, Fables 
inéd. des siécles XII, XIII et XIV s., Paris, Cabin, 
1825, 1, CXLV. 

% ROBERT, p. CXXXIII e sgg. 

9 Il cod. è segnato: Fonds latins 14503, e il Liber vi 
si legge f. 352 r.0. Ne trovammo menzione nel 
Prutz, op. cit., p. 917. Ci fu gentilmente trascritto 
dall'amico dott. Teodoro Batiouchkoff, al quale 
rendiamo pubbliche grazie di tal favore. 

96 Quanto all’arca sospesa è da sapere che, secondo le 
credenze popolari siciliane, ci sarebbe un modo di 
togliere ogni virtù alla calamita, che la sostiene: 
« prendere un aglio, romperlo e buttarlo addosso 


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978 LA LRUGENDA DI MAOMETTO 


» alla cassa, perchè l’ aglio è contro alla calamita. 
» Ma chi può arrischiarsi di far questo, là nel 
» tempio di Maometto? »: Pitri, Fiube, Nov. e 
Racc. popol. Sicil., Palermo, Pedone, 1875, IV, 2. 
97 Nella Biblioteca del Seminario di Pisa v’ ha un’altra 
versione (cod. 50) della leggenda di Nicolao, di 
lezione erratissina, che mi fu fatto conoscere dal 
sempre rimpianto alunno Camillo Vitelli (v. il suo 
Index codd. latinor. in Biblioth. S. Cather., negli 
Studi di Filol. class., VIII, 1900). In essa è più 
precisato il tempo: « in diebus apostolorum » e 
» post obitum beati Clementis papa qui tercius 
» a Petro beato rezxit chatedram ». Per le sue dot- 
trine eretiche, nelle quali aveva per discepolo un 
« Maurus ». fu Nicolao chiuso a Roma in una 
torre, dove perì. Ma il discepolo si recò in Spagna 
e in Arabia, eleggendo a sua dimora un monte, 
donde un giorno vide e chiamò a sè un giovane 
di nome Maometto, conduttore di cammelli, pro- 
mettendogli in cambio di questo, l’ însegnamento 
di una scienza che lo innalzerebbe su tutti, nella 
quale, aiutando a ciò il diavolo, egli divenne per- 
fetto. Seguono poi le note astuzie del torello, della 
colomba, ecc., finchè le turbe ingannate lo salu- 
tarono verace « prophetam Christi », poiché egli 
si professava « christianus et Christi servus ». Così 
fondò una nuova legge, finchè invaghitosi di una 
bella ebrea, questa, consigliatasi coi suoi, lo fece 
da essi uccidere, dandolo in pasto ai porci, ma 
facendo credere ai devoti di lui che gli angeli eran 
venuti a rapirlo; essa lo aveva conteso alla loro 
forza, e glie ne era rimasto in mano il solo piede 
sinistro. La fiaba del piede è anche in S. Pier 
Pascasio, p. 87. Maometto, egli racconta, si era 
innamorato di una giudea, che accordatasi co’ suoi 


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IN OCCIDENTE 979 


correligionarj di ucciderlo, lo invitò a passar seco 
una notte. Dopo ch’ ei fu ucciso, gli troncarono 
il piede sinistro, e il corpo fu divorato dai porci, 
sicchè nulla ne rimase. La donna conservò il 
piede e lo cosparse di preziosi unguenti, e ai 
seguaci di Maometto, che non più trovandolo 
vivo, andavan dicendo esser egli stato rapito, 
mostrò quella reliquia, narrando che mentre Mao- 
metto con lei giaceva, due Angeli l’ avevan preso 
per le braccia ed essa lo teneva pel piede, e così 
stettero a tirarselo sino all’ aurora, finchè quello 
si staccò e le rimase in mano. Queste cose Pier 
Pascasio dice di aver trovato « in libro quodam 
» latino » che gli fu dato, e nel quale se ne rin- 
vengono molte altre che pur sono negli scritti 
degli Arabi: « ex quo infertur quod historia prae- 
» dicta vera Sit ». 

9 Il padiglione di Foresto, dall’ Attila Flagellum Dei, 
poema di Niccorò pa CasorLa bolognese, Imola, 
Galeati, 1871, p. 6. Pubblicazione fatta per le mie 
nozze dal carissimo discepolo ed amico prof. Fran- 
cesco D’ Ovidio. 

99 Cfr. il brano del Renaut le contrefaît, in CHAUVIN, 
op. cit., p. 217 e in E. DouTTÉ, Makhomet cardinal, 
Chélons-sur-Marne, Martin, 1899. 

100 Erra il sig. ZioLEcKI, p. XXXIII, quando assevera 
che le Chiose dantesche laurenziane sono la fonte 
del Casola; in quelle invero, i cardinali negano 
la tiara a Nicolò « vedendolo superbo »: qui, 
perchè ne anderebbe di mezzo la propagazione 
della fede. 

101 Il GRrAF nello scritto cit., pp. 209-10 reca in propo- 
sito altri autori del sec. XIV, che riproducono la 
leggenda di Niccolò: cioè l’ autore del Libro Impe- 
riale e il Pucci nello Zibaldone. 


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280 


LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


10° Nella stampa si legge così: 


Quel Machometto fu prima cristiano, 
Poi rinnegò la nostra fede santa, 
Perchè e’ fu promesso a quel villano 
D’esser fatto pastor di gente tanta. 
Ateso non gli fu a mano a mano, 
E però predicò sua legge afranta, 
Onde n’à facti perir tanti al mondo, 
Che mai di tal affar sarà giocondo. 


103 Cod. della Nazionale di Firenze, Palch. II, 31 Strozz., 


del quale debbo la comunicazione al discepolo e 
amico prof. Pio Rajna. 


104 Dal ms. Riccard. 226, per comunicazione del disce- 


polo e amico dott. F. Pintor. 


105 Il Meschimo, altramente detto il Guerrino etc. Vene- 


zia, Sessa, MDLX. 


106 Vi deve però essere qualche glossa, oltre quella che 


107 « 


citiamo di Giovanni Andrea, ove si trovi epres- 
samente il nome di Niccolò, dacchè l’ ItTIGIUS 
negli Act. Erudit. Lips., 1690, serive: « Glossa- 
» torem autem corporis canonici qui Nicholam, 
» Mahometum fuisse dicit etc. ». L'errore del glos- 
satore è stato dunque questo di confondere Mao- 
metto con Niccolò: non, come gli rimproverò il 
BayLe, art. Mahomet, not. X, di ayer fatto Mao- 
metto capo dei Nicolaiti. 

In Historia ecclesiastica legitur Machometum nu- 
» tritum fuisse a quodam clerico nobili romano, 
» qui, cum tempore Bonifaci p. p. quarti quaedam 
» petita impetrare non potuisset, apostatavit a fide, 
» et nutrivit illum cum quadam columba alba, quae 
» recipiebat grana de aure ejus, et sic erudita 
» per hoc quod, quando volebat Machometus, illa 
» ponebat in publico os ad aurem, et sic dicebat 
» quod Spiritus Sanctus alloquebatur et instruebat 


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IN OCCIDENTE 281 


illum: iste, postmodum dedit legem Saracenis, 
ut haec in historiis ecclesiasticis uberius repe- 
riri possunt ». 


108 FRANCESCO PEGNA così annota a p. 306 del Director. 
Inquisitor. di NicoL. EyMERIcus, Romae, 1587: 


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Nullo modo verum est quod scribit glossa in 
Clement. de Jud. et Sarac., in verbo Macho- 
metum, dicens ipsum nutritum fuisse a quodam 
clerico nobili romano, qui cum tempore Boni- 
facii p. p. IV quaedam petita impetrare non 
potuisset, apostatavit a fide, et Mahometum con- 
veniens, eum nutrivit. Rursus id etiam est fabu- 
losum quod quidam tradunt, videlicet Mahome- 
tum fuisse quemdam clericum christianum, de 
Bononia civitate Italiae oriundum, qui postea a 
fide catholica apostatavit. Tametsi autem per- 
fidus hic Mahometus haereticus non fuerit, cum 
christianam religionem numquam susceperit, nec 
fuerit baptizatus, merito tamen ab aliquibus, 
velut a Lutzemburgo et Prateolo, inter haere- 
ticos numeratur, nam omne haeresum venenum, 
quod diabolus in multos sparsim haereticos olim 
disseminavit, in hunc impurum et bestialem 
Mahometum simul comprehensum videtur... Hic,.. 
ut quidam tradunt, decem socios habuit, septem 
Arabes, Christianos tres, qui a fide recesserant, 
quorum princeps Sergius monachus arianus 
fuisse memoratur, qui librum legum nomine 
superbissimo Alchoranum appellatum, idest Lec- 
tionem, inchoavit, ei lohannes nestorianus, qui- 
bus supervenit Iudaeus thalmudista ». Questa 


ultima notizia potrebbe essere attinta dal Sup- 
plemento delle cronache universali del mondo di 
FiLippo Da Bkraamo che scrive: « Si dice che 


» 
» 


M. componesse l’ Alcorano con l’aiuto di Gio- 
vanni d’Antiochia eretico, di Sergio ariano e 


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282 IA LEGGENDA DI MAOMETTO 


» d'un certo altro giudeo astronomo (ediz. Vene- 
» zia, [S1, p. 336) ».. 

‘9 In una glossa marginale ad un codice della Historia 
Hierosolimitana, che di mano del sec. XV incip. 
conservasi in Siena (G. VI, 2 cart. 59 sgg.) si legge 
quanto segue, comunicatomi dalla gentilezza del 
bibliotecario dott. F. Donati: « Tum Nicolaus 
» Aymerici in libro qui dicitur Directorium Inquisi- 
» fionis. par. 2, quaest. 21, dicit ipsum bononiensem 
» fuisse origine, et clericum apostatam. Cronica 
» autem Martiniana in c. Eraclii imperatoris non 
» ponit ejus originem, sed dicit quod a quodam 
» monacho, nomine Sergio apostata, fuit infor- 
» matus. In Historia autem Ecclesiastica, ut refert 
» Jo. An. in Glossa Clementinarum, idest de 
» Judeis et Sarracenis, legitur quod Macometus 
» fuit initiatus a- quodam clerico, nobili romano, 
» qui apostatavit a fide, tempore Bonifacii papae 
» quarti. Unde possent predicte opiniones concor- 
» dari, ut Macometus fuit arabs, sed instructor 
» ejus fuit bononiensis, sed denominetur etiam 
» romanus, quia Roma est Caput Italiae ». 

110 La livres dou Tresor, ediz. Chabaille, p. 83. 

{ti SunDBY, traduz. Renier, p. 382. Questo testo va con- 
frontato con quello offertoci dal Fioretto di Cro- 
nache degli Imperatori, Lucca, Rocchi, 1858. 

11? « Huius Bonifacii tempore, mortuo Phoca et regnante 
» Heraclio, cirea annum domini DCX, Magumeth, 
» pseudo propheta et etiam magus, Agarenus sive 
» Ismaelita, id est Saracenus, hoc modo decepit, 
» sicut legitur in quadam Hystoria ipsius et in 
» quadam Chronica. Clericus quidam valde famo- 
» SUS, cum in romana curia honorem quem cu- 
» piebat, assequi non potuisset, indignatus ad 
» partes ultramarinas confugiens, sua simulatione 
» innumerabiles ad se attraxit, inveniensque Ma- 


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IN OCCIDENTE 983 


gumeth dixit ei, quod ipsum illi populo praefi- 
cere vellet, nutricusque columbam grana et alia 
hujusmodi in auribus Magumeth ponebat. Co- 
lumba autem supra ejus humeros stans de auri- 
bus Magumeth ponebat. Columba autem supra 
ejus humeros stans, de auribus eius cibum sibi 
sumebat, sicque jam adeo assuefacta erat, quod, 
quandocumque Magumeth videbat, protinus su- 
per bumeros ejus prosiliens, rostrum in ejus 
aure ponebat. Praedictus igitur vir populum 
convocans dixit, se illum sibi velle praeficere, 
quem Spiritus Sanctus in specie columbae mon- 
straret, statimque columbam secrete emisit, et 
illa super humeros Magumeth, qui cum aliis 
adstabat, evolans, rostrum in ejus aures appo- 
suit. Quod populus videns Spiritum Sanctum 
esse credidit, qui super eum descenderet, ac in 
ejus aure verba Dei inferret, et sic Magumeth 
Saracenos decepit, qui sibi adhacrentes regnum 
Persidis ac Orientalis imperii fines usque ad 
Alexandriam invaserunt. Hoc, quidem vulga- 
riter dicitur : sed verius est quod infra habetur ». 


113 « Magumeth igitur proprias leges confingens, ipsas a 


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Spiritu Sancto in specie columbae, quae saepe 
vidente populo super eum volabat, se recepisse 
mentiebatur, in quibus quaedam de utroque 
‘Testamento inseruit. Nam cum in prima aetate 
mercimonia exerceret et apud Aegyptum et Pale- 
stinam cum camelis pergeret, cum christianis et 
judaeis saepe conversabatur, a quibus tam No- 
vum quam Vetus didicit Testamentum. Unde 
secundum ritum Judaeorum circumciduntur Sa- 
raceni, carnes porcinas non comedunt. Cujus 
rationem cum vellet Magumeth assignare, dixit 
quod ex fimo cameli porcus post diluvium fuerit 
procreatus, et ideo tamquam immundus a mundo 


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284 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


populo est vitandus. Cum christianis aulem con- 
veniunt, quod credunt unum solum Deum omni- 
potentem omnium creatorem. Asseruit etiam 
pseudopropheta, vera quaedam falsis immiscen8, 
quod Moyses fuit magnus propheta, sed Chri- 
stus major est, summus prophetarum natus ex 
Maria Virgine, virtute Dei absque semine homi- 
nis. Ait quoque in suo Alchorano, quod Chri- 
stus, cum adhuc puer esset, de limo terrae 
volucres procreavit: sed venenum immiscuit, 
quia Christum non vere passum nec vere resur- 
rexisse dixit, sed alium quemdam hominem sibi 
similem hujusmodi egisse vel passum esse do- 
cuit. Quaedam autem matrona, nomine Cadi- 
gan, quae preerat cuidam provinciae, nomine 
Corocanica, videns hominem Judaeorum et Sara- 
cenorum contubernio vallari, existimabat in illo 
majestatem divinam latere, et cum esset vidua, 
ipsum in maritum accepit, et sic Magumeth totius 
illius provinciae obtinuit principatum. Ille autem 
suis praestigiis non solum praedictam dominam 
sed etiam Judaeos et Saracenos demum adeo 
demutavit, ut se Messiam in lege promissum 
publice fateretur. Post hoc vero, Magumeth coe- 
pit frequenter cadere in epileptica passione. 
Quod Cadigan cernens plurimum tristabatur, eo 
quod impurissimo homini et epileptico nupsisset. 
Quam ille placare desiderans talibus eam ser- 
monibus demulcebat, dicens: Gabrielem archan- 
gelum frequenter mecum loquentem contemplor, 
et non ferens splendorem vultus ejus in me deficio 
et tabesco. Quod sic esse, mulier et caeteri cre- 
diderunt ». 
144 Quest’altri che fa il maestro di Maometto « Antio- 
chiae Archidiaconus et jacobita », potrebbe essere 
Pietro ALronso (1062-1106), che in tal modo ne 


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IN OCCIDENTE 985 


parla: vedi il suo Dialogus, lib. V nella Bibl. Patr., 
(ediz. Lione, XXI, 198). 

115 « Alibi tamen legitur, quod fuit quidam monachus, 
» qui Magumethum instruxit, nomine Sergius, qui 
» in errorem Nestorii incidens, dum a monachis 

fuisset expulsus, in Arabiam venit et Magumetho 
adhaesit; licet alibi legatur, quod fuit archidia- 
conus in partibus Antiochiae degens, et fuit, 
ut asserunt, jacobita, qui circoncisionem prae- 
dicant, Christumque non deum sed hominem 
tantum justum et sanctum, de Spirito sancto 
conceptum et de virgine natum affirmant. Quae 
omnia Saraceni affirmant et credunt ». 

146 Legenda aurea, recens. Th. Graesse, Lipsiae, ‘1850, 
capit. 181. Molto probabilmente dal Varagine trasse 
ciò che dice su Maometto l’autore del Liber de 
ftemporibus (Bibliot. Estense, VI, H, 5), c. 73, che 
il c. Ippolito Malaguzzi, archivista di Stato a Mo- 
dena, al quale debbo il brano relativo al nostro 
argomento, ha provato essere il notaio reggiano 
Alberto di Gerardo di Miliolo, contemporaneo ed 
amico di fra Salimbene. I due testi combinano fra 
loro quasi esattamente. Nel sec. XV, S. AnTONINO 
riprodusse pure dal Varagine le notizie su Mao- 
metto nella sua Ckronica, ediz. giuntina, Lione, 
1568, I, 367; II, 350; e altrettanto fece |’ autore 
dell’ Epitom. bellor. sacror. del 1422 (in Canisius 
Antig. lection, Amsterdam, 1725, IV, 434-492). Tra- 
duzione quasi esatta del testo del Varagine è la 
Storia di Maometto e della sua legge, che Fn. Zam- 
BRINI tolse dal cod. magliab. XXXV, 169, e nel 1858 
pubblicò a Bologna, Tipogr. delle Scienze. 

117 Questo è probabilmente Abd-Allah ben Salem, dotto 
giudeo (v. SPRENGER, I, 654), che ajutò Maometto 
colle sue conoscenze bibliche. 

148 Confutatio legis a Mahum. Saracen. latae, in BIBLIAN- 


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286 


LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


pER, op. cit., vol. III, p. 139. Così porta il testo 
stampato dal BiBLIANDER e riprodotto dal MIGNE, 
Patrol. graeca, vol. CLIX, p. 1139, che non però 
è l'originale. Invero la Confutatio fu alla fine del 
sec. XIV tradotta in greco da Demetrio Cidonio, 
e poi alla fine del XV questa traduzione fu rifatta 
latina da Bartolomeo da Monte Arduo. Il codice 
riccard. 3207, che erroneamente è detto contenere 
Excerpta dai libri di Ricoldo, mentre invece con- 
tiene l’intera Confutatio, riferisce così il passo: 
« Naphe & cohomar & homra & elressar & asser 
>» et filius lietar et filius amer » (fol. 25 v°). A p. 106 
della stampa del Bip.1ANDER, Baira è detto Maphyra 
jacopita; e si ricordano Salonus persa e Abdala 
già Perside e Selam giudeo: ma a p. 140: « Baira, 
» Phinees, Audia nomine Salon, Andala dictus et 
» Selem ». Altre differenze presenta un altro libro 
di Fra Ricoldo, cioè il Liber peregrinacionis, stam- 
pato dal LAURENT, Peregrinatores medii aevi qua- 
tuor, Lipsiae, Heinrichs, 1864, p. 149: « Certissimus 
» est quod Machometus habuit tres pedagogos, 
scilicet duos Judaeos, quorum nomen unius 
Salon Persa, et nomen alterius Aabdalla, quod 
interpretatur servus Dei, filius Sela. Et ipsi 
facti sunt Saraceni, et docuerunt ei multa de 
veteri Testamento et multa de ‘Talmud. Alius 
autem fuit monachus, et nomen ejus Bahheyin, 
jacobinus, qui dixit ei multa de novo Testa- 
mento, et quedam de quodam libro de infancia 
» Salvatoris et de septem dormientibus, et ista 
» scripsit in Alcorano. Sed magister ipsius maior 
» credo quod fuit dyabolus ». Pietro Ai.FONSO, 
Dialogus, ediz. cit., nomina i giudei Abdia e 
Cahbalahabar. Giov. Cantacuzeno imperatore di 
Bisanzio (1292-1380) nel suo libro Contra maho- 
metic. fidem (in BisLianDER, II, 60), ricorda il 


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IN OCCIDENTE 287 


giacobita Baeura, nestoriano, che poi fu ucciso 
da Maometto, e i giudei Phinees e Audio, che, 
multato nome, fu da Maometto chiamato Andula, 
e Salom che cognominò Persele. — È curioso 
vedere che cosa questi varj nomi sieno diventati 
nel Dittamondo, lib. V, c. 10. Seguo la ediz. di 
Milano, Silvestri, 1826: 


Li sette arabi e fidi amici d’esso, 
(Di questi dicon che lo Spirto santo 
Gli alluminava del suo lume stesso), 
Li primi tre, alli qual dan più vanto, 
Fur Naffeton, Achimar e Alchisar: 
Gli altri seguir ciascun com’io tì canto. 
Lo figliuol d’ Alchisar, io dico Assar, 
Nomàr lo quarto: ancor similemente 
Nomàr lo quinto Horam, e poi Omar. 


È evidente che di Naphe e Eon si è fatto Naffe- 
ton; Alchisar può essere Eleesar; Oram è Omra, ecc. 
Fazio poi soggiunge: 


In fra gli altri più grandi di sua gente 
Furono poscia Abidola e Baora, 
Adiam, Facem con la magica mente, 


Abidola sarà Abdallah o Ubeidhallah; Baora, 
Bahîrà; Adiam, Audia, e Facem forse Salem. 
1159 « Fuit quidam clericus christianus, nomine Nicho- 
» laus, qui ab Ecclesia romana magnam dixit se 
recepisse injuriam, et de hoc desperatus, a fide 
christiana recessit, et ultra mare vadens, sicut 
homo subtilis et malitiosus, cogitavit qualiter 
posset vivere, et ad aliquem stalum pervenire. 
Erat enim homo subtilis ingenii et litteratus et 
eloquens multum, et affabilis in aspectu, et in 
moribus gratiosus.... Iste enim clericus supra- 
dictus Nicholaus invenit sibi ad male operandum 
socium a diabolo ministratum, scilicet hominem 


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288 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


» quemdam mercatorem et conductorem anima- 
» lium, scilicet camelorum, qui vocabatur Macho- 
» metus. Et iste Machometus conversabatur cum 
» omnibus generaliter hominibus, propter mer- 
» cantias, et cum Christianis et cum Judaeis, et 
» cognoscebat mores et condietiones omnium de 
» contrata illa. Modo sunt associati simul Nicho- 
» laus clericus et Machometus, et associant sibi 
» unum alium nomine Sergium, qui fuit monachus 
» christianus etc. ». 

120 Chronicon imaginis mundi, nei Monum. Hist. Scripto- 
res, August. Taurinor., 1848, vol. III, pp. 1458 e sgg. 

12! Uno dei testi più confusi parrebbe dover essere 
quello che si intitola De vita Machometi (Bibl. 
naz. di Parigi, 12582, fonds latins), a giudicarne 
dal brano che ne riferisce il PRUTZ, op. cit., p. 517: 
« Post aliquantum annorum spatium avunculum 
» suum reliquens mercatoribus incepit servire, 
» quorum bona ut alter Judas Scarioth ubi poterat, 
» secreta surripuit, et licentiatus ab his, cuidam 
» archidiacono de Antiocia et de secta Jacobi- 
» tarum infecto servivit, et cum eo in Curia 
» romana stetit ». 

122 Ariano, e dall’ arianesimo derivante la sua dottrina, 
lo eonsiderò più tardi Martin Lurkro. Nel suo 
scritto Von den Conciliis parlando degli Ariani 
aggiunge: « der Mahomet ist aus dieser secten 
» kommen » (Sémmtl., W. Frankfurt u. Erlangen, 
1883, XXV, 8354): e nell’altro scritto sul Sacra- 
mento, ampliando, nota che parecchi storici fanno 
derivare la dottrina di Maometto da quella degli 
Ariani, Macedoniani e Nestoriani « in welchen er 
» auch zeitlich nach von anfang gesteckt hat ». 
(Ibid., 1842, XXXII, 417). 

123 Abbiam visto che taluno lo fa monaco del mona- 
stero di Callistrate in Costantinopoli: secondo 


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IN OCCIDENTE 989 


LupoLPHuSs DE SupHrkim (sec. XIV), sarebbe stato 
benedettino : « Dyabulus, permittente Deo.... prius 
» seduxil Sergium monachum, qui erat de ordine 
» Benedicti, sed ejectus nropter eresim Nestorii, 
» ut pro honoribus ecclesiasticis in romana curia 
» laboraret » : De itinere Terre Sancte, in Archives 
de l Orient latin, Paris, Leroux, 1884, t. II, P. 2a, 
p. 305. 

124 « Nestorius, proclamant que Marie n’a pas été la 
» vraie méère de Jésus, était si bien d’ accord avec 
» le Coran, qu'il était naturel que, dans beaucoup 
» de récits, le moine chrétien, précepteur de 
» Mahomet, s’ appellat Nestor. »: RENAN, op. cit., 
p. 213. 

12 Che Niccolò fosse spagnuolo è detto esplicitamente 
nel Livre des secrets aux philosophes della fine 
del XIII secolo o dei principj del XIV, del quale 
discorre dottamente il RenaNn nella Hist. Littér. de 
la France, XXX, 567 e segg. Ivi si legge: « Sachiés 
» que unes gens sont qui dient que ils ont loy, 
» si comme Sarrazins, laquelle est assez nouvelle 

au regard des aultres, car elle fut derraine 

donnee. Et la enseigna ung tres grant clerc ou 
despit des cretiens, et fut nommé Nicolas le 
astronomien, lequel sceut merveilles de astro- 
nomie et des planettes. Si fut longtemps com- 
paignons a aulcuns disciples a Jhesucrist et 
pareillement aux Romains, aux Hebrieux, aux 

Gregois et aux Huns et autres nations. Il donna 

icelle loy aux Sarrazins et se fist appeller sergant 

de Dieu. Il fut natif d’ Espaigne, et est son 
nom renommé entre tous Sarraxins, qui l’ ap- 
pellent Machomet. Et est son ymage a la Mecque 

» et autre part, haultement aounoré de tous ceulx 

» qui tiennent icelle loy » (ibîd., p. 584). È curioso 

il notare che se, secondo questa tradizione, il 


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D'AncoNA - Il 19 


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290 L.A LEGGENDA DI MAOMETTO 


male venne di Spagna, di Spagna similmente, 
secondo un’ altra tradizione, verrà il rimedio. 
Nella cronica di un Canonico della chiesa di 
S. Martino di Tours si dice all'anno 1281 che 
Pelagio, legato apostolico all’ assedio di Damiata, 
animava i cristiani all’ impresa in virtù di una 
singolare profezia: « Movebat eam precipue Liber 
» quidam ab ipso inter manubias hostium reper- 
» tus, in quo continebatur quod lex Machometi 
sexcentis annis tantummodo duraret, menseque 
Junio expiraret, et quod de Hyspaniis veniret 
qui eam penitus aboleret, et ideo legatus, qui 
» de Hyspaniis nalus erat, illum librum verissi- 
» mum asserebat » (Monum. German. hist., XXVI, 
468). E a queste profezie si allude anche nel Liber 
bellorum domini della fine del sec. XIV, pubbli- 
cato negli Arch. de l’ Orient lat., I, 303. 
126 Il solo però che lo faccia di casa Colonna, è, come 
vedemmo, il primo rifacitore metrico del Tesoro: 
il secondo segue altro testo o altra tradizione. 
127 Se dovesse accogliersi l’ opinione di parecchi antichi 
commentatori, nella D. C. vi sarebbe una allu- 
sione a Maometto nel drago, uscito di sotto terra, 
che ficcando la coda nel mistico carro della 
Chiesa, ne trae via il fondo (Purg., XXXII, 130). 
Il Derua LANA: « Lo drago che uscì dalla terra 
» fra due ruote, significa Maometto, il quale ne 
» portò a sua legge grande parte dei fideli della 
» Chiesa, e picciola parte ne rimase al carro ». 
Altrettanto affermano le Chkiose e Benvenuto da 
Imola. Altri ci vedono l'eresia in generale, o 
anche, individuandola in un qualche grande ere- 
tico, Ario ovvero Fozio. Meglio è vedervi il diavolo, 
considerato quale principe di ogni terrena cupi- 
digia, che, con sue arti, toglie alla Chiesa il fon- 
damento primitivo e saldo, della unità e del 


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IN OCCIDENTK 901 


dispregio dei beni mondani. Se con cotesti commen- 
tatori il fondo dovesse interpretarsi materialmente 
per « parte di fedeli », ben si potrebbe contendere 
se più ne tolsero Ario o Fozio; ma, secondo le 
idee dei tempi di Dante, nulla vieterebbe che, 
per quel che abbiamo discorso, vi si scorgesse 
simboleggiato il fondatore dell’ islamismo. 


128 Chiose anonime alla prima Cantica, pubblicate da 


Fr. Selmi, Torino, St. Reale, 1865, p. 150. 


12° Ediz. Vernon, Firenze, Baracchi, 1848, p. 197. 

130 Ediz. Vernon, Firenze, Piatti, 1846, p. 227. 

131 Ediz. Scarabelli, Bologna, Romagnoli, 1886, I, p. 144. 
132 Ediz. Torri, Pisa, Capurro, 1827, I, p. 481. 

133 Ediz. Vernon, Firenze, Barbéèra, 1887, II, p. 352. 


Nel Liber Augustalis (in PeTrRARCHA*, Opera, Ba- 
silaee, 1581, p. 525) Benvenuto dice di Maometto 
sol questo: « Quo tempore Mahometus pestilen- 
» tissimus draco in Arabia fecit sectam suam, ab 
» Oriente in Occidentem venenum suum dissemi- 
» nans, cum pessima desolatione fidei christianae ». 


134 Ediz. Vernon, Florentiae, Piatti, 1845, p. 246. 
135 Ediz. Fanfani, Bologna, Romagnoli, 1866, I. p. 508. 
136 Cron., lib. II, c. 8. — Il passo del VILLANI, come 


anche quelli dei Commentatori danteschi e delle 
Giunte italiane al Tesoro, nonchè il Liber Nicolay, 
sono per intero riprodotti in Appendice alla Me- 
moria Il Tesoro di B. L. versificato nel vol. IV, 
ser. IV, p. 1* delle pubblicazioni dell’Accad. dei 
Lincei. j 


137 Ediz. Giannini, Pisa, 1858, I, 720. 

138 Ediz. Zaccheroni, Marsilia, 1888, p. 635. 

139 Venezia, Sessa, 1596, p. 138. 

140 Certi commentatori anche più recenti si mostrano 


non meno ignoranti degli antichi, illustrando il 
noto passo dell’ Inferno. Fra questi, il p. VENTURI, 
nelle sue Ckiose ritoccale da A. M. RoBioLa (Torino, 


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290 LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


Pomba, 1836), ove egli è detto « mostro vilissimo 
» di condizione, apostata della Santa Fede ». 
{41 Già nel lib. II, cap. XVII, si legge: 


Monaco Sergio doloroso e tristo 
Visse in quel tempo, e surse Macometto 
Che profeta s’ infinse al mal acquisto. 


4? Dittamondo, ediz. Silvestri, p. 398. Le ediz. di Vicenza 
1474 e Venezia 1501 leggono: E! disperato et del 
papa canonico. Il cod. marciano IX, 4l, per me 
consultato dal fu Prefetto della Biblioteca, pro- 
fessor C. Castellani, legge pure a cotesto modo; 
ma il IX, 40, come l’ediz. Silvestri. Dei codd. 
fiorentini, che sono stati per me consultati dal 
dott. S. Morpurgo, leggono come le stampe antiche 
l’ asburnamiano 1694 e il magliabech. II, II, 57: 
lo disperato del, il riccard. 2718 e il 27%, il 
palat. 339, i laurenz. pl. 90 infr. 32, pl. 90 inf. 40, 
pl. 41, 19, pl. 41, 23 e il laurenz. strozz. 148. Come 
Il’ ediz. Silvestri leggono il riccard. 2717, il lau- 
renz. pi. 90 inf. 37, pl. 90 inf. 31 e l’asburn. 1695. 
Il cod. marciano IX, 40 ha la seguente chiosa di 
GuaLizi.mo CAPELLO, gentilmente comunicatami 
dal prefetto Castellani: « Sergio monaco el quale 

qui l’autore nomina, fu homo di grande ingegno 

a tempo di Bonifacio V e di Eraclio imperatore 

nell’ anni di Cristo CCCXIII, et essendo nesto- 

riano, cioè che seguendo l’ opinione di Nestorio 
vescovo di Costantinopoli, la quale era che la 
vergine Maria parturì Cristo puro homo senza 
divinità, nel concilio di Nicena in Bithinia, ove 
fu più che CCCC vescovi, disputando e defen- 
sando erroneamente la ditta opinione, fu cac- 
ciato via et scomunicato, et andò in Arabia ove 
trovò Machometto, homo di vile natura et pronto 
et audace ad ogni gran male, et pratico et dotto 
in la Scrittura santa, come homo che havea 


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IN OCCIDENTE 293 


conversato cum Cristiani et cum Saraceni va- 
lenti, come l’autore dice, et con lui contratta 
stretta dimestichezza, con lo suo stolto proposto 
Jo fe ex stulto insanum, et mostrolli la via de 
subdir quelli sciocchi populi et sottoporre a una 
nova fede, et amaestrò una columba, che non 
beccava se non in orechia di Machumetto, et 
diceva che |’ Angelo Gabriele la mandava da 
lui ad amaestrarlo da parte de Dio de quello 
che havesse a fare, e tolse presso a se Sergio 
molti altri, i quali erano de simel vita a com- 
porre un libro che se contenea la lege di Macho- 
meto, et quest.» è chiamato la Scala, le Legi e 
li meriti ». E più oltre: « Havendo Machometto 
col consiglio di Sergio cum la columba inganati 
et sottoposti li populi de Arabia, i quali per lo 
passato tempo erano continuamente stati in 
guerra cum Persiani, per consiglio di Sergio 
domesticò uno toro, in modo che non se pascea 
se non per le sue mani, et però quando ello 
odeva la voce di Machometto subito correva a 
trovarlo; et quando fu ben domestico, Sergio 
li ligava a le corna alcuni brevicegli, in li quali 
erano scripte le lege che lui voleva che fusseno 
observate dal populo, cioè che non osasse man- 
giare carne porcina ecc. Poi Machometo parlava. 
alto per essere olduto dal toro, el quale presto 
arivava da lui, e arivato disoglieva li brevi, et 
chiamato a la sua presentia lo populo, diceva 
che Dio padre l’ aveva mandato le legi, le quali 
voleva che fussero observate: poi veniva lo 
ditto toro con altri brevi, ove si conteneva che 
si dovesse cavare in certi luoghi, nei quali si 
trovarebe latte et melle, et così faceva cavare 
e trovava alcune pitare piene di latte et di mele, 
che lui in quegli luoghi aveva fatto sotterrare. 
Con queste medesime cedole portate dal toro, 


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294 


LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


condusse gli Arabi addosso ai Persi, et con 
forza et cum religione li condusse alle sue 
legge; con queste ancora condusse i popoli ad 
observantia di molte cose, com’ è di orare cinque 
volte el dì verso mezzodì per esser diverso 
» da’ Judei che orano verso ponente tre volte al 
» dì, e da’ Cristiani che orano più volte el dì 
» verso oriente, e di adorare Venere, che prima in 
> Arabia s’adorava Marte et Saturno, et di andare 
» una volta l’anno a la Mech ecc. ». Ma nulla si 
dice intorno agli altri due compagni di Maometto, 
menzionati da Fazio. 


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43 Anche LupoLro pi SupHEIM, loc. cit.. adopera la 


stessa locuzione: « Cum igitur quod voluit obti- 
» nere nequiret, desperatus abiit (Sergius) in Ara- 
» bia ad Agarenos ». 


144 Fra gli scrittori del secolo XIV si potrebbe citare 


AnpREA Danpoto (m. 1354) come ha fatto il PRUTZ, 
p. 81. Ma la colomba e Sergio ed altri particolari 
già si trovano in scritture più antiche della Cro- 
naca del veneziano (Rer. ital., XII, 114), e per ciò 
anche di quella di Marin Sanupo (1306-1334). 
Ricorda queste fiabe anche l’autore della Cronica 
che fa seguito al Lucano volgarizzato (codice 
riccard. 1550) parlando del « malvagio profeta » 
che prima « era monaco € chiamavasi Nicolao »: 
v. Amari, Narrazioni ecc., p. XXVIII; invece 
l'autore della Cronaca degli imperat. rom., che 
it Ceruti trasse da un cod. ambrosiano (Bologna, 
Romagnoli, 1878, p. 90) ricorda Sergio apostata 
che « vegniva informando (Maometto) per inganar 
» el puovol cristiano ». — Alcune citazioni di 
passi di storici del sec. XV e XVI faranno vedere 
quanto ancora incerte e contradditorie fossero le 
notizie intorno a Maometto e alla religione da lui 
fondata. FLavio Bionno (1388-1463) nella Hist. ab 
inclinat. romanor., Basilea, 1569, p. 129, così 


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IN OCCIDENTE 295 


scrive: « Machometus quidam, ut aliqui Arabs, 
ut alii volunt Persa, fuit nobili ortus parente 
deos gentium adorante, sed matrem hebraicae 
gentis habuit ismaelitam, ex duabus hujusmodi 
omnino sibi in vicem adversantibus supersti- 
tionum sectis originem trahens, nulli earum 
omnino adhaesit, sed.... ex duarum hujusmodi 
gentium legibus conflavit incendium.... » Pom- 
PoNIO Leto (1428-1498) consacra nel suo Compend. 
hist. roman. un intero capitolo a Maometto, e 
codesto capitolo fu anche stampato a parte col 
titolo: De exortu Machumeti. Citiamo la tradu- 
zione del Compendio fatta dal Baldelli, secondo 
l’ ediz. di Venezia, Giolito, 1549, p. 93. « Maumet », 
ei dice, nacque di parenti « vili e di bassissima 
» condizione: dicesi ch’ egli fu preso dagli Sceniti, 
» i quali usavano di vivere secondo il costume 
» de’ popoli di Numidia, e ch'e’ fu poscia ven- 
» duto ». Lo comprò Adimoneple ricco mercante 
ismaelita, tenendoselo come figliuolo. « Divenuto 
in età di giovinezza, egli ebbe dal padrone il 
maneggio delle mercantie, et essendo d’ ingegno 
molto risvegliato e potente, et avendo avuto 
pratica co’ Cristiani, co’ Giudei e con altre 
nationi, et essendo molto diligente in accrescere 
i guadagni, venne primieramente molto caro e 
grato al suo padrone, quindi venne in contezza 
di assaissime persone. Si trovava in que’ tempi 
nelle parti dell’ Arabia un monaco detto Sergio: 
era questo fuggito di Costantinopoli e venuto 
in questi paesi, avendo paura di non ricevere 
punitione della scelerata opinione ch’ egli aveva 
d’ intorno alle cose della fede, et usava spesse 
fiate di praticare in casa di Adimoneple, et 
faceva quivi molti favori a Maometto. Et avendo 
trovato a punto nel giovane un’agevolezza a 
suo modo, et una prontezza quale e’ desiderava, 


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Senza Molta an fati enz diffienty lo 
> tirò in diverge Ob Nioni » Orto Adimoney, 
Maomeg; Ne g SÒ Vedoya « p SUadengo|, ciò 
> Se io, er Tuello h’ io Stimo Ma SOpravye, 
lendog); il Mal ‘aduco, Maomei, « aestrato 
» da ergio >, le lè a ©Federe Che ciò f Se indizio 
di virg; Profe{; 2 1 Tual è Sa el “Fedette , 
Venut Orte, lo lascig erede delle 1Cchez, 1 
Coll aj to delle qual; divenn Olent Use le 
Sue dottrine Deha irelenato;® È T Quello 
* Che gj dice. i Db Fenti de» Uoi Padroni &' Quali 

Perveniva 1’ ledity lor > Urong quegli he gli 
» diede, l Vel A AVeng lo n COStame le me. 
» Scolato Ne cip; Ch’ aQNgia Il LATINA 
(14811 ) Nelle itae Po inc. Sotto Boni acio V 
ed On (o) "ICOpia il Biongo Quanto all gene. 
lazion di dome lo, e 8i lesirin dire di lui 
che, AVendo er 8O te 9 Cony Sato c n cri. 
Stianj Con Sciute tutte e tte, nt Odus n 
certa “Perstizio attinge do m AMente dai 

“Storianj BATTIET, Eana Io (1 73-155g, Nel suo 
libro De el 0ariBu, Così Narr ONdo ja tra 
duzione del Marcolin; ‘Rezia, | » Sotto "aclio 
« Venne Tuesta Peste d’ Ar bia, 8 Condo che affer- 
> mano li Serittor; antich OTCIÒ che Tuivi 
> di base °OnQItIO, > Stang ir'adagnare |) 
* Vitto Con ‘ONdurrg da A nolo eli, et 

°88enqo Slovane d’ luto '8egno, fatto ande 
» di o Chezze, Mediantg il atrimon; una 
* Signo e Ticca Ved Va, p 8e familiar; ? ande 
> Con g îgi0, Monaeg italiano. diant Cra 
> de] Tuale RCOMjNg;i "ipreng e i istiani 
> eq Biude;. li 8iudej Come impi; Ven ru- 
» cifig ùn Somi Profeta Noi c ani 5 

Sem liei, c °Fediamo el ang dicendo 
, cos Nidicoe Cristo, R Nato oreito, 
» Mise 8 °Sopr Oria Prege p za 


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IN OCCIDENTE 997 


» masco, e poi voltò le armi contro i Persi, 
» accostandosi agli Sceniti arabi, ribelli all’ im- 
» perio, ecc. ». Anche il noto predicatore fra 
RoBERTO DA Lecck (1425-1495) narrando nel suo 
Specchio della Fede (Venezia, 1517) I’ ascensione 
al cielo di Maometto, ricorda la cooperazione del 
monaco Sergio e di un giudeo nella compilazione 
del Corano (v. De FaBRIZzIo, Il Mirac. di M., in 
Gior. St. Lett. Ital, XLIX (1907) p. 299; ed anche 
il CoLuenuccio nella sua Storia di Napoli ricorda, 
come avverte il GRAF (loc. cit., p. 210), gli ammae- 
stramenti dell’ eretico Sergio e afferma la fede 
musulmana essere un misto di giudaismo e cri- 
stianesimo e delle « opinioni di tutte le heresie, » 
facendo precedere a ciò un racconto, del quale 
altrove non si trova traccia, e secondo il quale 
i Saraceni avrebbero ajutato Eraclio nella guerra 
contro Cosroè, ma avendo il tesoriere dell’ impe- 
ratore negato ad essi danari, e trattatili « da 
» cani », si ribellarono facendo loro capo Mao- 
metto, che per meglio ottenere il suo intento, con- 
giunse la religione colla forza, dando ad essi una 
fede nuova. Finalmente, il SaBELLIcO (1463-1506), 
nelle Enneades, Basileae, 1509, II, 532, narra 
anch’ egli la solita genealogia da padre idolatra 
e madre ismaelita « et ob id hebraicae legis non 
» ignara ». « Quidam sunt », ei soggiunge, « qui 
» eum ismaelitam memorent, sordido loco natum, 
» puerilibus annis furaci quaestu vicium illi 
» quaesitum, locandis conducendisque camelis ad 
deportandas merces, inde adultum latrocinium 
exercuisse comparataque latronum manu, uno 
atque altero facinore illustratum, viduae mulieris 
nuptias sibi conciliasse, per quam grandem 
pecuniam et castella quaedam consecutus, ani- 
mum ad majora extulerit ». Nel comporre la 
sua legge: « a Sergio quodam nestorianae impie- 


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LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


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tatis viro, est praecipue adjutus. Egerat is 
monasticam, caeterum quum nullius esset inter 
suos dignationis, praesentem vitae statum per- 
taesus, Byzantio profectus, ad Mahometum, 
cujus nomen jam celebrem erat, homo transfuga 
se contulit. Hujus igitur ‘ consilio usus legem 
proposuit, quae ut popularia esset, ex omnium 
gentium sectis aliquid assumpsit. Et Christiani 
nominis multitudini per baec blanditus, a Sergio 
voluit baptizari, inde ad aliorum studia conci- 
lianda, cum Sabellianis negare trinitatem, cum 
Manichaeis binarium in divinis numerum po- 
nere; negare aequalitatem patris et filii cum 
Eunomio, Spiritum Sanctum creatorem dicere 
cum Macedonio, cum Nicolaitis multitudinem 
uxorum probare, et ut Judaeis aliquid daretur, 
» circumcisionem et baptismum simul predicare ». 
A tutti questi autori insieme attinge Pier Messia 
nella sua nota e più volte stampata Selva di varie 
Lettioni (Venezia, Prodocimo, 1684, p. 20). 

noto che presso il volgo si era formata una triade 
di Maometto, Apollino e Tervigante (quasi con- 
trapposto alla triade cristiana), che si trovano 
insieme ricordati presso i poeti e romanzieri fran- 
cesi ed italiani del medio evo e del risorgimento. 
E come si credeva che i Saraceni credessero ad 
Apollino o Apollo, così credevasi che i Pagani 
avessero avuto per loro iddio Maometto. Fra i 
tanti esempj cito questi del Mystère de la Passion 
di ARNOUL GREBAN, ediz. Paris et Rainaud, Paris, 
Vieweg, 1878. Erode esclama: Mahoumet, mon dieu 
infini (v. 6085). Un sacerdote egiziano: Il n’Y ara 
dieu ne deesse Qui n’ aist sacrifice plainier: Maho- 
met sera le premier (v. 7482). E nel Miracle de 
S. Ignace (Mir. N. Dame, IV, 90) il martire perse- 
guitato da Trajano esclama: J'ai moult a souffrir 


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IN OCCIDENTE 999 


Parce que ne me vueil offrir A Mahon croire. Per- 
fino Clodoveo nel Miracle che da lui s'intitola è 
rappresentato come adoratore di Maometto (Ibid., 
VII, 195-272). S'ignora l’origine e il valore del 
nome T'ervigante e ne fu disputato presso l’ Aca- 
démie des Inscriptions etc. nel 1888: v. V. CHAUVIN, 
op. cit. p. 223. Su certe tradizioni intorno a Mao- 
metto e ai Saracini, viventi ancora nel Belgio, 
vedi un articolo del sig. GITTÉE, Les mahométans 
dans le folk-lore belge, nel giornale Le Moyen Age, 
vol. I, n. 243. 

146 Nella tradizione popolare siciliana resta tuttavia 
memoria di Maometto come di un diavolo. Si rac- 
conta infatti che alla venuta di Cristo fu gran 
tumulto in inferno, temendo che venissero a man- 
care le anime. Ma Farfarello disse: lasciate fare a 
me « Aviti a sapiri ca haju uu frati ca si chiama 
» Maumettu, ca stà ’nta iu mundu suttanu, ca è 
» veru abilitusu ed è ’na pena ca nun l’avemu 

cca cu nui, cà nni darìa veru ajutu. Eu, si tantu 

Lucifaru voli, lo vaju a chiamu, e lu mannamu 

a lu munnu, e po’ peuza iddu a tutti così, ca 
» l’armu ci abbasta: ma cu pattu ca subbito chi 
» torna l’avemu a situari ccà cu nui, cu aviri tutta 
» la putenza chi avemu nui ». Il consiglio è accet- 
tato: Maometto è mandalo in terra, guasta la legge 
di Dio, e fa buona raccolta d’anime per l'inferno, 
dove, lasciati suoi ministri nel mondo, torna a 
martoriare i dannati con Farfarello e Lucifero: 
vedi PITRÈ, Fiabe, Nov. e Racc. popol. sicîl., Palermo, 
Pedone, 1855 IV, 20; e cfr. con Usi e Costumi del 
pop. sicil., IV, 68, del medesimo autore (Palermo, 
Pedone, 1889). 

147 Circa la metà del sec. XVII il QuaREsmIUs non 
sapeva ancora quale delle tante versioni accettare 
per vera: « Alii tamen dicunt, suae eum legis 


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30) 


LA LEGGENDA DI MAOMETTO 


magistrum habuisse monachum quemdam, no- 
mine Sergium, haeresi Nestorii infectum, qui 
eam ob causam monagsterio ejectus, Arabiam 
adierit, et Mahometli adhaeserit, quem Mahometes 
clanculum secum retinens, quaecumque ab eo 
promulganda accipiebat, ab angelo Gabriele sibi 
tradita fuisse mentiebatur. Et quia nestoria- 
norum errores sunt mahometanis communes, 
ideo dicunt reliquae Orientis nationes, Nesto- 
rianos magis ab illis diligi. Non impossibiliter 
alii dicunt, fuisse Mahometis magistrum archi- 
diaconum quemdam Jacobitam, in partibus An- 
tiochiae habitantem: Jacobitae enim praedicant 
cirecumcisionem, Christlum ex Spirito sancto con- 
ceptum et Virgine natum, sanctum et justum. 
sed Deum negant: quae omnia confitetur et prae- 
dicat Mahometes: mortem vero Christi negant, 
alterumque ejus loco fuisse crocifixum, et ipsum 
in coelum ascendisse etc. ». 


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48 G. E. LEwks, Vita di G., trad. ital., Milano, Dumo- 


lard, 1889, p. 201. 


149 Memorie di uomini illustri di Casalmaggiore, Casal- 


maggiore, Bizzarri, 1830, p. 574. 


150 Però, un Sergio monaco dei tempi di Maometto, che 


dimorò in Nirba « Beth-Gazae in cellis, quas Beth- 
« Ainata apellant », e scrisse un libro, dal cui 
titolo gli venne il soprannome di « Subversor, vel 
« Destructor Potentium >», è ricordato nella Hist. 
Monast. di Tommaso Margense (vedi ASSEMANI, 
Op. cit., III, 440). 


1 Anche più tardi, senza far a Maometto nessun me- 


rito dell’aver ridotto un popolo dall’ idolatria al 
monoteismo, gli scrittori ecclesiastici in specie, 
come anche il volgo al dì d’oggi, attribuiscono i 
progressi del maomettismo alla sola indulgenza 
verso le passioni carnali. Il QuARESsMiUs fra tanti: 
» Nec mirandum est, brevi multos eum (Maho- 


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IN OCCIDENTE 301 


» metum) progressus fecisse, quoniam carnalem 
» plane legem suis sectatoribus praescribit, ad 
» quem nimirum animalis homo pronus est ab 
» adolescentia sua (Op. cît., 1, 129) ». 

152 Del resto, per le incertezze e diversità che si notano 
negli autori arabi circa la genealogia di Maometto 
e le generazioni che stanno fra Abramo e lui, vedi 
ASSEMANI, Op. cîit., III, 2, p. 573-9. 

153 Fra gli altri S. Pascasio, Op. cit., p. 106, secondo il 
quale al fatto serve di conferma il consiglio che 
Bahîrà aveva dato allo zio di Maometto, di guar- 
darlo sopratutto dai Giudei: « et praedictus Baira 
vel Babiria est apud Mauros in magna reverentia, 
quia hoc Mahometo prophetizavil ». 

154 Gli storici ammettono che fu fatto su di lui un ten- 
tativo di avvelenamento da una donna giudea in 
un arrosto di montone: vedi CAUSSIN DE PERCEVAL, 
Op. cit., 1II, 200. Questo tentativo, che risale a 
quattro anni innanzi }a sua morte, forse soltanto 
glie la preparò: vedi BARTHÉELEMY SAINT-HiLAIRF, 
Op. cit., p. 144. 

{55 Parecchi autori narrano che questo agnello lo am- 
monisse miracolosamente di non mangiare di lui: 
« Agnus autem ei locutus est dicens, cave ne me 
» sumas, quia in me habeo venenum »: Jac. A 
VARAG. -- « Et agnus locutus est Machometo dicens: 
Non me comedas, quia in me est venenum »: Jac. 
AB Aquir. Vedi per le tradizioni arabe in tal pro- 
posito, LamaiRESsE e Dusarric cit. II, 164. 

log Forse Ì in questo particolare c’ è qualche reminiscenza 
di alcune morti per secessum attribuite ad insigni 
nemici del cristianesimo. Si sa che quando Giuda 
s’impiccò, l’anima non poteva esalarsi per la bocca 
qui toucha a cose tant digne (vedi GrEBAN, Myst. 
de la Passion, p. 288), com’era la bocca del Mae- 
stro. Di Ario, sommo eretico, è comune credenza 
che, nel giorno stesso della sua vittoria e del 


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I.\ LEGGENDA DI MAOMETTO 


suo trionfo « movendoglisi una necessità naturale 
« del corpo... mentre in quell’atto era occupato, 
» morisse subitamente con una terribil sorte di 
» morte, tramandando dalla via commune delle 
» feccie, tutti gli intestini, fegato, milza, sangue 
» e l’anima stessa con le lordure del corpo (BER- 
» NINO, Hist. di tutte l’eresie, Venezia, Baglioni, 
» 1711, I, 241)». Vedi in proposito, RosiÈRESs, nella 
Rev.a.tradit. popul., IV, 97-102. Di Anastasio papa 
« lo qual trasse Fotin dalla via dritta » è pur narrato 
che « andato al segreto luogo dove le superfluità 
» del ventre si dipongono, per divino giudicio, 
» siccome per lutti universalmente si credette, per 
» le parti inferiori gittò e mandò fuori dal corpo 
» tutte le interiora e così miseramente nel luogo 
» medesimo spirò »: Boccaccio, Comm., II, 46. 


(5? « Contigit igitur quadam die, quod crapulatus epulis 


» et vino, quibus sicut praedicabat faciendis 
» maxime intendebat, cecidit super sterquilinium, 
» morbo suo compellente, et, ut dicitur, veneno 
» sibi in cibo illa die dato cooperante per quosdam 
» nobiles, qui superbia ejus invidebant. Torque- 
» baturigitur volutans et spumans, omni sociorum 
» solatio, peccatis suis exigentibus, tunc forte de- 
» stitutus. Quem cum sus quaedam improba, por- 
» cellos habens nondum ablactatos, semivivum 
» comperisset, refectumque cibariis, quorum nido- 
» rem exhalavit, et nausea partim emisisset, suf- 
» focavit »: p. 236. 


1538 Versi 2590-91. 
59 A proposito di statue di Maometto, è da ricordare 


che secondo Turpino (ediz. Gastets, p. 8-9), il 
Mousger ed altri poeti e viaggiatori, una se ne tro- 
vava in Spagna sulla riva del mare a Gade, ado- 
rata dai musulmani, che credevano non perirebbe 
se non quando un Re di Spagna conquisterebbe 
la penisola. Il sig. R. Basset (Hercule et M., in 


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IN OCCIDENTE 303 


Jour. des Savants, luglio 1903) dimostra che la sta- 
tua era di Ercole, che poi essa divenne l’ imma- 
gine di un eroe misterioso e infine di Maometto. 
Essa cadde verso il 1009, e verso il 1145 fu distrutta 
sperando di trovarvi entro un tesoro. 

160 Secondo S. Eulogio (m. 859), Apologet. Martyr. (in 
Max. Patr. Bibl., Lugduni, 1777, XV, 289), gli ani- 
mali che si cibarono del corpo di Maometto sareb- 
ber stati cani: laonde «i musulmani, per vendetta, 
» risolvettero di uccidere ogni anno gran numero 
» di cotesti animali ». Il dotto orientalista Dozy, 
Hist.d. Musulm. d’Esp., Leyde, Brill, 1861, II, 106, 
osserva però che gli spagnuoli cristiani di codesto 
tempo (sec. IX) per odio contro gli arabi, nega- 
vano quasi a se stessi di conoscere la verità intorno 
alla religione dei loro dominatori. « Vivant au 

milieu des Arabes, rien ne leur eft été plus 

facile que de 8’ instruire à ce sujet: mais refu- 
sant obstinément de puiser aux sources qui se 
trouvaient à leur portée, il se plaisaient à croire 
et à répéter toutes les fables absurdes que l’on 
débitait ailleurs sur le prophéète de la Mecque. 
Ce n’est pas dans les écrits arabes qu’ Euloge, 
un des prétres les plus instruits de cette époque 
et sans doute assez familiarisé avec l’ arabe 
pour pouvoir lire couramment un ouvrage histo- 
rique écrit dans cette langue, dat puiser des 
renseignements sur la vie de Mahomet: au con- 
traire, c’ est dans un manuscrit latin que le 
hasard lui fait tomber sous les mains dans un 
cloître de Pampelune ». S. Eulogio invero dice 

di giovarsi di un libro ivi da lui trovato apud 

Legerensem coenobium. Anche S. Pikr Pascasio, 

Op. cit., p. 87, fa divorare Maometto dai porci, 

ma dopo che i Giudei lo avevano ucciso: « et Ju- 

» daei dicunt quod hac de causa, Mauri valde Ju- 

» daeos persequuntur et porcos ». Ma LupoLPHUS 


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304 


IA I1LEUGENDA DI MAOMETTO 


DE SUDHEIM, loc. cit., invece di cani ricorda lupi: 
» a propria uxore intoxicatus fuit: de quo veneno 
» cum esset solur in deserto... solus cecidit et 
» periit. Cujus corpus a lupis et bestiis devoratum 
» fuit. Legitur tamen alibi quod ipsum porci sil- 
» vestres devoraverunt: quod potuit religi de reli- 
» quiis. que lupi reliquerunt, nihilque inventus 
» fuit, nisi vestes ». 


i! Traggo queste citazioni dall'opera del dr. RicHARD 


ScHRODER. Glaube u. Aberglaube in d. alfranzò- 
sisch. Dichtung, Erlangen, Deichert, 1886, dove al 
$ XII sono raccolti e ordinati tutti i passi dei poeti 
francesi antichi che sì riferiscono a Maometto. 
Per i passi delle Chansons de geste veggasi anche 
V. ChÙauvin, op. cit., p. 217 e segg. Aggiungasi 
la menzione che di tal morte di Maometto si trova 
nel romanzo in prosa di Ogier le Damnmnoys, rife- 
rita da R. RENIGR, in G. St. Lett. Ital.. XVII, 444. 
Notisi, poichè altrove non lo abbiam fatto, che in 
questa forma della Leggenda, Maometto si pre- 
senta al Papa, lo affida di una larga conversione 
di pagani al cristianesimo, raggiunge l’ intento, 
ma quando torna a Roma per ottenere la promessa 
ricompensa, gli si risponde che quei paesi da lui 
convertiti costituirebbero un grande impero, e gli 
se ne darebbe solo una parte. Allora Maometto si 
separa sdegnato dal Papa, e tornato ai suoi, si fa 
adorare egli come Dio. 


102 Op. cit., p. 130. 
163 Parecchi scrittori accennano alle cause per le quali 


Maometto insegnò a dispregiare il porco. Fazio le 
espone così: 


Ma quel che per più ver tra lor si pone, 
È ciò che in la sua legge seritto è 
AI libro u’ tratta de generatione, 

Che essendo dentro all’ arca sna Noè 
Là dallo sterco del leofante nacque 
Il porco, il quale appresso il topo fà. 


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IN OCCIDENTE 305 


E perchè il topo nato non si tacque 
Di roder l’ asse, e l’ avea quasi fratta, 
Noè temendo non passasser |’ acque, 
Come gl’ impose Dio, corse di tratta 
Allo leone, e quel percosse in fronte 
E dalle nari fuor venne una gatta. 
Or per queste parole ch’io t’ ho conte, 
A dispregiare il porco e nol volere 
Le genti saracine sono pronte. 


Nulla di ciò è nel Corano. Ma la novelletta si trova, 
come vedemmo in JacoPo DA VARAGINE, e poi nel 
Liber de temporibus, in FRA Ricorno, ediz. cit., 
p. 128, in Jacopo pa VITRY, ediz. cîit., p. 1056, in 
M. SANUTO, Liber secr. fidel. crucis, Hanoviae, 1611, 
p. 123 etc. JACOPO DA AQUI vi accenna fuggevol- 
mente. E vive ancora fra le genti musulmane: 
infatti il sig. Basset la raccolse fra i Berberi, ove 
è così raccontata. Quando l’arca fu costruita, il 
cinghiale ne rompeva le assi colle sue zanne. Noè 
vi pose riparo, e dalla sua mano, ferita in siffatto 
lavoro, sgorgarono alcune gocce di sangue, ch’ei 
ricoprì di terra. Da queste, riscaldate dai raggi 
del sole, nacque il leone, che si gettò sul cinghiale 
e lo mangiò. Ma da uno starnuto del cinghiale era 
nato un topo, e da quello del leone un gatto : perciò 
i leoni mangiano i cinghiali e i gatti i topi: vedi 
Contes popul. berbères, Paris, Leroux, 1887, p. 25. 
164 Anche alcuni antichi autori vi accennano; fra questi 
S. Pier Pascasio, p. 43, il quale dopo aver rife- 
rito che Axa, moglie di Maometto, lo avvelenò 
per accertarsi se fosse vero o falso profeta, sog- 
giunge: « In Maurorum libris scriptum est, quod 
Axa... dixit quod, quando Mahometus in mortis 
angustia erat, petit ab illa vas aquae, et manu 
propria faciam suam lavit, et postea aquam super 
se effudit. Et hac de causa, aliqui Christianorum 
dixerunt quod hoc Mahometus fecit ad osten- 
dendum, in eo quo potuit modo in baptismo 


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D’ ANCONA - II 20 


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306 


LA LEGGENDA DI MAOMETTO IN OCCIDENTE 


> esse salutem animarum, sicuti christiani dicunt 
» et faciunt. Sed daemones quibus obeedivit et 
» servivit, illi non dederunt locum, ut hoc ore pro- 
» prio declararet, diceret el confiteretur ». V. an- 
che CameRrARIUS, I, III, 1, cit. in BAYLE, Dictionn. 
Del resto, il fondamento di fatto di questa fiaba 
del battesimo di Maometto, toltane la conseguenza 
aggiunta dalla tradizione crisliana, èammesso dagli 
scrittori musulmani; « On rapporte que Mahomet 
» (morente) avait auprès de lui un vase d’eau, dans 
» lequel il trempait de temps en temps le mains pour 
» se rafraîchir »: ReinAUD, artic. Mahomet, della 
Nuov. Biograph. génér. del Didot, XXXII, p. 813. 


16 Vedi LamaiRESSE e DesaRRic, Vie de M., cit. IL, p. 311. 
16 De CASTRIES, L'Islam, Paris, 1896; Z1OLECKI, Roman 


de M., vers. 1901, del quale riferiamo il passo. 


En la terre ne l’ osent metre, 

{. linsiel de fier forgier font, 

Le cors Mahom coucher i font; 
Une maisonnette voltee 

Font d’ aymant si compassée 

K'° en mi liu ont le cors laissie, 
Ni a rien ne l’ont atachie, 

En l’ air sans nul loien se tient, 
Mais li aymans le soustien, 

Par sa nature seulement 

De toute partie ingaument. 
Nequedent n’i atouche mie 

Sa gens, n’a talent ki l° otrie 
Ains dit que Mahons par miracle 
Se soustient en son abitacle. 


Vedi anche DoutT£ cit. p. 12; e R. OTTO, M. in 


d. Anschauung d. Mittelalt., in Mod. Lang. Notes, 
1889, 25, 1889, n. 1-2. 


167 Du MéRIt, Poés. popul. latin. du M. A., Paris, 1847, 


p. 415. 


16 Nella descrizione di Palermo, pubbl. dall’ Amari in 


Journ. Asiat.., ser. IV, vol. V, p. 92. 


69 Paradiso, XXXI, p. 35. 


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AGGIUNTE E CORREZIONI 


PARTE I 


Pag. 96, lin. 9: su e sue corr. su le sue. 


Pag. 


195, » terz’ultima: o dicevano corr. lo dicevano. 

220, » 15-17: se sufficiente a quanto ne abbiamo 
riferito non ci fosse parso mostrare 
corr. se quanto ne abbiamo riferito 
non ci fosse parso sufficiente a mostrare 

295, » 26: sottil differenza corr. più sottil diffe- 
renza 

260, » 32: inclusivo corr. inclusive 

265, nota 76: Vigo, 1878 corr. Giusti, 1906 


PaRtE II 


10, lin. 1: del secolo decimoterzo aggiungi e del- 
antecedente 

130: Aggiungasi circa la novella dei tre anelli, il 
bel saggio di G. PARIS (La poésie du 
Moyen Age, 2° série, Paris, Hachette, 
1895, p. 131): La Parabole des trois 
anneaux. 

181, lin. 7: verbi corr. verbis 

992, >» 29: un mercante e un conduttore di cam» 
melli corr. un mercante e cond. dicam. 


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308 AGGIUNTE E CORREZIONI 


Pag. 244, nota 10: Tardi è giunto a mia notizia e sì 
da potermene giovare, uno scritto del 
sig. P. ALPHANDERY, Mahomet Anti- 
christ dans le Moyen-dge latin, inserito 
nei Mélanges Hartwig Derenbourg. 
Paris, Leroux, 1909, p. 261. 

» 283: Si sopprimano dalla lin. 3 alla 5 le parole 
dopo Magumet ponebat sino al secondo 
Magumeth ponebat. 

» 299, nota 145, lin. 3. Si aggiunga dopo 33: Nei 
Mélunges Dereunbourg è da vedere una 
Memoria di P. Casanova, Mahomet, 
Jupin, Apollon, Tervigant, dieux des 
Arabes. 


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INDICE 


PARTE PRIMA 


I. - Il concetto dell’ unità politica nei poeti 


Mallanl'soruih dea Len pra Pag. 1 
Nole. 6Ri esente » 55 
II. - Letteratura civile dei tempi di Carlo Ema- 
Muele:lt: «asse sa ica e Cee » 101 
NO[:sie pace ar ue.» 139 


III. - Cecco Angiolieri da Siena, poeta umorista 
del secolo decimoterzo 


PARTE SECONDA 


IV. - Del « Novellino » e delle sue fonti . .. Pag. 1 


NOI: wait rn eri » 53 
V. - La leggenda di Maometto in Occidente . » 165 
Noesis dhe bel be e » 9243 


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Finito di stampare 
il XX gennaio MCMXII 
nella Tipografia di Paolo Nerî 
in Bologna 


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